Il paradosso della prevenzione di Geoffrey Rose

Un aspetto che emerge prepotentemente dalle argomentazioni di quanti sono contrari ai vaccini è la verità di quello che Geoffrey Rose, autore nel 1983 di “Sick individuals and sick population” (International Journal of Epidemiology), definisce il “paradosso della prevenzione” (Prevention Paradox).

Ciò porta al paradosso della prevenzione: “Una misura di prevenzione che reca grandi benefici alla popolazione offre poco a ogni singolo individuo che vi aderisce”. È la storia della sanità pubblica: dall’immunizzazione alle cinture di sicurezza al tentativo di cambiare varie caratteristiche degli stili di vita. Di enorme importanza potenziale per la popolazione nel suo complesso, queste misure offrono molto poco— soprattutto nel breve periodo —a ogni individuo; di conseguenza il soggetto è scarsamente motivato. Non dovremmo sorprenderci del fatto che l’educazione alla salute tenda a essere relativamente inefficace per gli individui nel breve periodo. Nella maggior parte dei casi, le persone agiscono per ottenere ricompense sostanziose nell’immediato, e la motivazione medica all’educazione alla salute è intrinsecamente debole. È improbabile che il prossimo anno la salute delle persone sia molto migliore, se accetteranno o rifiuteranno i nostri consigli. Motivatori molto più potenti ai fini dell’educazione alla salute sono le ricompense sociali derivanti da una superiore autostima e dall’approvazione sociale (Geoffrey Rose, 2001, “Sick individuals and sick populations”, International Journal of Epidemiology, vol. 30, n. 3, pp. 427–432).

In altre parole, dove alcune misure hanno permesso di ridurre o eliminare i rischi derivanti da alcune malattie, si tende a mettere in dubbio l’utilità delle misure adottate. Se le misure di prevenzione hanno successo, la gente non vede più il pericolo e non riconosce i meriti di chi le ha adottate. Sono colte, dunque, da uno strano oblio che le porta a dimenticare che il pericolo non esiste più proprio perché è stata adottata quella misura per eliminarlo.

Esempi classici sono l’uso delle cinture di sicurezza, la riduzione del consumo di sale, la moderazione nell’assunzione di alcolici e così via. In tutti questi casi, il singolo tende a trascurare o dimenticare le ricadute, in termini di popolazione, di determinate misure di salute pubblica, focalizzando la propria attenzione sul corto respiro della propria situazione personale.

A ciò contribuisce anche il cosiddetto “effetto famigliarità” in base al quale, quando le persone convivono da tempo con una determinata patologia o fenomenologia avversa, tendono a sottovalutarne la minaccia, come accade con gli incidenti automobilistici e con l’influenza stagionale, che in Italia provoca ogni anno circa 6.000 morti per cause dirette o indirette.

Secondo Rose, invece, coloro che devono prendere decisioni in materia di salute pubblica dovrebbero adottare un approccio basato non sui singoli individui, ma sulla “popolazione”; approccio che spesso non viene inteso dal singolo che adotta, come detto, un punto di vista estremamente diverso.

Quello che potremmo definire il “bias della prevenzione” è particolarmente presente in quanti si identificano nella galassia No-Vax, i quali invocano la “libertà individuale” a scapito della salute collettiva a difesa delle proprie argomentazioni.

Si tratta di uno dei tanti bias che affliggono la mente di coloro che rifiutano di essere “inoculati”: uno dei meno noti, ma non per questo meno pericolosi.

 

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Come gli umani reagiscono al Covid

Una delle affermazioni più certe che possiamo fare riguardo a come gli esseri umani reagiscono alle epidemie è che tali reazioni seguono modelli narrativi molto simili, talmente simili da apparire quasi prevedibili. Facciamo alcuni esempi.

Al tempo della Spagnola (1918-1919), molte persone credevano che fumare potesse essere utile a uccidere “i germi dell’influenza”; altre che bere alcolici servisse a tenere lontana la malattia. Già all’epoca, emerse l’inutilità di questi comportamenti, ma è curioso notare che le due superstizioni sono riemerse durante la pandemia da Covid-19 tanto che vari siti istituzionali (qui, ad esempio) si sono sentiti in dovere di smentirle.

Per venire a tempi più recenti, Paolo Toselli, nel suo recente Complottismi, fa notare che «quando a febbraio 2019 si è scatenato un focolaio di Ebola nella Repubblica Democratica del Congo, la popolazione del Nord Kivu si è convinta d’essere vittima di un complotto governativo: l’Ebola non esiste e a trasmetterla sono i vaccini stessi, iniettati con l’intento di uccidere le popolazioni locali e attuare una selezione eugenetica» (p. 105).

