“Ex ungue leonem”

Un altro brano suggestivo proveniente da quel  testo dimenticato dagli psicologi che è Psicologia delle menti associate  di Carlo Cattaneo richiama una correlazione ben presente nel senso comune, che applichiamo quotidianamente al giudizio delle persone che ci capita di incontrare.

Li instinti stanno sempre in correlazione cogli apparati medesimi. In un vivente tutti li apparati formano un complesso armonico. Nelle fiere carnivore, per esempio, nel genere felis al quale appartengono il leone (felis leo), il tigre (felis tigris), il gatto (felis catus), l’instinto della voracità, della crudeltà, dell’insidia sono in correlazione colla forma delli artigli e dei denti che devono sbranare la preda, colla robustezza delle mascelle, e la larga e forte struttura del cranio, colla potenza e agilità dei muscoli, colla costruzione delle viscere che devono digerire un cibo per lo più animale, e quindi di più facile e breve digestione, e con altre attitudini, come quella di calcolare con precisione il salto e ogni altro moto, e quella di poter vedere nottetempo dilatando a tal uopo la pupilla.

Li antichi, presentendo questa dottrina della correlazione, fecero il proverbio: Ex ungue leonem. Viceversa, nelle bestie frugivore, come le pecore, l’instinto della mansuetudine e della timidezza, la ripugnanza per i cibi animali, il gusto d’un’innocente pastura sono in correlazione colla forma del piede inerme, dei denti piani e colla lunghezza e complicazione (massime nei bovini) degli apparati intestinali necessari a trasformare e assimilare quei frigidi alimenti.

Questo principio (la correlazione delle forme) è la face che illuminò Cuvier nello studiare le reliquie degli animali fossili (paleonti). Egli indusse dalla sola forma d’un dente o d’un unghia la natura d’uno o d’altro animale petrificato; combinò i diversi ossami in un solo scheletro; e riferì a diversi scheletri i frammenti confusi dei frugivori e delle fiere che li avevano divorati. Dal che fece induzione anche all’indole che dovevano avere quei prischi animali non mai visti dall’uomo perché l’uomo ancora non era. Così scoperse la legge della correlazione delle forme commune anche ai mondi anteriori al presente» (Cattaneo, C., 2000, Psicologia delle menti associate, Editori Riuniti, Roma, pp. 128-129).

Se incontriamo un uomo forte e muscoloso, tendiamo automaticamente a pensare che sia, almeno potenzialmente, più aggressivo di uno minuto e debole. Una donna procace e sensuale indurrà automaticamente il pensiero di una maggiore propensione sessuale rispetto a una poco appariscente.  Così via.

L’inclinazione a “correlare” aspetto fisico e caratteristiche temperamentali o personologiche è fortissima in noi. Tuttavia, non sempre corrisponde al vero. Così, un bodybuilder potrà rivelarsi più mansueto di un tipo magrolino. Una persona dall’aspetto indifferente più perspicua di una dall’aspetto distintivo e via dicendo. Nell’uomo e nella donna, “li instinti” hanno un ruolo relativo. Tuttavia, ci comportiamo spesso come se essi dominassero sempre tutta la persona.

Ex ungue leonem, dicevano i latini, “il leone [si riconosce] dall’artiglio”, ma, a volte, l’artiglio serve solo a celare un’indole non proprio leonina.

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Ascoltare a bocca aperta

Carlo Cattaneo

In quello che è probabilmente il libro meno celebre del filosofo, politico e patriota italiano Carlo Cattaneo (1801-1869), Psicologia delle menti associate, testo di proto-psicologia, letto forse solo dagli specialisti del settore, leggo questa improvvisa frase: «L’inattesa scoperta della tromba d’Eustachio, ossia d’un passaggio tra l’intima cavità della bocca e la cavità dell’orecchio, rivela in qual modo chi ascolta a bocca aperta, aumenti senza saperlo l’efficacia dell’udito» (Editori Riuniti, Roma, 2000, p. 90).

