Attualità del guidrigildo

Siamo convinti che la morte come pena sia un relitto di epoche barbare, parte di vestigia che rimandano a periodi bui dell’umanità, niente a che fare con lo splendore della civiltà contemporanea, illuminata dalla conquista della pena umana che “deve tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27 della Costituzione italiana).

In realtà, come ricorda Italo Mereu nel sempre attuale La morte come pena (1982, Espresso Strumenti), è proprio con l’avvento dell’epoca moderna che la morte come pena trionfa, diventa la nuova unità di misura, la panacea miracolosa con cui si rimedia a tutto. È con la modernità che essa viene «impiegata contro chiunque: assassini e borsaioli; rapinatori e ladri di vasi sacri; stupratori e devastatori di vigne; regicidi ed omosessuali» (p. 42). Ma anche contro suicidi mancati, cattolici che fanno sesso con ebree o cani, delinquenti comuni e adulteri.

Nell’alto Medioevo, invece, in quelli che tutti ancora oggi definiscono i secoli bui della storia dell’Occidente, vigeva l’istituto del “guidrigildo” o “composizione”, ossia il prezzo dell’uomo che l’uccisore doveva pagare alla famiglia dell’ucciso per evitarne la vendetta.

Si tratta di una forma di risarcimento che se, da un lato, può apparire “rozza” alla nostra sensibilità contemporanea, la quale disdegna ridurre a cifra monetaria la vita umana, dall’altro, evitava spargimenti di sangue a catena e smorzava sul nascere ogni tentazione di vendetta.

A ben pensarci, l’istituto del guidrigildo presenta sorprendenti affinità con istituti della contemporaneità, se si pensa che il paradigma della giustizia riparativa – basato su concetti quali “riparazione”, “risarcimento”,  “restituzione”, “mediazione penale” – sta sempre più prendendo piede in concorrenza ai più noti paradigmi “retributivo” e “riabilitativo”, basati sul carcere come pena e sulla riabilitazione del condannato.

Chissà che, anche da noi, non ritorni una qualche forma di compensazione  a sostituire, almeno parzialmente, la barbara pena del carcere.

A proposito, anche il carcere è una pena recente. Ma questa è un’altra storia.

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L’istruzione aumenta la criminalità?

L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario italiano stabilisce esplicitamente che il trattamento del condannato e dell’internato, finalizzato a rieducare il delinquente, è svolto avvalendosi principalmente, oltre che di religione, lavoro, attività culturali, ricreative e sportive, anche dell’istruzione. Il diritto penitenziario, in sintesi, riconosce e valorizza il ruolo dell’istruzione in funzione rieducativa, segno evidente di come, per giudici e magistrati, l’istruzione abbia un ruolo importante nel percorso che dovrebbe condurre il detenuto al reinserimento sociale.

Anche molte iniziative preventive si basano sull’idea che l’istruzione svolga una funzione profilattica nei confronti della delinquenza; idea che è confermata dai dati relativi alla popolazione penitenziaria dai quali emerge che il delinquente comune è, per lo più, analfabeta, privo di titolo di studio, ha solo la licenza elementare o la licenza di scuola media inferiore.

L’istruzione, quindi, è sempre un elemento utile ai fini della prevenzione della delinquenza? Paradossalmente, non sempre. Lo notava quasi due secoli fa, Alexis De Tocqueville, il quale, nei suoi scritti penitenziari, osservava:

Alcune persone negli Stati Uniti pensano anche che i lumi dell’istruzione, così diffusi negli Stati del Nord, determinino la diminuzione dei crimini. Sembra che una popolazione illuminata, cui non mancano gli sbocchi che possono offrire l’agricoltura, il commercio e l’industria manifatturiera, debba commettere meno reati di quella che possiede questi ultimi vantaggi senza avere gli stessi lumi per sfruttarli. Tuttavia, noi non pensiamo che si debba attribuire all’istruzione questa diminuzione dei reati nel Nord, perché nel Connecticut, dove essa è ancor più diffusa che nello Stato di New York, si vedono i reati aumentare con estrema rapidità e, se non si può addebitare ai lumi questa crescita prodigiosa, bisogna però riconoscere che essi non hanno il potere di impedirla (De Tocqueville, A., 2002, Scritti penitenziari, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, p. 66).