Un altro esempio, tratto ancora dal libro di Toselli, riguarda l’epidemia di SARS che colpì la città di Toronto in Canada nel 2002. Allora, un certo Montalik si dichiarò convinto che la SARS fosse «parte di un programma ostile attuato dall’élite politica e militare mondiale per mantenere la popolazione terrestre sotto controllo» (p. 81). Per Montalik, la SARS non era affatto pericolosa, ma era stata spacciata come tale dal governo «con l’aiuto dell’OMS, per convincere il pubblico ad “accettare limitazioni sempre più restrittive alla loro libertà”» (p. 81). Una teoria che ricorda tantissimo teorie simili diffuse ai giorni nostri.

Si potrebbe continuare. Mi sembra chiaro, però, che il modello epistemico sotteso a tutte queste teorie è quello della semplificazione a fronte di fenomeni complessi e non chiari (almeno inizialmente) che suscitano timori e apprensioni. Di fronte all’inspiegabile, all’innominabile è meglio, per la nostra mente, una spiegazione qualsiasi, per quanto fantasiosa, che nessuna.

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Gli sconfinamenti epistemici di Ballantyne

«Gli sconfinatori epistemici sono intellettuali che possiedono competenze in un campo in cui esprimono giudizi validi, che passano ad altri campi di cui non hanno competenza e in cui, ciononostante, esprimono giudizi. Dovremmo sospettare dei giudizi espressi da queste persone in campi in cui non sono competenti».

È questo l’esordio del saggio di Nathan Ballantyne, Epistemic Trespassing, dedicato, appunto, agli sconfinamenti epistemici, le incursioni di esperti in campi del sapere diversi dal proprio, di cui non possiedono conoscenze o competenze adeguate.

Ballantyne cita l’esempio del due volte premio Nobel (per la chimica e per la pace) Linus Pauling, improvvisatosi scopritore di rimedi terapeutici a base di vitamina C; quello del biologo Richard Dawkins, che ha scritto più volte di religione; e quello dell’astrofisico Neil deGrasse Tyson e delle sue opinioni in materia di filosofia.

L’esistenza di tali sconfinatori pone una serie di problemi che Ballantyne affronta nel suo saggio e per i quali rimando al suo testo. Mi preme, tuttavia, proporre in questo post alcune considerazioni.

Da un lato, come è evidente da quanto sta accadendo in questa epoca pandemica, lo sconfinamento sembra sempre più coltivato dai media ai quali interessa acquisire e divulgare l’opinione dell’esperto anche in altri campi, facendo leva sul cosiddetto effetto alone, a cui, ricordo, ho dedicato il mio ultimo libro. In altre parole, chi ha la fama di esperto in un campo, vede la sua aureola espandersi anche su altri territori in merito ai quali il pubblico pare riconoscergli comunque competenze superiori alla media. È per questo che filosofi, politici, attori e ballerine sono “ricercati” se hanno un’opinione, meglio ancora se controversa, su un determinato argomento su cui non hanno diretta perizia. In qualche modo, le loro competenze reali circonfondono qualsiasi cosa venga da loro detta di un alone particolare. Così un attore come Enrico Montesano e una showgirl come Heather Parisi riescono ad esprimere opinioni strampalate e scorrettissime su un tema come il Covid (e ad acquisire followers), anche se queste non differiscono per nulla da quelle del proverbiale “uomo (o donna) della strada”.

Dall’altro, non dobbiamo affezionarci troppo all’idea di Ballantyne e ritenere che un esperto non debba mai sconfinare dalle proprie conoscenze. Innanzitutto, perché tutti hanno diritto ad esprimere un’opinione, con l’avvertenza che questa, da qualunque esperto provenga, non deve porsi come un dogma solo perché viene dal grande intellettuale di turno. In secondo luogo, perché non è detto che, ad esempio, un biologo non possa offrire una prospettiva nuova e stimolante su un campo come quello della religione, che, come tutti i campi che coinvolgono credenze, non dovrebbe essere appannaggio di teologi e sacerdoti. Anzi, questa è una delle modalità tramite cui il sapere avanza: confrontandosi con altri punti di vista. In terzo luogo, perché ci sono saperi, come ci avverte lo stesso Ballantyne, che possiamo definire “ibridati”, ossia chiamano in causa competenze diverse, come mostra ancora l’esempio del virus, argomento che incrocia competenze virologiche, mediche, psicologiche, sociologiche, antropologiche, politiche, amministrative, organizzative ecc.