Ora, non so se ciò sia vero. Non so se ascoltare a bocca aperta aumenti realmente l’efficacia dell’udito, ma questa frase evoca in me un’immagine potente. Quella di decine e decine di uomini e donne, intenti ad ascoltare parole altrui a bocca aperta perché persuasi dalla scienza che ciò aumenti le loro capacità uditive.

Si tratta di un’immagine bizzarra, quasi paradossale. Ascoltare a bocca aperta sembra un comportamento appartenente più a un idiota che a una persona intelligente. Ma, se non fosse così?

Qualche tempo fa una rivista raccomandava agli uomini di urinare seduti. Solo in questo modo, sembra, la vescica riesce a svuotarsi completamente, evitando il ristagno, potenzialmente dannoso, di urina. Fare la pipì da seduti è un comportamento tradizionalmente associato alle donne. La rivista suggeriva, dunque, una femminilizzazione dell’uomo nel nome della scienza.

Ascoltare a bocca aperta e urinare seduti. Due comportamenti paradossali, in un certo senso, ma riscattati dalla scienza. Un po’ come i vaccini: rimedi a un male grande possibile tramite l’inoculazione di un male minore reale. È per questo che facciamo fatica ad accettarli e, anche quando li accettiamo, abbiamo sempre l’impressione di contravvenire a noi stessi.

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Vaccino e effetto nocebo

Che il SARS-CoV-2 sia un fenomeno di interesse non meramente medico, ma anche psicologico lo dimostra una recente ricerca coordinata da Martina Amanzio del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino, intitolata “Adverse events of active and placebo groups in SARS-CoV-2 vaccine randomized trials: A systematic review” e pubblicata su The lancet.

La ricerca ha preso in esame gli esiti di tre trials di vaccini approvati dalle entità regolatorie EMA e FDA e condotti su un totale di 44.326 soggetti, suddivisi, come da protocollo, in gruppi sperimentali e gruppi di controllo. Focalizzandosi, in particolare, sui cosiddetti effetti avversi sperimentati dai soggetti (mal di testa, sensazione di affaticamento, dolore localizzato ecc.), lo studio ha rilevato che questi si verificano non solo nei gruppi sperimentali, ossia in quelli che hanno ricevuto effettivamente il vaccino, ma anche in quelli di controllo, composti da individui che hanno ricevuto solo un placebo.

Una spiegazione di questo strano fenomeno chiama in causa il cosiddetto “effetto nocebo”, il cugino “antipatico” dell’effetto placebo. Per “effetto nocebo” si intende un effetto derivante dalla convinzione di ricavare un danno o uno svantaggio da una sostanza o situazione, quando questa convinzione ha come conseguenza proprio quel danno o svantaggio. Ad esempio, se ci si crede colpiti da una maledizione o da un malocchio, si possono adottare una serie di comportamenti, dettati dall’ansia e dalla paura che possono avere come conseguenza reali stati di malessere o di depressione. Se si ritiene che un infarto sta per accadere, ci si può influenzare talmente da avvertirne i sintomi e chiedere disperatamente di essere trasportati all’ospedale, come succede ad alcuni ipocondriaci.

Parimenti, come affermano gli autori della ricerca, «indurre specifiche aspettative in coloro che ricevono il placebo può provocare effetti avversi quali sintomi sistemici e locali». Sebbene questi siano presenti in quantità maggiore nei soggetti sperimentali, essi sono presenti anche nei placebo recipients

Continuano gli autori:

La profezia che si autoavvera è un fenomeno in base al quale la convinzione dell’accadimento di un evento futuro come una reazione avversa, contribuisce a farlo accadere. Essa svolge un ruolo cruciale nel dar forma alle esperienze e può essere considerata un fattore causale e non semplicemente predittivo.

Credenze come le aspettative di risposta possono influenzare le condizioni di salute, come si riscontra in campo allergologico, nella cura delle tensioni muscolari, nei disturbi gastrointestinali e nelle disfunzioni erettili, nei pazienti asmatici […].

Questo fenomeno può verificarsi particolarmente durante l’attuale condizione emergenziale pandemica e quando si testano nuovi vaccini.

