Il senso comune penale

Il gap esistente tra il senso comune penale e il concreto funzionamento del sistema di giustizia penale è estremamente elevato. Per dirla in altri termini, l’uomo della strada possiede nozioni profondamente distorte di come funziona, ad esempio, l’ordinamento penitenziario e non è certo aiutato da chi si occupa di informazione per mestiere, se si pensa che sono spesso proprio i giornalisti a interpretare gli eventi che ricadono nella cronaca nera in maniera non corretta, alimentando fraintendimenti e sensazionalismi.

Tre esempi, fra i tanti possibili, illustreranno le dimensioni di questo gap.

Sebbene l’art. 27 della nostra Costituzione affermi recisamente che  “Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”, la maggior parte delle persone è convinta che l’unica funzione del carcere debba essere quella retributiva o punitiva e che, se un individuo è condannato a, diciamo, otto anni di reclusione, debba scontarli tutti in prigione fino all’ultimo giorno. Ogni deviazione da questo modello retributivo viene avvertita come sconcertante, ignobile, scandalosa e suscita indignazione nei benpensanti. Nel senso comune penale, non esistono misure alternative alla detenzione, differimento della pena, sanzioni sostitutive, così che, se un detenuto “esce” in detenzione domiciliare, avendone tutti i requisiti, è come se fosse “messo in libertà” e non scontasse in pieno la sua pena. Eppure, le misure alternative alla detenzione sono in vigore dal 1975!

Gli stessi giornalisti rafforzano l’equivoco, parlando di detenuti liberati o scarcerati, senza chiarire che cos’è la detenzione domiciliare e quali sono le condizioni per ottenerla.

Chi sa, infine, che, secondo le ultime tendenze, il carcere è probabilmente destinato a essere solo l’extrema ratio a favore delle cosiddette misure penali di comunità e della cosiddetta giustizia riparativa?

Un altro equivoco in cui ci si imbatte spesso è la confusione tra “arresti domiciliari” e “detenzione domiciliare”. Gli arresti domiciliari sono una misura cautelare personale, coercitiva e custodiale, disciplinata dall’art. 284 del codice di procedura penale destinata agli imputati, ossia a persone non ancora riconosciute definitivamente colpevoli, e vengono inflitti quando sussistono gravi indizi di colpevolezza o esigenze cautelari.

La detenzione domiciliare, invece, come detto è una misura alternativa alla detenzione, prevista dall’ordinamento penitenziario, che viene concessa alle persone condannate in via definitiva, se sussistono determinate condizioni soggettive e oggettive (ad esempio, se si è donne incinte o madri di figli di età inferiore ai dieci anni, se si hanno 70 anni, se si è malati gravemente, se restano da scontare quattro anni di reclusione ecc.).

Si tratta di due istituti profondamente diversi, che però vengono confusi pervicacemente, anche da giornalisti e presunti esperti. Un abominio che non si riproverà mai abbastanza.

Infine, un altro luogo comune vuole che l’ergastolano debba rimanere tra le mura penitenziarie fino alla morte, senza alcuna speranza di uscire. Chi crede che le cose stiano così dovrebbe però ricredersi. Ad esempio, secondo l’ordinamento penitenziario, l’ergastolano ha diritto, se sussistono le giuste condizioni, ad usufruire di permessi premio o del lavoro esterno dopo aver scontato dieci anni di reclusione, a godere della semilibertà dopo venti e della libertà condizionale dopo 26. Come? Un ergastolano (semi)libero? Anche qui il benpensante grida allo scandalo (insieme al giornalista), ma il suo scandalo è frutto di ignoranza.

Ancora una volta, una giusta informazione potrebbe fare molto per colmare il gap di cui sopra. Eppure, che speranze abbiamo se proprio coloro che dovrebbero aiutare in questa azione sono i primi a cedere a disinformazioni ed equivoci?