E ancora:

L’istruzione, anche quando non viene separata dalle credenze religiose, fa nascere una moltitudine di bisogni nuovi, che, se non sono soddisfatti, spingono al crimine quelli che li provano. Essa moltiplica i rapporti sociali. È l’anima del commercio e dell’industria, crea così fra gli individui mille occasioni di frode o di mala fede che non esistono affatto in seno a una popolazione ignorante e grossolana. È dunque nella sua natura aumentare piuttosto che diminuire il numero dei reati. Questo punto pare, del resto, oggi, piuttosto generalmente riconosciuto, poiché in Europa è stato osservato che i crimini sono in aumento nella maggior parte dei paesi nei quali l’istruzione è più diffusa. Del resto, noi diremo in quest’occasione la nostra opinione sull’influenza dell’istruzione, i suoi vantaggi ci paiono infinitamente superiori ai suoi inconvenienti. Essa sviluppa le intelligenze e sostiene tutte le industrie. Protegge sia la forza morale che il benessere materiale dei popoli. Le passioni che essa suscita, funeste alla società, quando niente le accontenta, divengono feconde di vantaggi quando possono raggiungere lo scopo che perseguono. Così l’istruzione diffonde sì fra gli uomini alcuni semi di corruzione, ma rende i popoli più ricchi e più forti. In una nazione circondata da vicini illuminati, essa non solo è un beneficio, ma è anche una necessità politica (De Tocqueville, A., 2002, Scritti penitenziari, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, pp. 66-67, nota 84).

De Tocqueville riteneva, dunque, che è nella natura dell’istruzione aumentare piuttosto che diminuire il numero dei reati.

Se questa idea vi sembra provocatoria, pensate al fatto che l’esecuzione di alcuni reati finanziari presuppone una conoscenza del funzionamento dei mercati e delle borse che pochi, anche tra le persone considerate colte, posseggono. Stesso discorso si può fare per i crimini informatici e per le azioni degli hacker: in alcuni casi, si tratta di possedere capacità e competenze che solo una élite di individui normalmente possiede. Si considerino poi i cosiddetti “reati propri”, reati, cioè, che possono essere commessi solo da persone che rivestono determinate posizioni sociali e che posseggono determinate conoscenze (funzionari pubblici, militari, professori universitari ecc.).

Insomma, alcuni reati sono possibili solo perché “si è istruiti”. Un “ignorante” non potrebbe mai commetterli. Alla luce di queste breve considerazioni, appare, dunque, comprensibile il monito del politologo francese sull’istruzione che fa aumentare piuttosto che diminuire il numero dei reati.

Ciò non vuol dire che l’istruzione sia una fucina di delinquenza, ma semplicemente che, come in tutte le cose umane, non si può assumere una posizione rigidamente manichea nei confronti di questo o quel fenomeno sociale.

Su questo e altri temi relativi alla criminalità, ho scritto in 101 falsi miti sulla criminalità, che naturalmente vi invito a leggere.

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Medea, una complessa femminista

La complessità della figura di Medea, descritta da Euripide nell’omonima tragedia, è nota. Donna, straniera, maga e sorella della celebre Circe, tradita dal marito Giasone, assassina dei due figli avuti da questi, nonché della sua novella sposa e del padre di questa, Creonte. In precedenza, sappiamo che ha ucciso anche il fratello e che, grazie alle sue doti magiche, riesce a scampare alla vendetta di Giasone, volando via su un carro incantato.

Gli psicoanalisti hanno riconosciuto la complessità dell’eroina di Euripide, dedicandole anche una sindrome. Si parla, infatti di “sindrome di Medea” quando una madre si vendica del marito, uccidendo i figli avuti da questi. Una soluzione estrema e, per noi, terribile che rafforza l’immagine criminologica e immorale di Medea, ormai sedimentata nell’immaginario collettivo.

Leggendo la tragedia di Euripide, appare sorprendente, tuttavia, udire dalle labbra di Medea, quella che potremmo definire come una delle prime dichiarazioni femministe della storia occidentale. Una dichiarazione tanto più efficace in quanto riassume lucidamente tutti gli svantaggi del nascere donne nell’antica Grecia:

Fra tutti quanti sono animati ed hanno un intelletto noi donne siamo la specie più sventurata; per prima cosa dobbiamo, con gran dispendio di beni, comprarci uno sposo e prenderci un padrone del nostro corpo; questo è un male ancor più doloroso dell’altro. E in questo c’è un rischio gravissimo: se il marito lo si prende cattivo oppure buono. Per noi donne, infatti, la separazione è un disonore, né si può ripudiare lo sposo. Giunta, poi, tra nuovi costumi e nuove leggi, la donna deve essere un’indovina per sapere – a casa sua non può averlo appreso – di che natura sia il compagno di letto con il quale dover al meglio trattare. E se noi riusciamo a conseguire bene tale intento e il marito convive con noi sopportando il giogo senza sforzo, allora la vita è invidiabile; altrimenti bisogna morire. Un uomo, quando sente fastidio di stare in casa con i suoi familiari, esce fuori e solleva il cuore dalla noia. Per noi, invece, è destino volgere lo sguardo verso una sola persona. E dicono di noi che viviamo in casa una vita senza pericolo, mentre loro combattono in guerra; ma ragionano male. Giacché preferirei stare tre volte presso lo scudo piuttosto che partorire una volta sola!.