Le conclusioni degli autori evidenziano un sospetto già emerso nei mesi scorsi in relazione alla recente campagna vaccinale. In altre parole, è molto probabile che gli eventi avversi fatti registrare da diversi soggetti vaccinati siano dovuti non tanto al vaccino stesso quanto alle aspettative negative dei vaccinati nei suoi confronti; effetti complicati dalla parallela campagna di disinformazione avviata da gruppi contrari al vaccino che ha certamente contribuito a suscitare paura e allarme intorno a quello che, oggi, pare l’unico rimedio efficace contro il Covid-19.

La ricerca di Martina Amanzio e del suo gruppo conferma, per l’ennesima volta, che quella del vaccino non è una faccenda meramente chimica o medica, ma coinvolge aspetti psicologici e sociologici vastissimi che spesso si sottovalutano per “amor di semplicità”.

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Disabilità = relazione

“Chi è un disabile? Colui che ti fa credere di essere normale”. 

In questo sapido scambio di battute è nascosta una delle verità meno note sulla disabilità. La disabilità non è una condizione individuale, personale, medica e “ontologica”. Non è qualcosa che riguarda semplicemente il disabile. Essa è soprattutto una relazione tra colui che non è disabile e colui che è disabile; una relazione che si esprime in una differenza, uno scarto, una mancata coincidenza di situazioni. Ma anche nel giudizio che viene attribuito a tale differenza o scarto.

Non si darebbe “normalità” se non ci fosse la “disabilità” e viceversa non si darebbe “disabilità” se non ci fosse la “normalità”. Per parafrasare Sartre, la disabilità sono gli altri. Perché senza gli altri, nessuno è disabile. Al tempo stesso, senza gli altri nessuno è normale. Insomma, è l’altro che legittima la mia condizione.

La disabilità è anche relazione sociale perché è nel contesto delle interazioni quotidiane con la società che essa assume il significato che ha. Questo significa che, ad esempio, la tetraplegia diviene disabilità se sono impossibilitato ad entrare nel mio appartamento a causa delle scale che me lo impediscono, della mancanza dell’ascensore, di un qualsiasi ostacolo fisico mi impedisca di fare le cose che tutti i “normali” fanno. E la barriera architettonica è un fatto sociale, non medico.

La disabilità è anche identità in quanto consente alla persona con disabilità di identificarsi o no con la propria disabilità; alla persona “normale” di percepirsi, per differenza, nella sua “normalità”. Ognuno di noi può raggiungere un livello identitario basico, dicendo a se stesso almeno: “Quello/quella non sono io”.

Insomma, non è vero che la disabilità è una afflizione che riguarda il singolo/la singola che ne è colpito/colpita. Una società migliore e inclusiva consente di “normalizzare” la disabilità e impedisce che una menomazione fisica diventi ostacolo a una vita di relazioni.

 

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Quel gran calderone di Big Pharma

Uno dei pilastri delle teorie cospiratorie appoggiate dai No Vax vuole che i vaccini siano stati introdotti non per proteggerci dal virus, ma per arricchire le tasche, già peraltro ben stipate, delle grandi aziende farmaceutiche, perennemente votate al dio “profitto”. Lo dimostrerebbe, fra l’altro, la “retorica dei booster”, ossia l’ossessiva insistenza sul numero n di richiami che l’umanità dovrà ricevere nei prossimi mesi/anni.

La stessa “teoria” afferma che i vaccini, la cui “reale” composizione non sarebbe nota oppure, secondo le versioni, conterrebbe sostanze note, ma perniciose o ottenute in maniera immorale (corpi tossici, feti di bambini abortiti ecc.) o ancora non sperimentate, non avrebbero alcun effetto significativo sugli individui o, anche qui secondo le versioni, avrebbero effetti avversi, conoscibili e valutabili sia nell’immediato – migliaia di persone sarebbero morte in questi mesi dopo essere state vaccinate – sia nel prossimo futuro – migliaia di persone moriranno di qui a pochi mesi/anni in seguito alle vaccinazioni.