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Il paradosso della fenice

Un concetto curioso, ma molto utile, dell’economia politica è il cosiddetto “Fattore fenice”. Con questo termine si intende il fenomeno per cui

la ricostruzione post-bellica innesca una tendenza espansiva dell’economia, con una forza che è direttamente proporzionale alla quantità di distruzioni del tessuto industriale subite dal paese durante a guerra. […] Poiché sono i paesi sconfitti che normalmente subiscono le maggiori devastazioni, i loro successivi tassi di sviluppo economico sono maggiori di quelli dei paesi vincitori: Giappone, Germania, Italia hanno sperimentato negli anni cinquanta tassi di sviluppo superiori a quelli delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. La spinta verso un’economia di pieno impiego (con le sue normali conseguenze politiche, in primis il rafforzamento delle organizzazioni sindacali e del loro potere contrattuale) ha in larga misura origine dalle esigenze della ricostruzione (Pasquino, G. (a cura di), 1986, Manuale di scienza della politica, Il Mulino, Bologna, p. 482).

Il paradosso della fenice ci aiuta a capire come situazioni di boom economico apparentemente miracolose vadano inquadrate nella cornice storica in cui si verificano e non siano affatto tali se si fa riferimento alla “base di partenza”. Quando il punto di partenza è “zero” o quasi, la crescita economica, anche se raggiunge numeri che altri paesi, con base di partenza molto diversa da zero, raggiungono, appare enorme, straordinario, senza precedenti. E, in effetti, è così. Ma il miracolo è frutto della “cornice” percettiva di riferimento.

Lo stesso avviene in altre situazioni in cui la disparità delle condizioni di partenza genera una percezione di eccellenza di uno dei concorrenti in gara. Avviene nello sport, quando una squadra raggiunge risultati inattesi dopo anni di insuccessi; in politica, quando un partito riceve un numero di voti mai raggiunto; al Liceo, quando uno studente consegue voti molto positivi dopo aver conseguito voti molto negativi.

La retorica dell’eccezionalità e dell’eccellenza è oggi molto diffusa, ma spesso ciò che appare eccezionale ed eccellente è tale solo in rapporto alla base di partenza.

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Come i ruoli ci condizionano

Capita di sentir dire: “Non mi vedo come insegnante!” oppure “Non potrò mai essere un dirigente!” oppure ancora “Per me sarebbe impossibile ballare!” o, infine, “Sarei un pessimo genitore!”.

Si tratta di affermazioni basate su aspettative di ruoli mai interpretati e verso cui immaginiamo esiti negativi.

In realtà, la sociologia ci insegna che è il ruolo ad attivare le funzioni, ossia che l’esperienza di sé in contesti insoliti chiama in causa risorse di noi stessi che non immaginavamo di avere e che diversamente rischiano di rimanere inesplorate.

Lo stesso meccanismo è all’opera quando diciamo: “Se diventerò un marito (moglie)/genitore/dirigente/ rimarrò la stessa persona. In realtà, il mero fatto di assumere un ruolo diverso induce in noi dei cambiamenti che – gradualmente di solito, ma a volta anche repentinamente – conducono a un cambiamento della nostra personalità.

Insomma, non siamo un insieme fisso di tratti, ma entità sensibili al cambiamento, dato il contesto adeguato (un nuovo ruolo, ad esempio).

Sono, quindi, senza fondamento le preoccupazioni di quanti non accettano di cambiare perché non sarebbero mai in grado di interpretare un nuovo ruolo. Si pensi a coloro che decidono di non sposarsi perché “non sarebbero mai dei buoni mariti/delle buone mogli” o che decidono di non avere figli perché “non sarei mai un buon padre/una buona madre”.

“Sono fatto così!” ci difendiamo, barricandoci dietro un’identità che supponiamo (o che ci fa comodo supporre) immutabile e che, in realtà, è solo il precipitato di anni di abitudini e routine.

Spesso, il semplice fatto di sperimentare un nuovo ruolo attiva in noi energie che non credevamo di avere. Non a caso alcuni orientamenti terapeutici indicano nel “gioco di ruolo” un metodo utile per conoscerci meglio e facilitare il cambiamento.

Queste riflessioni, sedimentate da tempo nelle teorie sociologiche, ci insegnano che i ruoli possono essere gabbie che condizionano la nostra vita, ma anche occasioni per sperimentare nuove versioni di noi stessi. Sta a noi utilizzarli in un modo o nell’altro.