Il termine “sconfinamento” (trespassing, in inglese) esprime un avvertimento, ma rischia di essere percepito come una censura. Affinché non lo diventi, dobbiamo essere consapevoli del fatto che è lecito sconfinare, ma i termini dello sconfinamento devono essere sempre chiari. Infine, non lasciamoci ingannare dall’effetto alone. Si può essere geni assoluti in un campo e idioti totali in un altro.

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Quell’alone intorno alla testa degli chef

Una delle conseguenze spinte della secolarizzazione profonda delle nostre società è che il posto degli dei è a disposizione di chiunque, per ragioni puramente contingenti e storiche, sia ritenuto degno di occuparlo.

Prendiamo il caso degli chef. Questo termine, che deriva dal francese “chef de cuisine, indica “una figura professionale della ristorazione, responsabile della cucina” (come ci informa Wikipedia). Da tale definizione neutra, ci aspetteremmo che lo chef abbia competenze ben precise in fatto di cucina, che sappia preparare il cibo, impostare un menù o interpretare una ricetta.

Data tale definizione, non avremmo motivo di rivolgerci a uno chef per apprendere come votare, come guadagnare in borsa, come vestirci per apparire eleganti, come essere in salute, che cosa aspettarci dall’andamento dell’ultimo virus che condiziona le nostre esistenze.

Eppure, questo è esattamente quello che succede nella nostra società secolarizzata. In mancanza di meglio, avendo data scarsa prova di sé politici, sacerdoti, maestri, scienziati (a volte), abbiamo pensato bene di sostituirli con gli chef, che, se non altro, vellicano e aggraziano la più forte pulsione primaria dell’umanità, quella della fame, a sua volta strettamente associata a un fondamentale istinto: quello della sopravvivenza.

Con gli chef, in un certo senso, torniamo alla nostra natura più primitiva, alle origini, a ciò che fa di noi ciò che siamo. Ed è per questo forse che abbiamo deciso di rimpiazzare con essa le altre figure alle quali, per tradizione, affidavamo il ruolo di bussole della nostra vita.

Tale sostituzione, tuttavia, è avvenuta nelle forme di una glamourizzazione del cuoco, che da semplice mescolatore di ingredienti, è diventato star dell’esistenza, faro della vita, barometro in un mondo senza più punti di riferimento. A tale glamourizzazione hanno contribuito inevitabilmente i media che sovraesponendone le funzioni, celebrandole, esaltandone al limite dell’apoteosi la figura, hanno installato il cuoco nel punto più eminente dell’empireo, sfrattandone i precedenti occupanti.

Assurto al ruolo di dio onnipotente, lo chef  si è visto circondare il capo da un alone di nobiltà e competenza come mai prima nella storia dell’umanità. E, in virtù di quello che gli psicologi definiscono proprio “effetto alone”, che indica il fenomeno per cui un’impressione generale positiva di un individuo domina la percezione che gli altri hanno di lui anche relativamente a tratti diversi, tendiamo a pensare che, come la bellezza fisica condiziona la percezione di altre qualità della persona quali l’intelligenza o la professionalità, così l’alone glamour dello chef ci induce a pensare che chiunque vi si identifichi abbia competenze speciali anche relativamente ad altre dimensioni, come la politica, l’economia, la salute pubblica ecc.

Si tratta di un errore diffusissimo che, nello chef, vede oggi la sua manifestazione più evidente (e forse raccapricciante), ma che da sempre offusca il nostro modo di percepire persone e cose.

Se desiderate sapere di più sull’effetto alone e su come questo condiziona le nostre vite, vi rimando al mio recente Aloni, stregoni e superstizioni. Cinque studi sulla irrazionalità umana, un libro unico nel suo genere che illustra cinque meccanismi che ci rendono, ancora oggi, individui profondamente superstiziosi.