Sebbene per un contemporaneo riesca difficile identificarsi con le sofferenze di una figlicida e pluriomicida, non si può rimanere indifferenti di fronte agli argomenti “irritanti” addotti da Giasone, in un celebre dialogo con l’ex moglie, secondo i quali la donna ha il dovere di sottostare al volere di chi è maschio e potente e, se non accetta tale destino, è da considerarsi folle e biasimevole.

La strage di Medea può, dunque, interpretarsi come una forma di resistenza femminista a una struttura sociale profondamente maschilista e che considera il maschilismo come un valore “normale” a cui non è possibile non conformarsi, se non a rischio di divenire, a propria volta, “devianti”.

Il lamento di Medea dà voce al disonore che ricade sulla donna greca qualora non si integri nella società del suo tempo. Amiamo considerare la Grecia antica come culla della nostra civiltà, ma questo ci fa spesso dimenticare come in essa fossero presenti valori e atteggiamenti che oggi consideriamo barbari e mostruosi.

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“Sociologia della devianza e del crimine” a cura di Dino e Rinaldi

In un mercato editoriale che offre un numero non contenuto di manuali di sociologia della devianza, la pubblicazione di Sociologia della devianza e del crimine, a cura di Alessandra Dino e Cirus Rinaldi, Mondadori Education, 2021,  1267 pagine, potrebbe apparire un pleonasmo.

In realtà, ci sono più motivi per acquistare e leggere questo testo. Se, da un lato, infatti, esso ripropone in modo rigoroso le principali teorie e tematiche della sociologia della devianza (per fare alcuni esempi: le teorie di Sutherland, della Scuola di Chicago, di Merton, del conflitto, dell’etichettamento ecc.), dall’altro aggiorna il dibattito critico sul discorso socio-criminologico, approfondendo le propaggini contemporanee di tali teorie e prospettive ed evidenziando le applicazioni pratiche e gli sviluppi concreti delle stesse nel contesto di interventi di prevenzione della criminalità e di rieducazione del reo.

Questi ultimi aspetti, in particolare, sono spesso trascurati dai manuali più diffusi, ma costituiscono una novità importante perché nessuna teoria vive se non può essere applicata nella realtà.

Altra novità è lo spazio dedicato agli aspetti metodologici della sociologia della devianza; aspetti centrali per chi voglia sapere come “si fa” effettivamente criminologia in maniera scientifica.

Terza novità è la suddivisione del volume in due parti.

La prima, come detto, si occupa di teorie e prospettive. La seconda di ambiti e tematiche di attualità, che raramente rinveniamo in un singolo scritto, per quanto ampio. Tra questi ultimi troviamo, ad esempio, il carcere, le devianze sessuali, il paradigma mafioso, il panico morale, il populismo penale.

Al volume ho collaborato anch’io con una capitolo sulle “Tecniche di neutralizzazione” (capitolo 8), che fa luce su uno degli elementi più affascinanti della criminalità, ossia come il delinquente giustifica e razionalizza le proprie condotte.

In sintesi, gli approcci del tutto originali del volume rispetto ai manuali esistenti fanno di esso un importante strumento per chi voglia accostarsi allo studio sociologico delle devianze nel mondo contemporaneo da una prospettiva non solo teorica, ma anche applicata e metodologica.

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Giudicare in base agli esiti

“Giovane rapinatore ucciso per cento euro”; “Madre di famiglia in coma per la borsetta”.

Titoli come questo pongono a contrasto l’esiguità del bersaglio di un atto criminoso (rapina, scippo) con gli esiti, anche mortali, del medesimo atto e sottolineano il divario esistente tra il reato commesso, di cui viene comunicata la futilità percepita, e le conseguenze letali o comunque dannose, del reato.

Il “sottotitolo” implicito è che non vale la pena perdere la vita per pochi euro o andare in coma per il contenuto di una borsetta. In realtà, queste interpretazioni giornalistiche commettono l’errore di “razionalizzare” gli eventi in base ai loro esiti, quasi che tutto fosse prevedibile sin dall’inizio, e non tengono conto del fatto che i reati si sviluppano spesso secondo una sequenza dagli esiti imprevedibili, tanto per chi commette il reato quanto per la vittima.