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Quando il fumo era opera del diavolo

Sembra che ad aver introdotto il “vizio del fumo” in Europa, dopo averlo osservato presso le tribù indigene con cui entrarono in contatto, furono due marinai di Cristoforo Colombo. Il primo, il portoghese Sancho, è stato il primo europeo ad aver fumato una foglia di tabacco arrotolata.

Il secondo, Rodrigo de Jerez, fu il primo europeo ad averne concretamente introdotto l’uso in Spagna.

Il fatto curioso è che, quando de Jerez tornò in Spagna, accompagnato da questo inusitato comportamento, l’inquisizione giudicò il fumo che usciva dalla sua bocca e dal suo naso opera del diavolo e l’esploratore trascorse vari anni – qualcuno dice uno o due, altri addirittura sette o dieci – in prigione.

Ironicamente, qualche anno dopo, fumare tabacco cominciò a prendere piede anche in Spagna, seppure limitatamente alle classi sociali più elevate, e il fumo non apparve più come manifestazione diabolica.

Oggi, preti, vescovi e cardinali fumano disinvoltamente e nessuno di essi si sognerebbe di sentirsi più vicino al diavolo per questo motivo. Fa specie, però, che qualcuno sia stato in carcere per diversi anni per aver fatto qualcosa che, anni dopo, è diventato normale.

È successo, del resto, con tanti altri comportamenti, prima ritenuti condannabili e poi approvati addirittura da leggi: si pensi al divorzio o all’aborto. È l’ennesima dimostrazione del fatto che la devianza è relativa e varia con il tempo e con lo spazio.

Oggi, il fumo è di nuovo demonizzato: non per ragioni religiose, ma salutari. Dimostrazione del fatto che anche i motivi di biasimo variano con il tempo e lo spazio.

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Aspettative sociali e alcolismo

È noto che gli effetti di sostanze psicotrope sul comportamento dipendono non solo da fattori chimici o fisiologici, ma anche dalle aspettative associate a quelle sostanze. Un esempio impressionante in tal senso è dato da uno studio condotto da Marlatt e Rohsenow (1981) sull’assunzione di bevande alcoliche.

I due condussero un esperimento rivolto a quattro gruppi di soggetti (maschi e femmine, alcolisti e bevitori in occasioni sociali) differenziati in base al tipo di sostanza che era stato loro detto che avrebbero bevuto e al tipo di sostanza che avrebbero realmente bevuto:

1) soggetti che si aspettavano di bere alcol e che avevano bevuto realmente alcol;

2) soggetti che si aspettavano di bere alcol e che invece avevano bevuto acqua tonica;

3) soggetti che si aspettavano di bere acqua tonica e che invece avevano bevuto alcol;

4) soggetti che si aspettavano di bere acqua tonica e che avevano bevuto acqua tonica.

I risultati evidenziarono alcuni aspetti interessanti.

I comportamenti motori dei soggetti avevano strettamente a che fare con la quantità di alcol che essi credevano di aver consumato, sia nel caso in cui pensavano di avere bevuto alcol, sia in quello in cui credevano di aver assunto una bevanda non alcolica. Allo stesso modo anche altri aspetti del comportamento sembravano dovuti più a ciò che ritenevano di aver bevuto che non alla sostanza che avevano realmente consumato.

Sia gli alcolisti che i social drinkers bevevano di più nel caso in cui pensavano di avere a disposizione dell’alcol (anche se in realtà assumevano acqua tonica) rispetto a quando ritenevano di stare bevendo una bevanda non alcolica. I sintomi dell’astinenza manifestati dagli alcolisti diminuivano quando essi ritenevano di aver ingerito alcol (anche se stavano in realtà bevendo una bibita non alcolica) e persistevano invece nel caso in cui pensavano di aver ingerito dell’acqua tonica (anche se in realtà si trattava di alcol).

I livelli di ansia dei soggetti maschi si modificavano (diminuendo nel primo caso e accentuandosi nel secondo) in rapporto a ciò che pensavano di aver bevuto, indipendentemente da ciò che avevano effettivamente assunto. Gli uomini diventavano più aggressivi quando pensavano di aver bevuto degli alcolici rispetto a quando pensavano di aver assunto degli analcolici e sia gli uomini che le donne si sentivano sessualmente più disponibili nel caso in cui ritenevano di aver bevuto degli alcolici.