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Il complottismo secondo Leo Löwenthal

In quest’epoca pandemica, assistiamo a un tale proliferare di teorie e fantasie complottistiche che saremmo tentati di pensare che siano un fenomeno del nostro tempo, o almeno molto recente. Parallelamente, sociologi, psicologi, scienziati della politica, saggisti inondano le nostre librerie di scritti che tentano di interpretare il fenomeno, riconducendolo, in molti casi, alla reazione di individui che si sentono minacciati da un mondo sempre più complesso e anonimo e che trovano, al tempo stesso, conferma e sollievo alle proprie angosce, ipotizzando forze minacciose (banchieri, gruppi di potere, conventicole misteriose, società segrete) che tirano i fili delle nostre esistenze. Immaginare precisi, per quanto elusivi, individui che manipolano il nostro destino e controllano gli aspetti più intimi delle nostre vite è rassicurante, in parte, perché almeno consente di individuare i responsabili dei nostri patemi. E tale fantasia è preferibile cognitivamente all’alternativa del caos incomprensibile della complessità.

Questa spiegazione del complottismo, che oggi va per la maggiore, trova un interessantissimo, quanto misconosciuto, precedente in un libro pubblicato nel 1949 (in pieno maccartismo) da Leo Löwenthal (1900-1993) e Norbert Guterman con il titolo Prophets of Deceit (Profeti dell’inganno). In quest’opera, Leo Löwenthal, esponente di punta della Scuola di Francoforte e intellettuale raffinatissimo, si concentra in particolare sulla figura dell’agitatore politico che, con le sue tecniche, è in grado di manipolare il pubblico, di raggirarlo inducendolo a credere di essere vittima di forze sinistre e occulte. L’agitatore rafforza e amplifica la propensione complottistica dei suoi sostenitori, facendo leva sul loro malcontento e ricavando da questo facili “ricette” per persuadere il pubblico dei “gonzi” a stare dalla sua parte. Complotti e cospirazioni sono parte integrante del ricettario manipolativo dell’agitatore, che comprende tecniche molto simili a quelle degli agitatori odierni che sfruttano, in fondo, timori e fantasie complottistiche molto simili a quelle di cui parlava Löwenthal.

Stranamente (ma nemmeno poi tanto considerando l’editoria italiana), il testo di Löwenthal e Guterman non è mai stato tradotto in italiano. Per questo motivo ho deciso di proporvi le pagine del libro dedicate al tema della cospirazione, straordinariamente lungimiranti al punto da suscitare una indubbia sorpresa in chi le leggerà.

Eccole, dunque, sperando che qualche editore avveduto decida di permetterci di leggere l’intero volume. Lo meriterebbe davvero!

Le pagine sono tratte da Leo Löwenthal e Norbert Guterman, 1949, Prophets of Deceit. A Study of the Techniques of the American Agitator, Harper & Brothers, New York, cap. III “A Hostile World”, pp. 24-27. La traduzione è mia.

Il gonzo non è immaginato solo come vittima di un inganno, ma come vittima di un inganno sistematico, continuo, duraturo. Né deve sorprenderci la sua incapacità di superare lo smarrimento e l’impotenza, perché egli è vittima di una “cospirazione politica globale e meticolosamente pianificata”.

Nel promuovere l’idea di una cospirazione permanente ai danni degli eterni gonzi, l’agitatore strumentalizza e amplifica la propensione di coloro che si considerano falliti ad attribuire le loro sventure a segrete macchinazioni nemiche. L’impiegato licenziato, l’innamorato respinto, il soldato scontento a cui è stata negata la promozione, lo studente che non supera un esame, il piccolo negoziante costretto a chiudere dal concorrente più grande: ciascuno di essi può prendersela con misteriosi persecutori motivati da oscuri rancori. Tuttavia, la propensione di chi patisce frustrazioni a immaginarsi vittima di nemici potenti non conduce necessariamente ad atteggiamenti paranoici. Spesso tali sospetti si poggiano su giustificazioni oggettive in un mondo in cui la sfera di azione dell’individuo è sempre più limitata da forze sociali anonime. In effetti, le nostre esistenze quotidiane sono influenzate da cambiamenti formidabili le cui cause sono di difficile comprensione. Per questo motivo, molti desiderano sapere che cosa accade dietro le quinte. Quando l’agitatore ripete a coloro che lo ascoltano che essi sono “sballottati”, “palleggiati” e vittimizzati da banchieri e burocrati, egli fa leva su sentimenti che in essi sono già presenti. Gli stereotipi della “macchinazione di Wall Street”, del “complotto monopolistico” o delle “spie internazionali”, tuttavia, non assumono la forma di idee definite, ma di brumosi sospetti riguardo alla complessità dei fenomeni. Pur essendo una forma inadeguata di riflessione sulla realtà, tali sospetti possono servire da punto di partenza per un’analisi della situazione economica e politica.