Mettendo da parte l’assurdità cospiratoria di questa teoria, si può dire che essa si regge su un malinteso, già smascherato qualche secolo fa da Adam Smith. Ne La ricchezza delle nazioni, la sua opera più celebre, l’economista scozzese, volendo svelare l’arcana armonia sociale del mercato, riassunse questa nella celeberrima frase: «Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse».

Senza digredire sui meriti o demeriti del liberismo, applicata a Big Pharma questa osservazione smonta, in poche parole, la teoria dei No Vax sopra sintetizzata.  È proprio perché le grandi aziende farmaceutiche hanno l’obiettivo – in quanto aziende – di conseguire profitti dalla propria attività, che hanno tutto l’interesse a immettere nel mercato prodotti (farmaci, vaccini ecc.) efficaci, “che fanno quello che dicono di fare”. Se ciò non avvenisse, se, ad esempio, fossero introdotte “merci” inefficaci, che non hanno alcun effetto o che determinano effetti avversi, le stesse aziende sarebbero costrette a ritirare i loro prodotti dal mercato (come è successo e succede), pagare multe esorbitanti, sostenere costi legali abnormi con conseguenze disastrose sul fatturato, unica “ragione di vita” delle aziende.

Parafrasando Smith, potremmo dunque dire: «Non è certo dalla benevolenza di Big Pharma che ci aspettiamo il nostro farmaco, ma dal fatto che essa ha cura del proprio interesse».

L’altro “postulato” dei No Vax presenta due grandi contraddizioni di fondo. Da un lato, si dice che non si conosce la “reale” composizione dei vaccini, dall’altro si ipotizzano ingredienti misteriosi e inquietanti dal sicuro effetto letale. Da un lato, si dice che non si conoscono gli effetti a breve-medio termine dei vaccini, né, tantomeno, gli effetti a lungo termine, dall’altro si agita lo spettro di una strage mondiale che vedrà la popolazione della terra ridursi in maniera esponenziale nel prossimo futuro.

Insomma, nelle narrazioni dei No Vax, Big Pharma è il grande calderone nel quale sono proiettate le ansie e le paure di chi è sconvolto dal virus e trova rassicurazione nella costruzione di teorie cospiratorie. E per chi ha bisogno di consolazione, tutto va bene, per quanto contradditorio possa essere.

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Il Medioevo (distorto) di Dante

Dante Alighieri

Siamo abituati a immaginare il Medioevo di Dante (1265-1321) come un’epoca di amori ideali e romantici, esemplificati dall’infatuazione del poeta della Commedia per una donna intravista qualche volta e morta in giovane età.

In realtà, l’epoca di Dante era molto “terrena” e “concreta”, come dimostrano alcune sue caratteristiche che troveremmo oggi addirittura inquietanti.

Lo storico Alessandro Barbero, che a Dante ha dedicato una biografia storica, ci fa, ad esempio, notare che, nel Medioevo fiorentino, «l’età canonica per contrarre matrimonio era fissata dalla Chiesa, per le donne, a 12 anni, ma l’età più frequente al matrimonio, per le spose della Firenze di Dante, erano i 15 anni» (Alessandro Barbero, 2021, Dante, GEDI, Torino, p. 65). Inoltre, «di solito la moglie era molto più giovane del marito, in media addirittura di una quindicina d’anni» (Barbero, p. 97). All’epoca di Dante, infine, il matrimonio «era celebrato dal notaio in casa della sposa, e non certo dal prete in chiesa» (Barbero, p. 98). Insomma, stiamo parlando di un’epoca che oggi definiremmo di pederastia autorizzata e in cui l’amore, nelle vicende matrimoniali, c’entrava ben poco.

Lo dimostra il fatto che lo stesso matrimonio di Dante con Gemma Donati fu più simile a un atto notarile che a un rito d’amore, tanto che di Gemma sappiamo davvero poco.