Ad esempio, un giovane rapinatore si avvicina a un’auto e punta la pistola contro il proprietario pretendendo tutti i soldi o gli oggetti di valore in suo possesso. Non ha intenzione di usare l’arma, non sa di quanto disponga effettivamente la vittima e spera che il colpo vada liscio. L’autista, invece, reagisce, prima con le parole, poi con i fatti. Apre lo sportello e si avventa sul rapinatore. Questi, sorpreso, spara e lo uccide, pensando di non averlo nemmeno colpito. Nel portafogli della vittima, la polizia trova trenta euro. L’indomani, i giornali titolano: “Ucciso per pochi euro”.

È evidente che, ex post, il divario tra l’esito drammatico della rapina e il bersaglio eletto della stessa appare estremamente ampio, ma tale divario non è per nulla prevedibile dai due protagonisti ab origine. Il rapinatore non “intendeva” uccidere per trenta euro; la vittima non “intendeva” perdere la vita per una cifra esigua.

Insomma, per quanto ci risulti quasi naturale risalire all’intenzione dell’autore del reato partendo dall’esito dello stesso, ciò non è corretto ed è fonte di grandissimi fraintendimenti, anche morali, e non solo nel caso di eventi criminosi.

Nel calcio, ad esempio, è facile giudicare la prestazione di una squadra in base all’esito dell’incontro. Una squadra che perde incidentalmente dopo aver dominato l’incontro sarà definita “ingenua”; una squadra che vince per un’azione fortunosa dopo aver subito per tutta la partita sarà giudicata “cinica”. In entrambi i casi, le sequenze degli eventi sportivi saranno dimenticate e la valutazione finale sarà in funzione del risultato conclusivo.

Giudicare in base agli esiti ci risulta facile. Considerare le sequenze è complesso. E la complessità, lo sappiamo, non trova spazio nei ragionamenti umani.

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Fasci di abitudini… al supermercato

Forse sappiamo di essere “animali abitudinari” o “fasci di abitudini”, come si esprimeva lo psicologo William James. Pare, in base ad alcune ricerche, che oltre il quaranta per cento delle nostre azioni siano frutto di abitudini e non di decisioni. Ci comportiamo spesso come automi sociali che conducono la propria esistenza in base a moduli ripetitivi sedimentati nella mente.

Eppure, guai a chi tocca le nostre abitudini! Ne siamo talmente affezionati che farne a meno risulterebbe uno shock cognitivo. Infatti, liberarsi di un’abitudine, per quanto nociva, è difficilissimo, come ben sanno fumatori e giocatori d’azzardo.

Di questa difficoltà a sbarazzarci di ciò che riempie il 40% della nostra vita sono ben consapevoli i pubblicitari, che fanno leva proprio su questi moduli ripetitivi per indurci a compiere i nostri acquisti.

Del resto, facciamoci caso. Non compriamo sempre quella marca di biscotti, quel tipo di caffè, quella confezione di bottiglie d’acqua, quel vasetto di yogurt ecc.? Il bello è che spesso non ne siamo nemmeno consapevoli e se qualcuno ci chiedesse perché acquistiamo sempre i medesimi prodotti, ricorreremmo probabilmente a ogni forma di razionalizzazione (“perché fa bene/mi piace/piace ai miei figli/è una marca affidabile ecc.) pur di celare il nostro comportamento abitudinario.

Questo non significa che non cambieremmo mai le nostre abitudini di acquisto. Anzi. Secondo i pubblicitari, «le abitudini di acquisto cambiano con maggiore probabilità quando si verifica un avvenimento importante nella vita dei consumatori. Quando ad esempio ci si sposa, è più probabile che si cambi marca di caffè. Quando si trasloca, è più facile che si cambino cereali. Quando si divorzia, ci sono elevate probabilità che si beva una birra diversa» (Duhigg, 2012, Il potere delle abitudini: Come si formano, quanto ci condizionano, come cambiarle, TEA, Milano, p. 282).

E qual è l’evento più importante della vita per la maggior parte di noi? «Cosa provoca il sovvertimento più grande e predispone alla “vulnerabilità all’intervento degli esperti di marketing”? La nascita di un figlio. Per quasi tutti i consumatori non c’è cambiamento più radicale dell’arrivo di un bambino. La conseguenza è che in questo particolare momento le abitudini dei neogenitori diventano più flessibili rispetto a qualsiasi altro periodo della vita adulta» (Duhigg, 2012, p. 283).