L’agitatore agisce in maniera esattamente opposta. Egli ricorre agli stereotipi più triti solo per incoraggiare il vago risentimento che essi riflettono. Li utilizza non come trampolino per l’analisi, ma come “analisi” in sé: il mondo è complicato perché ci sono fazioni il cui scopo è renderlo complicato. A livello sociale, l’agitatore spinge il suo uditorio a reazioni simili alla paranoia a livello individuale e raggiunge il suo obiettivo soprattutto ampliando in maniera smisurata il concetto di cospirazione.

Laddove altri discutono le implicazioni ultime di un programma politico, egli vede un complotto deliberato: il New Deal non è altro che «un sabotaggio marxista per demolire l’ordine esistente…». La British War Relief Society è «sponsorizzata dagli stessi internazionalisti che ci hanno fatto precipitare nella Prima guerra mondiale». Il B’nai B’rith è «una lobby mondiale di spie» che dispone di «risorse illimitate» e di «una Gestapo tutta sua». Le crisi economiche sono architettate da «un piccolo, ma potente gruppo minoritario, bene organizzato e finanziato…». Perfino una banale circostanza come una contestazione a un senatore è sfruttata dall’agitatore per chiamare in causa una “società segreta” il cui scopo è «diffamare i membri del senato» Espressioni come “Mano occulta” o “Governo internazionale invisibile” compaiono sovente negli scritti e nei discorsi dell’agitatore.

Della cospirazione fanno parte tutte le organizzazioni che, secondo l’agitatore, sono ostili ai suoi scopi. Egli afferma che esse cercano di «annientare […] lo stile di vita americano» e invita «tutti i cristiani a rimanere uniti» perché è in corso una cospirazione «per distruggere la Chiesa». Parimenti, «l’odio di classe scaturisce da menzogne e spiegazioni contrastanti, che contribuiscono a creare confusione e a celare i veri autori dei piani diabolici per la distruzione della civiltà cristiana e occidentale».

Non solo tale inflazione del concetto di cospirazione funge da diversivo rispetto a ogni tentativo di indagare i processi sociali, ma offusca l’identità dei gruppi designati quali cospiratori. Gli stessi stereotipi che, un tempo, alludevano, in maniera più o meno precisa, a determinate oligarchie sociali, ora sono adoperati in riferimento a segreti, per quanto vaghi, giganteschi complotti internazionali. Il termine “piovra,” che Frank Norris introdusse una volta in un suo romanzo in riferimento ai magnati delle ferrovie, oggi viene adoperato più diffusamente per indicare un “governo internazionale invisibile”.

La trasformazione di una cerchia ristretta di magnati in misteriosi governanti invisibili rende evidente l’operazione di offuscamento della realtà, che favorisce atteggiamenti paranoici. In compenso, il concetto di cospirazione assume una connotazione sensazionalistica ed eccitante, e tutti i problemi della vita moderna vengono imputati a una causa semplice e rassicurante, seppure vaga e misteriosa. La riduzione sistematica di tutte le cospirazioni a un unico, grandioso complotto è, secondo l’agitatore, «un fatto ovvio perfino per gli individui più ottusi» in quanto

[…] tutti questi continui pasticci – questo strabiliante complesso di inganni, sabotaggi interni e grossolana incompetenza da parte dei leader della Gran Bretagna, della Francia e perfino degli Stati Uniti – non sono un fatto casuale. Essi indicano, al contrario, un’azione guidata da un centro: un governo mondiale…

Nessuno conosce le dimensioni di tale cospirazione. Infatti, essa viene portata avanti da tempo immemorabile.

La dottrina del governo sostenuto da entità segrete, e questo gruppo segreto, erano presenti nella Babilonia di Nimrod, in Egitto, nella Babilonia di Nabucodonosor, in Media, nella Grecia e a Roma. E questa stessa società segreta diede origine ai giacobini durante la Rivoluzione francese e mise Napoleone al potere in Europa e quando la Russia e l’Inghilterra lo sconfissero (si leggano le opere di Dumas), si trasferì in Germania dove divenne nota con il nome di comunisti. Da qui, poi, conquistò la Russia e generò i suoi figli bastardi: fascismo e nazismo.