Contrariamente al senso comune, dunque, credenze, aspettative e desideri influiscono sugli effetti di ciò che assumiamo. Ciò vale anche per medicine, veleni, droghe in generale. Anche per il cibo. Non esiste un effetto di una sostanza scisso dalle aspettative che abbiamo su di essa. Se non ci credete, provate a somministrare un cibo poco appetibile secondo la nostra cultura spacciandolo per un cibo appetibile: ad esempio dei vermi. Se chi mangia non è consapevole di ciò che sta mangiando, la sua reazione sarà del tutto diversa rispetto a quando ne sarà consapevole. E la differenza si manifesterà talvolta in reazioni spettacolarmente inconsuete.

Fonti:

Ravenna, M., 1993, Adolescenti e droga, Il Mulino, Bologna, pp. 31-32.

Marlatt, G.A. e Rohsenow, DJ, 1981,  “The think-drink effect”, Psychology Today, 93, pp. 60-69.

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L’effetto Peltzman e il Covid-19

Nel 1975, l’economista Sam Peltzman della University of Chicago pubblica un articolo destinato a essere ricordato ancora oggi, al punto da dare origine al cosiddetto “effetto Peltzman”.

L’articolo, intitolato “The Effects of Automobile Safety Regulation”, pubblicato nel Journal of Political Economy, rivela una conseguenza paradossale dell’introduzione di alcuni dispositivi di sicurezza nel mercato dell’auto; dispositivi che dovrebbero ridurre il numero di incidenti stradali, ma che producono una serie di effetti non intenzionali. Subito dopo la loro introduzione, infatti, il numero di morti per cause incidentali diminuisce, per poi ritornare al livello precedente o addirittura aumentare.  

Come si spiega questo paradosso? Sam Peltzman propose una interpretazione in termini di “Risk Compensation”. Questa teoria afferma che le persone di solito adattano il loro comportamento al livello percepito di rischio. Così facendo, diventano più attente quando percepiscono un rischio maggiore e meno vigili quando si sentono più protette.

Adottando questa teoria, Peltzman ipotizzò che l’introduzione di nuovi dispositivi di sicurezza, come le cinture o gli airbag, avesse inizialmente diminuito la percentuale di morti automobilistiche, ma avesse successivamente indotto un senso di maggiore sicurezza, favorendo, quindi, una guida meno accorta o più veloce con conseguente aumento del numero delle vittime della strada.

Secondo alcuni osservatori, l’effetto Peltzman potrebbe avere un ruolo anche nella persistente diffusione del Covid-19. Il falso senso di sicurezza generato dalla vaccinazione può, infatti, condurre gli individui a trascurare gli abituali comportamenti preventivi e protettivi, come lavarsi spesso le mani, osservare la distanza di sicurezza e indossare la mascherina. A ciò contribuisce anche quello che gli anglofoni chiamano pandemic fatigue, la stanchezza provocata dalla prolungata conformità alle strategie di riduzione del rischio di infezione virale.

L’effetto Peltzman può tradursi anche in una eccessiva fiducia nella cosiddetta immunità di gregge: se non sono vaccinato, ma tanti si vaccinano, posso ritornare alla mia vita precedente senza problemi, perché “parassita” delle scelte della maggioranza.

Infine, l’effetto Peltzman può dare origine anche a una sorta di “effetto spettatore”. Osservare gli altri adottare ogni tipo di precauzione può potenzialmente accrescere la probabilità di adottare comportamenti rischiosi: se gli altri si lavano le mani, rispettano la distanza di sicurezza e indossano la mascherina, io sono comunque al sicuro e posso, quindi, rinunciare a mascherine, distanza di sicurezza e lavaggi frequenti.

Insomma, è un mal riposto senso di sicurezza a favorire, tra tanti altri fattori, la diffusione di virus e contagi, così come gli incidenti automobilistici di cui parlava Sam Peltzman nel 1975.

Si tratta di un elemento decisivo, seppure trascurato, che dimostra, ancora una volta, che le epidemie non sono fenomeni meramente virologici, ma anche psicologici e sociologici, e che quindi dovrebbero essere maggiormente studiate da questi punti di vista.