Infine, una curiosità. Barbero ci avverte che, contrariamente a quanto si vede in tante fiction, l’appellativo “messere” (latino, dominus) non era usato per chiunque, ma solo per cavalieri, dottori in legge e dignitari ecclesiastici (Barbero, p. 15). Insomma, sappiamo poco del Medioevo (almeno noi non specialisti) e quello che sappiamo è spesso più frutto di proiezioni e invenzioni anacronistiche che di conoscenza reale.

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Su un capzioso dispositivo retorico dei credenti

In Sette contro Tebe di Eschilo, Eteocle, figlio di Edipo, in procinto di affrontare in guerra il fratello Polinice, esclama nel prologo: «Se ci andrà bene, ne sarà causa un dio; ma se all’inverso – oh, non accada! – sorte nemica di toccherà, Eteocle soltanto per tutta la città da mormorio avverso di preludi  e da singhiozzi celebrato sarà: ma Zeus distornatore veramente distornatore sia di questi mali alla città dei Cadmei» (Il teatro greco, 2020, Tragedie, BUR, Milano, p. 103).

Questo particolare dispositivo retorico – se le cose vanno bene è merito della divinità, se vanno male è colpa dei uomini – è attualmente usatissimo dai fedeli di tutto il mondo per conferire un senso a uno dei dilemmi più antichi che affliggono i credenti: se esiste dio, e se dio è un essere perfettamente buono e onnipotente, come spiegare l’esistenza del male nel mondo? Uno degli espedienti preferiti è quello di affermare che da dio può provenire solo il bene, ma dal momento che l’umanità creata da questi è dotata di libero arbitrio, sono gli uomini e le donne, in ultima analisi, a scegliere di condursi bene o male e, quindi, se esiste il male, questo scaturisce da essi, non da un’entità sommamente benevola.

In alternativa, il posto di uomini e donne è preso dal diavolo, il “principe di questo mondo”.

A questo argomento si potrebbe ovviamente obiettare che, essendo dio il creatore dell’umanità, è lui (o lei o esso) in ultima analisi ad essere responsabile delle sue sorti e che, se avesse davvero voluto che il bene trionfasse sempre e comunque, avrebbe potuto/dovuto creare uomini e donne come esseri incapaci di compiere il male o distruggere una volta per tutte il diavolo (o chi per esso).

L’evidenza della capziosità dell’argomento di Eteocle non ha, però, mai davvero condizionato le credenze dei fedeli, i quali continuano a sostenere imperterriti questa “politica del doppio binario etico”.

Psicologicamente, è facile capire perché. Credere in una divinità contraddittoria e inaffidabile, mal si concilia con la convinzione che le divinità sono onnipotenti, onnipresenti e assolutamente buone. Allora, meglio prendersela con i nostri simili, la cui cattiveria ben conosciamo e con la quale facciamo i conti ogni “santo” giorno.

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Calcio e “culture of complaint”

Il calcio odierno pare pervaso da una tentacolare culture of complaint che riflette una tendenza, da tempo affermatasi nella società contemporanea e la cui cifra più rilevante è un desiderio tenace di vittimismo orgiastico, nel senso che le presunte vittime sembrano trarre un piacere multiplo e variegato dall’esibire le proprie querimonie, lagnanze, rimostranze. Anzi, sembra quasi che la vita per esse non abbia alcun senso se non è condita da una dose cospicua di dolore apparente, lacrimevole, strepitato, ostentato e, inevitabilmente, “scandaloso”.

Almeno un tempo, lo scandalo era costituito da un rigore “sacrosanto” non concesso alla propria squadra o da un gol in “evidente” fuorigioco degli avversari non rilevato dall’arbitro. Oggigiorno, invece, come testimoniano alcune partite dell’ultima giornata del campionato italiano di Serie A, la lagnanza può riguardare un rigore concesso alla “propria” squadra (come nel caso di Juventus-Roma) o un gol segnato dagli avversari con un proprio uomo a terra quando, pochi secondi prima, con il medesimo uomo a terra, la squadra rimostrante aveva quasi sfiorato la rete (come in Lazio-Inter). A ciò aggiungerei un noto episodio di qualche anno fa in cui un secondo mancato cartellino giallo avrebbe, nientedimeno, falsato l’esito del campionato.