Per questo motivo, gli esperti di marketing riescono a “intuire” le diverse fasi della nostra vita in base ai prodotti che compriamo. E, attraverso queste intuizioni, riescono letteralmente a pianificare i nostri acquisti futuri, venendoci incontro con “straordinarie offerte e sconti” a cui non sappiamo rinunciare (anche perché è proprio ciò di cui abbiamo bisogno in quel momento).

Il risultato? Siamo molto più prevedibili di ciò che ci piaccia immaginare. E, se non amiamo ammetterlo a livello conscio, lo adoriamo a livello inconscio. Una delle tante, meravigliose contraddizioni di quella infinita fonte di sorprese incoerenti che è l’essere umano.

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Ordinamento penitenziario e paradigma criminologico

Qual è il paradigma criminologico sotteso al nostro ordinamento penitenziario e al relativo regolamento esecutivo?

A mio avviso, leggendo sinotticamente alcuni articoli dei due atti, è possibile ricavare una risposta interessante.

L’art 13 – Individualizzazione del trattamento – della Legge 26 luglio 1975, n. 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” afferma:

«Il  trattamento  penitenziario  deve  rispondere  ai  particolari bisogni della  personalità  di  ciascun  soggetto,  incoraggiare  le attitudini e valorizzare le competenze che possono essere di sostegno per il reinserimento sociale. Nei confronti dei  condannati  e  degli  internati  è  predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche o le altre cause che  hanno  condotto  al  reato  e  per proporre un idoneo programma di reinserimento».

Poco più avanti, l’art. 15. – Elementi del trattamento – riferisce che «Il  trattamento  del  condannato  e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, della formazione professionale,  del  lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività   culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti  con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di  impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro».

L’art. 1 – Interventi di trattamento – del Decreto del Presidente Della Repubblica 30 giugno 2000 , n. 230 “Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà” ribadisce che «Il  trattamento  degli  imputati  sottoposti a misure privative della  libertà consiste  nell’offerta di  interventi  diretti  a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali. Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto,  inoltre,  a  promuovere un processo di modificazione delle condizioni  e  degli atteggiamenti personali, nonché’ delle relazioni familiari e sociali che sono di  ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale».

Infine l’art. 27 del regolamento – Osservazione della personalità – sancisce che «L’osservazione   scientifica della personalità  è  diretta all’accertamento  dei  bisogni  di  ciascun  soggetto,  connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di  relazione».

Dalla lettura contestuale di questi articoli appare evidente che il paradigma criminologico sotteso ai due atti fondamentali del nostro ordinamento penitenziario è di tipo “eziologico-correzionale”.

È “eziologico” in quanto individua in fattori precisi le cause della criminalità; cause che sono descritte come “carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali”. In altre parole, secondo questa visione, il criminale è tale perché, per ragioni accertabili di caso in caso, è stato “privato” di qualcosa.

È “correzionale” perché, per rimediare a tali “carenze”, l’ordinamento ritiene necessario offrire, in sede trattamentale, elementi quali l’istruzione, la formazione professionale, il  lavoro, le attività   culturali, ricreative e sportive, i rapporti con la famiglia ecc. Elementi che “compensano” o “correggono” le “carenze” di cui sopra.

Il paradigma eziologico-correzionale ha una profonda influenza nella storia della criminologia. Di volta in volta, secondo le inclinazioni dei suoi rappresentanti, questa scienza ha sottolineato il ruolo criminogeno della carenza di fattori biologici (cerebrali, endocrinologici, cromosomici ecc.), psicologici (assenza di un Super-Io adeguato, di empatia, di intelligenza ecc.), sociologici (ambiente familiare privo di affettività, quartieri urbani disorganizzati, scarsa istruzione ecc.).

Si può dire quasi che la “carenza” sia il marchio di fabbrica della criminologia tradizionale.

Indirizzi più recenti hanno dimostrato che una condotta criminale può aversi anche lì dove non ci sono apparenti “carenze”, come nel caso dei crimini dei colletti bianchi in cui uomini e donne che occupano posizioni sociali elevate, apparentemente cresciuti in ambienti sani, famiglie affettuose e contesti urbani privilegiati, si dedicano, tuttavia, ad atti delinquenziali, spesso più dannosi alla società di quelli commessi dai cosiddetti criminali di strada.