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Il nazionalismo banale delle Olimpiadi

Non c’è forse atteggiamento più banalmente nazionalista di quello che, da qualche giorno, serpeggia nei commenti sui Giochi olimpici di questi giorni.

La manifestazione che dovrebbe celebrare il trionfo dello sport in quanto sport, il record in quanto record, la grandeur di uomini e donne che si spingono oltre i loro limiti diventa, nelle parole di giornalisti, commentatori, opinionisti, l’ennesimo fatto sportivo incorniciato in un’ottica tacitamente nazionalista in cui non importa tanto l’impresa del corridore o il primato del judoka, ma il numero di medaglie “portate a casa” dal “nostro” paese nonché la loro sostanza (oro, argento o bronzo).

Così, il valore delle competizioni viene ridotto a uno sterile esercizio contabile in cui conta chi ha conseguito più ori, più argenti e più bronzi con la conseguenza paradossale che un bronzo senza infamia e senza lode ottenuto da un “nostro” atleta “varrà” più, nel nostro immaginario nazionalista, del record mondiale stabilito dal velocista di un paese “straniero”, il quale verrà certamente menzionato, ma a cui non sarà concesso lo stesso spazio e le stesse acclamazioni che strariperanno per il “bronzista” italico.

Un’altra conseguenza paradossale è che sport sconosciuti o quasi acquistano valore solo perché a trionfare è uno sportivo nostrano, come dimostra la vicenda di Vito Dell’Aquila, vincitore della medaglia d’oro nella disciplina del taekwondo, ancora oggi sport alquanto “esotico” per molti italiani.

Questo “nazionalismo banale” – espressione coniata dallo psicologo Michael Billig – è tanto silenzioso e strisciante, quanto imponente perché dato per scontato, mai messo in discussione, parte del sottofondo cognitivo che anima le nostre esistenze.

In quanto atteggiamento scontato, ogni giornalista sportivo si sente in dovere di proiettarne la cornice sui giochi olimpici, fornendo una interpretazione a senso unico che viene condivisa da spettatori e semplici cittadini.

Come dimostrano le Olimpiadi, e lo sport in generale, il nazionalismo è, dunque, lungi dall’essere morto, anzi è vivo e vegeto proprio perché tacito e ovvio. Anzi, finisce con il dare valore a eventi di per sé minori nel nome del sangue e della stirpe italica, termini senz’altro in disuso, ma che rendono bene la retorica diffusa intorno a questi eventi.

Alla fine, conterà solo il medagliere e l’esito delle Olimpiadi sarà assimilabile all’impresa di un ragioniere. Solo che non ce ne rendiamo conto perché tutto ciò che conta è che vinca l’Italia.

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Sulla teoria del passaggio (ancora)!

Una delle credenze più radicate in tema di droghe è riassumibile nella cosiddetta gateway theory, chiamata anche stepping-stone theory, escalation theory, progression theory o, in italiano, “teoria del passaggio”. Si tratta dell’assunto secondo cui l’uso di droghe “leggere” come la marijuana condurrebbe inevitabilmente all’uso di droghe più “pesanti” come eroina o cocaina. Per dirla con un luogo comune: si inizia con lo spinello e si finisce con l’eroina.

Di questa credenza ho già discusso in un altro post, dove facevo notare che essa sconta un grave errore logico: il post hoc ergo propter hoc. Il fatto che il consumo di droghe pesanti segua il consumo di droghe leggere non significa che il primo sia causato dal secondo, così come il fatto che un etilista abbia iniziato bevendo un bicchiere di vino al giorno non significa che quest’ultimo sia alla base dell’alcolismo.

La teoria del passaggio, che pure ha avuto un certo successo anche in ambiente accademico, è stata smentita da diverse ricerche empiriche.