Di questo passo, ci si lamenterà del colore del fischietto dell’arbitro, della pettinatura del portiere avversario o delle brioche consumate a colazione dalla squadra la mattina della partita.

Uno psicologo nemmeno troppo bravo potrebbe far notare che, in tutti questi casi, i lacrimanti ricorrono al classico meccanismo di difesa della proiezione: non è la mia squadra che ha qualcosa che non va, è la squadra avversaria; la quale, naturalmente, ricorre sempre e comunque a giocate irregolari, corruzione di arbitri, comportamenti truffaldini.

È facile prendersela con gli altri. Soprattutto se ciò serve a preservare la positività dei propri beniamini e della nostra identità di gruppo. E allora continuiamo a lamentarci. Se non altro, ne usciremo immacolati e riverseremo tutto lo sporco su quei bricconi degli avversari.

Per altri meccanismi di difesa dei tifosi, rimando al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso.

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Cospirazioni, miti e Bill e Melinda Gates

Una delle teorie cospiratorie più ossessivamente ripetute durante il periodo pandemico vuole che il coronavirus sia stato progettato a tavolino dai potenti della terra per “ridurre la popolazione mondiale”. Fautori di questo progetto di riduzione demografica sarebbero soprattutto Bill e Melinda Gates, ma, nelle varie narrazioni complottiste, i loro nomi si mescolano a quelli di un generico “gotha delle élite finanziarie mondiali” o “nuovo ordine mondiale”. Non si capisce bene a che servirebbe far diminuire gli abitanti del pianeta, né quanti milioni di individui dovrebbe coinvolgere tale progetto. Spesso viene obiettato, da una posizione marxista, che semmai ai potenti farebbe comodo avere tante persone da sfruttare o, almeno, da ridurre al rango di consumatori, considerato che la nostra società capitalista è strutturata sul consumo incessante di merci, e che, quindi, un calo demografico minerebbe i pilastri su cui si regge il nostro mondo.

Al di là dell’assurdità intrinseca di questa teoria, è interessante osservare che il tema dei “potenti che vogliono ridurre la popolazione mondiale” risale molto indietro nel tempo e ha le sue radici nei miti e nella letteratura dell’antichità. Addirittura, se ne possono trovare tracce nella Bibbia e nella tragedia greca.

Nella Bibbia, la storia del “diluvio universale”, narrata in Genesi 7, ha per protagonista un dio il quale dichiara senza mezzi termini: «Tra sette giorni farò piovere sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti; sterminerò dalla terra ogni essere che ho fatto». Al termine dei quaranta giorni e quaranta notti, in effetti, «fu sterminato ogni essere che era sulla terra: con gli uomini, gli animali domestici, i rettili e gli uccelli del cielo; essi furono sterminati dalla terra e rimase solo Noè e chi stava con lui nell’arca». È noto che il “progetto” divino aveva lo scopo di “purificare” il mondo delle sue genti malvage: un progetto, dunque, di riduzione demografica a scopo morale, che ricorda molto da vicino quanto ripetono, tra grida e deliri, i complottisti di oggi, i quali vedono non nell’acqua, ma nel virus, l’arma scelta non da una divinità, ma dai potenti della terra, per raggiungere il loro obiettivo di sterminio.

Lo stesso mitologema si trova nella tragedia greca. In Elena di Euripide, ad esempio, Elena racconta che Zeus «scatenò una guerra fra i Greci e i poveri Frigi, per alleggerire la madre Terra dal peso di innumerevoli uomini» (Il teatro greco, 2018, Tragedie, Bur, Milano, pp. 899-900). Anche nell’Oreste di Euripide, Apollo rivela che la bellezza di Elena «fu il mezzo col quale gli dei fecero scontrare i Frigi e  gli Elleni, e causarono molte morti, allo scopo di liberare la terra dall’oltraggioso peso di un’immensa massa d’uomini» (Idem, p. 1113).