Si può e si deve mettere in discussione il paradigma eziologico-correzionale sotteso ai due atti che disciplinano l’ordinamento penitenziario italiano. Ricordando, tuttavia, che esso è presente in tanta parte della criminologia ancora oggi insegnata nelle nostre università.

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È “naturale” lavarsi i denti?

Perché ci laviamo i denti? La risposta sembra facile: per tenerli puliti e prevenire la carie. Igiene, pulizia e alito profumato sembrano essere i tre “fattori” che ci spingono a curare la nostra bocca, dedicandovi, secondo gli standard comunemente accettati, almeno tre “interventi” al giorno con spazzolino e dentifricio.

Oggi, nessuno si sognerebbe di uscire di casa la mattina senza aver lavato i denti, così come di andare a letto senza averlo fatto. Si tratta di gesti abituali e ripetitivi, che ormai sono diventati una “seconda natura” per noi.

Eppure, la popolarità del dentifricio non si deve originariamente a preoccupazioni igieniche. Un tempo, avere denti guasti e corrosi dal cibo era una condizione abituale, accresciuta dall’introduzione, nella dieta dei paesi industrializzati, di zuccheri e cibi elaborati. Quasi un secolo fa, nessuno comprava il dentifricio perché, nonostante i problemi di igiene orale che affliggevano l’umanità, quasi nessuno si lavava i denti.

Furono l’invenzione del dentifricio Pepsodent e, soprattutto, la campagna pubblicitaria per promuovere il prodotto lanciata da un mago del marketing come Claude Hopkins (1866 – 1932) a cambiare radicalmente l’atteggiamento degli americani nei confronti dell’igiene orale.

Bastarono cinque anni di campagna per trasformare il Pepsodent in uno dei prodotti più conosciuti al mondo. In dieci anni, lavarsi i denti divenne un rito irrinunciabile per oltre metà della popolazione americana, un’attività quotidiana destinata, da allora, a non abbandonare mai i gesti quotidiani degli individui.

Ma a quale strategia ricorse Hopkins? Semplice. Introdusse e diffuse l’idea che sui nostri denti vi fosse una “patina” (film, in inglese) – termine da lui inventato – che li rendeva opachi. Tale patina rendeva brutti coloro che non si adoperavano per rimuoverla. In breve, Hopkins creò quasi dal nulla un nuovo bisogno di natura estetica e lo “impose” alla popolazione come un dovere religioso. Chi aspirava alla bellezza, in altre parole, doveva curare la propria igiene orale. La bellezza dei denti fu trasformata in una sineddoche della bellezza fisica, mentre prima si insisteva solo sulle funzioni preventive della pasta dentifricia. È così che fu creata l’abitudine di avere “denti belli” e di provare gratificazione  per i propri denti splendenti.

Oggi, il dentifricio, con tutte le sue marche, è diventato uno dei beni di consumo più diffusi al mondo. E pensare che – come ammise candidamente lo stesso Hopkins – non serviva affatto a rimuovere la patina. Da questo punto di vista, era del tutto inutile. Così come oggi tendiamo a credere che più il dentifricio conferisce un buon odore alla nostra bocca, più è efficace. Ma il buon sapore e odore non hanno niente a che fare con l’efficacia igienica. Anzi. Lo spazzolino è molto più importante del dentifricio da questo punto di vista.

Eppure, il solo uso dello spazzolino ci sembrerebbe una mancanza di attenzione nei confronti della nostra bocca. Come è evidente, la lezione di Hopkins è ancora oggi valida: non è importante quello che si fa, ma il significato che si attribuisce a quello che si fa. In altre parole, le nostre credenze sono più importanti della realtà.

È per questo che non rinunceremmo mai al dentifricio, così come ad altri prodotti di cui non sappiamo fare a meno.

La pubblicità ne ha creato il bisogno. L’abitudine li impone indelebilmente alle nostre menti.

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Aloni, stregoni e superstizioni

Finalmente pubblicato il mio nuovo libro Aloni, stregoni e superstizioni (PM Edizioni, Varazze, 2021). Si tratta di un testo dedicato a cinque nostre irrazionalità che ci irretiscono quotidianamente e di cui non sempre siamo consapevoli.

Ecco la presentazione:

“Crediamo di vivere in un’epoca iper-razionale, all’insegna della scienza e del calcolo matematico; un’epoca di disincanto, come aveva vaticinato il sociologo tedesco Max Weber, in cui “non occorre più ricorrere alla magia per dominare o per ingraziarsi gli spiriti, come fa il selvaggio per il quale esistono simili potenze”. In realtà, il nostro comportamento è guidato, spesso a nostra insaputa, da ricette, formule, strategie, linee di azione che fanno leva su argomenti irrazionali o illogici, cortocircuiti mentali, smottamenti cognitivi, illusioni della psiche, distorsioni conoscitive, come forse non è accaduto nemmeno nei cosiddetti secoli bui dell’umanità.  