In una di queste – che traggo integralmente da Ravenna (1993) – Kandel (1980), esaminando i dati emersi da svariate ricerche compiute tra il 1971 ed il 1980 su campioni estesi di popolazione giovanile, ha ipotizzato che esista una sequenza nell’uso delle diverse sostanze che prevede 4 stadi: l’uso di birra e di vino (I) precede in genere quello del tabacco e/o di superalcoolici (II); questo a sua  volta precede quello di marijuana (III) e 1’uso di marijuana quello dell’eroina (IV). Le ricerche esaminate dall’autrice indicano, in particolare, che fra tutti i giovani che hanno  provato l’alcool (il 93% circa), l’83% ha in seguito fumato sigarette e successivamente marijuana (68%). Mentre l’uso di alcool nella maggior parte dei casi si protrae nel tempo, ciò non si è dimostrato altrettanto vero per quello di tabacco e di marijuana. La maggior parte di quelli che hanno provato queste sostanze ne fa in genere un uso discontinuo ed episodico, e solo il 43% di coloro che hanno fumato sigarette ed il 38% di quelli che hanno provato la marijuana ne diventano dei consumatori regolari. Di questi ultimi solo una limitata percentuale (indicata nei termini di un quarto della popolazione considerata) prova in seguito altre droghe e una percentuale ancora più ridotta instaura con esse un rapporto abituale. L’uso delle droghe lecite precede quello delle illecite indipendentemente dall’età in cui si verifica l’iniziazione a quest’ultime. È assai infrequente che gli adolescenti provino la marijuana senza aver prima provato l’alcool o le sigarette e sono molto pochi quelli che iniziano ad assumere delle droghe illecite diverse dalla marijuana.

Kandel, oltre ad aver indicato il ruolo cruciale che droghe lecite quali l’alcool e il tabacco svolgono nel facilitare 1’uso di marijuana ha anche rilevato che ogni fase coinvolge un numero minore di soggetti rispetto alla precedente e che il fatto di essere in una certa posizione della sequenza non implica necessariamente il progresso ad una ulteriore (in altre parole, ad esempio, l’uso di marijuana sembra essere un antecedente necessario ma non sufficiente a quello di eroina). L’uso di una particolare droga rende semplicemente più probabile il passaggio alla fase successiva, ma non esclude che ci si possa fermare in un qualsiasi punto della sequenza senza progredire. I fattori che svolgono un ruolo determinante nella progressione sono la precocità dell’iniziazione e il grado di coinvolgimento nel consumo.

Tutto questo ha permesso di confutare definitivamente la teoria del passaggio sviluppatasi negli USA negli anni ‘60 durante il dibattito sulla liberalizzazione della marijuana.

Ciononostante, sono ancora in molti a credere che “tra spinello ed eroina” sussista un rapporto necessario e che per questo sia importante rinunciare a ogni forma di legalizzazione delle droghe leggere.

Allo stato attuale, la teoria del passaggio rappresenta un mito criminologico che continua a far danno perché strizza l’occhio al senso comune, incurante di quello che dice la scienza.

Di questo e di tanti altri miti sulla criminalità ho discusso in due miei libri: 101 falsi miti sulla criminalità e Delitti. Raptus, follia e misteri. Dalla cronaca alla realtà, che vi invito naturalmente a leggere.

Bibliografia:

Kandel, D. B., 1980, “Drug and Drinking Behavior among Youth”, Annual Review of Sociology, 6, pp. 235-285.

Ravenna, M., 1993, Adolescenti e droga, Il Mulino, Bologna, pp. 83-84.

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Thomas Jefferson e la politica con il commesso

Un indizio apparentemente labile di come sia cambiata la politica negli ultimi quattro secoli è ricavabile da un aneddoto riguardante Thomas Jefferson (1743-1826), terzo presidente degli Stati Uniti d’America (1801-1809), nonché uno dei padri fondatori della nazione. Racconta Joshua Meyrowitz, autore di uno dei più importanti testi sul potere delle comunicazioni di massa, Oltre il senso del luogo: come i media elettronici influenzano il comportamento sociale (Baskerville, 1985),   che Jefferson evitava persino di parlare al Congresso, preferendo mandare messaggi scritti che venivano letti da un commesso, a riprova del fatto che, in precedenza, i politici erano figure distanti, viste solo da una piccolissima parte della popolazione, non certo avidi di presenzialismo.