Non dovremmo sorprenderci di questi raffronti tra passato e presente, tra letteratura, religione e narrazioni contemporanee.

Ricordiamo che, per Karl Popper, le teorie cospiratorie sono una forma di teismo, in cui divinità capricciose reggono ogni cosa. Sono una conseguenza del venir meno del riferimento a dio e dei tentativi di trovare un adeguato sostituto. Sono un racconto in cui il posto della divinità è occupato da sinistri gruppi di pressione cui si può imputare di aver organizzato tutte le sventure di cui soffriamo.

Il proliferare di teorie cospiratorie in epoca pandemica è, allora, indice di una fragilità e precarietà esistenziali in uomini e donne che la perdita di ogni riferimento induce a trovare significato in ersatz soprannaturali che non hanno più come protagonisti Zeus o Dio, ma Bill e Melinda Gates.

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Pareidolie dei volti mascherati

In quest’epoca in cui è diventato ordinario incontrare volti mascherati, ci capita di cadere vittime di un’illusione su cui non mi pare sia stato detto o scritto, ma che mi sembra parecchio frequente.

Mi riferisco all’incongruenza tra l’immagine che ci costruiamo delle fattezze complessive del volto mascherato dello sconosciuto in cui ci imbattiamo e le fattezze dello stesso una volta che la maschera sia venuta via. In altre parole, a partire dagli occhi, e in mancanza di altre informazioni, tendiamo irresistibilmente a completare il resto del volto di chi ci è davanti sulla base delle esperienze pregresse, delle nostre supposizioni, più o meno consapevoli, delle nostre aspettative, credenze, convinzioni.

Spesso tali “completamenti” ci inducono anche ad elaborare aspettative sul tipo di persona che abbiamo di fronte; aspettative che riguardano la sua psicologia, lo status sociale, il lavoro, gli studi e così via.

In ciò, giocano un ruolo sicuramente alcuni principi storici della percezione, come i principi gestaltici della “chiusura o completamento” (il nostro cervello tende a percepire forme chiuse anche quando non ve ne sono), dell’“esperienza passata” (l’esperienza ci induce a modellare un volto secondo figure note), della “continuità” (gli elementi di un volto sono percepiti uniti in base alla direzione che seguono), del “destino comune” (gli elementi del volto con movimento uguale tra loro e diverso da altri vengono accomunati dal nostro cervello) ecc.

Ma gioca un ruolo importante anche la “pareidolia”, l’illusione consistente nel vedere figure dotate di senso in stimoli ambigui. Da questo punto di vista, gli occhi rappresentano uno stimolo ambiguo da cui partiamo per “comporre” il ritratto del volto completo, ma a noi sconosciuto sulla base, come detto, di esperienze pregresse, aspettative, convinzioni ecc..

Di solito, se la persona che abbiamo di fronte è perfettamente sconosciuta, lo svelamento, intenzionale o casuale, del volto (ad esempio perché la persona abbassa la mascherina per mangiare o parlare al telefono) è spesso causa di stupito disincanto. Il viso non è come ce lo aspettavamo, è più brutto o più bello, comunque difforme dalla nostra illusione.

Ci sembra così di conoscere la persona in modo diverso e, contemporaneamente, elaboriamo nuove aspettative e  credenze su di essa, nuove ipotesi su psicologia, status sociale, lavoro, studi, magari destinate a essere “corrette” se abbiamo modo di conoscere meglio la persona.

Insomma, quest’epoca pandemica favorisce la genesi di illusioni interpersonali come mai prima d’ora (probabilmente). Se consideriamo che siamo già abituati a interagire con le persone in modo mediato (e quindi illusorio) grazie ai filtri dei vari social con i quali dialoghiamo con esse (filtri che, una volta caduti, ci rivelano ben altro da quello che ci attendevamo), si può dire che il nostro tempo sia particolarmente propenso a favorire l’illusione di conoscere l’altro.

Speriamo di non dover battezzare questo periodo come “l’era del velo di Maya”, il velo delle illusioni (di induista memoria) che separa la realtà dalle apparenze.

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