Basta pensare al potere che hanno su di noi i messaggi pubblicitari, alle tecniche propagandistiche che ci condizionano facendo leva sulle nostre più profonde e oscure irrazionalità e costruendo mondi “fiabeschi” in cui ci piace perderci prima di concedere il nostro suffragio a questo o quell’incantatore elettorale. La psicologia contemporanea inoltre, ci insegna che abbiamo una straordinaria propensione a distorcere, modificare, orientare la realtà in virtù di potentissimi bias mentali (detti anche “euristiche” o “scorciatoie mentali”), abilmente sfruttati da uomini di marketing, pubblicitari, pedagogisti, propagandisti, spin doctors, manipolatori di ogni genere, seduttori e seduttrici che cercano di piegarci alle loro volontà.

Insomma, la nostra epoca sembra lontana dallo scenario iperintellettualizzato profetizzato da Max Weber. Il fatto di vivere in un mondo estremamente tecnologizzato e specializzato ha aumentato il divario esistente tra le nostre conoscenze della realtà e la realtà stessa. Contestualmente, mai come nella contemporaneità, la nostra vita è immersa in ambienti surreali e fictional creati dai mezzi di comunicazione di massa e dalle tecnologie digitali che permeano ogni nostra azione. Infine, l’applicazione delle scienze umane al marketing, alla propaganda, alla pubblicità e a tanti altri domini in cui esperiamo la vita, fa sì che siamo continuamente sollecitati ad agire irrazionalmente in molte nostre condotte. Il risultato è che viviamo in un bosco incantato in cui a farla da padrone sono i nostri bias.

Data questa premessa, il libro propone la traduzione di cinque importanti studi di scienziati della mente che ci permettono di vedere al di là della cortina fumogena del mondo negromantico nel quale viviamo. Si tratta di cinque scritti, tutti piuttosto celebri, che illuminano distorsioni, pregiudizi e esagerazioni della nostra mente e che hanno il merito di renderci consapevoli del loro funzionamento nella vita quotidiana. Ogni articolo è preceduto da un saggio che descrive, approfondisce e indica le implicazioni del tema trattato.

Il primo riguarda il cosiddetto “effetto alone” e ha come autore lo psicologo americano Edward L. Thorndike. L’effetto alone è il fenomeno per cui un’impressione generale, sia positiva sia negativa, o una singola caratteristica di un individuo o gruppo sociale orienta la percezione che si ha dell’individuo o gruppo anche relativamente ad altri tratti della personalità o caratteristiche. Si tratta di uno dei meccanismi più pervasivi e persuasivi con cui dobbiamo fare i conti. La sua conoscenza è indispensabile per comprendere la ragione di molti nostri comportamenti irrazionali.

Il secondo studio riguarda la fallacia della convalida soggettiva, detta anche “effetto Forer”, dal nome dello psicologo Bertram R. Forer. L’effetto Forer consiste nel fare affermazioni circa un soggetto che si adattano a un grande numero di soggetti a causa della loro genericità. Si rivela straordinariamente efficace in astrologia come in politica, nel marketing come nelle pseudoscienze e nelle pseudoterapie.

L’esperimento attraverso cui lo psicologo Burrhus F. Skinner ha mostrato la logica sottostante alla nascita delle superstizioni rappresenta il terzo studio. Le superstizioni sono ancora condivise e “rispettate” nella contemporaneità, a dispetto di ogni tentativo di screditarle. L’articolo di Skinner ci spiega perché esse continuano a  funzionare e qual è logica a esse sottesa. Un testo indispensabile per comprendere i rudimenti della nostra irrazionalità. 

Il quarto studio è un articolo degli psicologi Albert Hastorf e Hadley Cantril che ha rivoluzionato il modo di intendere la psicologia del tifoso, permettendo ci scoprirne forme e caratteristiche. La mente del tifoso è accusata di essere primitiva ed eccessiva. In realtà, risponde a precisi bias mentali che tutti noi subiamo. Questo testo illumina alcuni dei misteri relazionali che avvolgono uno dei fenomeni più interessanti e “fiabeschi” della contemporaneità: il tifo sportivo.