Nell’epoca dell’elettronica, tutto è cambiato. Oggigiorno, i vari Berlusconi, Conte, Merkel, Boris Johnson, giù fino al più “umile” aspirante alla carica di consigliere comunale, appaiono con regolarità sugli schermi televisivi, tanto da costituire figure a noi familiari, forse più di amici e parenti. Anzi, le loro apparizioni sono più importanti dei contenuti che quelle apparizioni dovrebbero veicolare.

I contenuti, infatti, sono sempre soggetti a revoca, rettifica, mutamento, finanche alla “regola del fraintendimento” (“Lei non ha capito quello che intendevo dire…”). Le apparizioni, al contrario, permangono nel nostro immaginario, inumando parole e discorsi e travolgendo ogni senso critico.

Dal canto loro, i media trattano i discorsi dei politici come degni di essere riportati, dando spazio alle immagini/parole di presidenti e primi ministri e scavando perfino nella loro vita intima, artatamente modificata in modo da essere sempre notiziabile.

Con questo non voglio dire che i politici di un tempo fossero migliori di quelli di oggi. È probabile che un Jefferson teletrasportato nella nostra epoca sarebbe costretto a modificare totalmente la propria condotta politica, se volesse essere eletto presidente degli stati Uniti.

Inoltre, la continua esposizione dei politici contemporanei ai media elettronici ha, se non altro, il merito di renderli giocoforza più trasparenti, mentre, invece, nel passato i politici erano noti per tramare alle spalle della popolazione nelle loro stanze segrete.

Prima tramite la radio, e ora grazie alla televisione, uomini e donne politici possono parlare pacatamente a milioni di persone, utilizzando una retorica della prossimità decisamente nuova per l’oratoria politica.

Questo ce li rende più vicini, ma la vicinanza non è necessariamente un vantaggio. Anzi, talvolta facilita inganni e illusioni.

In conclusione, non so se un Jefferson con commesso sia migliore di un Renzi con Bruno Vespa. È certo, però, che il loro modo di fare politica è totalmente diverso. A noi sentenziare quale sia il modo migliore.

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Le trappole dell’overselling

In ambito economico, con overselling si intende la vendita di merci o servizi al di sopra della reale disponibilità. In ambito politologico, invece, il termine indica la retorica, spesso sproporzionata, con cui i leader politici tentano di superare le resistenze alle loro proposte. Questo meccanismo spinge regolarmente alla drammatizzazione dei problemi e produce tentativi di fare apparire una situazione di non crisi «come se» fosse una situazione di crisi.

In questo modo, ogni questione è trattata come se da essa dipendesse la soluzione di un problema incombente, legato ai «supremi» dilemmi della sicurezza, della pace e della guerra, al fine di migliorare la propria posizione contrattuale.

L’overselling è una tecnica costantemente usata dai leader politici ed è parte integrante delle schermaglie tra fronti opposti in cui la soluzione è data, naturalmente, dall’adesione al verbo dell’overseller. Questo meccanismo induce effetti regolarmente distorcenti nella valutazione della situazione da parte degli osservatori esterni (cittadini comuni, commentatori politici, scienziati politici) che sono così portati a cedere a versioni sensazionalistiche e raccapriccianti della realtà.

Lo si è visto nelle policy adottate per fronteggiare l’emergenza coronavirus, spesso più inclini a propagare versioni contradditorie, drammatiche e letali della situazione che a diffondere informazioni corrette sull’argomento.

Lo si vede costantemente, quando i politici creano emergenze ad arte per distrarre l’opinione comune dalle issues che contano, come quando i numeri dell’immigrazione sono amplificati a tal punto da far temere invasioni di popoli interi, pronti a spazzare via la stirpe italica pur di abbandonare il loro paese.

L’overselling è una delle strategie predilette dei politici perché crea sensazione e attira l’attenzione, interrompe gli altri schemi mentali e intralcia il ragionamento corretto. Favorisce l’emotività ai danni dell’equilibrio della ragione. Confonde la realtà con la sua esasperazione. Stimola le difese dell’irrazionalità contro il buon senso quotidiano. Ci induce a strapparci i capelli quando dovremmo semplicemente pettinarli.

Insomma, l’overselling è pura retorica propagandistica.

Fonte: Pasquino, G. (a cura di), 1986, Manuale di scienza della politica, Il Mulino, Bologna, p. 463.

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