Infine, il “canone di Morgan”, dal nome dello psicologo Lloyd C. Morgan, ci mette in guardia da uno dei vezzi più diffusi della contemporaneità, l’antropomorfizzazione spinta degli animali, attraverso la formulazione di una massima di condotta esemplare: «In nessun caso è lecito interpretare un’azione come il risultato dell’esercizio di una facoltà psichica superiore, se essa può essere interpretata come il risultato dell’esercizio di una facoltà di livello psicologico inferiore»”.

Aloni, stregoni e superstizioni. Un libro per fare i conti con le nostre irrazionalità!

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La superstizione del Kirichoco

Afferma l’etologo Desmond Morris, ne La tribù del calcio (2016, Rizzoli, Milano):

Svolgendo un lavoro ad alto rischio, molti degli eroi tribali [i calciatori] sono decisamente superstiziosi; ogni volta che mettono piede sul campo di gioco affrontano il pericolo di infortunarsi e la potenziale umiliazione di venire sconfitti dai loro avversari. La fortuna è fondamentale, sul campo: un pallone può rimbalzare male, possono sbagliare un gol scivolando sull’erba bagnata, o prenderne uno perché il pallone viene deviato da una zolla e carambola per caso sul piede di un attaccante avversario.

Infortuni, umiliazioni, scivoloni, palloni sfortunati: tutti pensieri che attraversano la mente dei giocatori ogni volta che si preparano a una partita. Sanno che non c’è allenamento, preparazione, abilità o forma fisica che possa proteggerli da questi rischi, e sanno che quando la sfortuna se la prenderà con loro, lo farà sotto gli occhi di migliaia di spettatori giudicanti. La loro è un’ordalia pubblica, e non c’è via di scampo, non c’è modo di nascondere un errore.

È per questo motivo, probabilmente, che la “leggenda del Kirichoco”, raccontata da Giorgio Castiglioni in un articolo apparso su Query online, prende il lettore. “Kirichoco” è la parola pronunciata dal capitano della Nazionale italiana Giorgio Chiellini al calciatore inglese Saka al momento di calciare il rigore decisivo per la sua squadra durante la finale degli ultimi Europei di calcio. Come è noto, Saka fallì il suo tiro, consegnando la vittoria all’Italia. La medesima parola sembra, però, secondo il racconto di Castiglioni, aver condizionato negativamente altri calciatori (anche famosi), come l’olandese Arjen Robben e il norvegese Erling Haaland.

Una parola che porta sfortuna? In realtà, a ben leggere l’articolo di Castiglioni appare evidente che non sempre la parola “funziona”. I casi di “successo” sono pari a quelli di “insuccesso” e ciò che incuriosisce, semmai, è l’origine, ancora un po’ misteriosa, del termine.

Lasciando a Castiglioni il racconto di questa circostanza, è interessante notare due cose:

1) il calcio, come ogni situazione stressogena, favorisce la diffusione di ogni genere di superstizioni. Il libro di Morris citato in apertura è, al riguardo, una miniera di informazioni. Queste superstizioni rappresentano un modo di far fronte cognitivamente alle incertezze della vita e, sebbene sia facile irridere chi vi cede, esse sono almeno comprensibili da un punto di vista umano, soprattutto in determinate situazioni. Questo, naturalmente, non è un invito a essere superstiziosi, ma semplicemente a comprendere perché si possa essere tali. Non è un caso che attori, studenti, malati e sportivi – tutti alle prese con situazioni altamente stressanti per definizione – siano piuttosto inclini a simili condotte irrazionali;

2) la seconda notazione riguarda il fatto che, spesso, determinati comportamenti superstiziosi sono ritenuti sicuramente efficaci, come dimostra la pervicacia di chi si impegna a metterli in atto. In realtà, un po’ come nel caso delle previsioni di maghi e sensitivi, i racconti su di essi riportano solo i (pochi e incredibili) “successi” a scapito dei (tanti, banali) “fallimenti”, dando l’illusione che la superstizione funzioni! Così il calciatore che si obbliga a entrare in campo sempre per ultimo rispetto ai compagni citerà tutte le volte in cui la sua squadra ha vinto per questo motivo, “dimenticando” tutte le volte in cui non ha vinto. Allo stesso modo, chi crede che il termine Kirichoco porti sfortuna, citerà solo i casi in cui ciò si è dimostrato vero, tralasciando i casi opposti. Si tratta di un tipico esempio di memoria selettiva, uno dei pilastri su cui si regge il pensiero magico.

Per chi volesse conoscere questo e altri meccanismi mentali o semplicemente saperne di più su calcio e superstizioni, rimando al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso (Meltemi Editore, Milano, 2020), dedicato ai “misteri” psicologici del calcio.

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