Queste incredibili fantasie soddisfano, innanzitutto, il desiderio del pubblico di dare una spiegazione alle proprie sofferenze. In questo senso, rivelando coraggiosamente perché le potenze che governano il mondo desiderano rimanere dietro le quinte, l’agitatore sembra continuare l’opera dei giornalisti investigativi. Tuttavia, prendendo, per così dire, alla lettera le idee del pubblico, esagerando fino all’estremo il sospetto che gli individui siano burattini nelle mani di forze anonime, alludendo a individui misteriosi invece che esaminare le forze sociali, l’agitatore in effetti defrauda il proprio pubblico della sua curiosità. Invece di diagnosticare il malanno, lo spiega come esito della crudeltà di uno spirito malvagio. I cospiratori, infatti, non sono mai motivati da uno scopo razionale, secondo l’agitatore, ma dal desiderio gratuito di distruggere:

I miei informatori mi dicono che sta per iniziare una rivoluzione incruenta grazie a una politica pianificata di distruzionismo: un distruzionismo che fa finta di alleviare la sofferenza, la miseria, la disoccupazione e la fame […], un distruzionismo che mira, in ultima analisi, a mandare in rovina la nazione e, dunque, al rifiuto di riconoscere i debiti e al rovesciamento del governo.

E questa cospirazione ha come bersaglio gli organi vitali del popolo. Se, infatti, le persone vogliono sopravvivere, devono agire immediatamente per annientarla, perché «i cospiratori hanno talmente modificato le nostre consuetudini che abbiamo perso la nostra antica capacità di reagire. In un momento così critico abbiamo bisogno di più di un semplice palliativo…».

Qui vediamo come le congetture paranoiche e le fantasie cospiratorie cedano il passo alla suggestione della violenza. Poiché lo stesso termine “cospirazione” connota illegalità e tradimento, i cospiratori sono descritti come individui che violano la legge del tutto impunemente. Ciò vuol dire che le leggi e le istituzioni esistenti non possono nulla contro di essi e che è necessario adottare misure straordinarie.

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Il CENSIS e l’irrazionalità degli italiani

Il 55° Rapporto CENSIS sulla situazione sociale del Paese (2021) ritrae una società italiana preda dell’irrazionalità, vittima di complottismi sfrenati, fantasie cospiratorie, idee strampalate e ipotesi surreali. I numeri sembrano parlare chiaro:

Il 31,4% degli italiani è convinto che il vaccino sia un farmaco sperimentale e che le persone che si vaccinano facciano da cavie; il 10,9% sostiene che il vaccino è inutile e inefficace; per il 5,9% il virus non esiste. Ancora, il 12,7% degli italiani ritiene che la scienza provochi più danni che benefici; il 67,1% che esista un “Deep state”; il 64,4% che le grandi multinazionali siano le responsabili di tutto quello che accade, mentre per il 56,5% esiste una casta mondiale di superpotenti che controlla tutto.

Non manca un 39,9% di italiani che crede nella teoria della sostituzione etnica (tra cui dovremmo calcolare anche i leader politici Salvini e Meloni) e un 19,9% che considera la tecnologia 5G uno strumento per controllare le le menti delle persone.

Infine, il 10,0% degli italiani è convinto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna e il 5,8% che la Terra sia piatta.

Sarebbe interessante confrontare questi dati su un’Italia irrazionale con dati simili di rapporti precedenti del CENSIS, ma credo che tale dimensione non sia stata esplorata negli anni scorsi, almeno non in maniera così dettagliata.

È opportuno notare, comunque, che se tali “credenze” hanno indubbiamente “radici socio-economiche profonde” (come afferma lo stesso Rapporto), è altrettanto probabile che un ruolo importante nella loro propagazione lo abbiano anche i mass media che, eleggendo a topic abituale la loro discussione, ne legittimano, in qualche modo, la presenza nel nostro immaginario.

Se, come recita Francesco Bacone (nel De dignitate et augmentis scientiarum), Audacter calumniare, semper aliquid haeret, ossia “Calunnia senza timore: qualcosa rimane sempre attaccato”, è anche vero che “Parlatene, parlatene: qualcosa sarà creduto”.

Se poi si aggiunge che alla diffusione di queste credenze contribuiscono anche politici di primo piano, medici, filosofi, avvocati, amministratori locali, poliziotti e tanti, ma davvero tanti opinion leader, non dovremmo sorprenderci del fatto che l’irrazionalità dilaghi.

Dovremmo forse sorprenderci del contrario.

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Sul metodo di Zadig

Si può profetizzare a ritroso? È possibile applicare facoltà “straordinarie” per divinare il passato invece che il futuro? E se queste facoltà non fossero poi tanto straordinarie, ma solo “vecchio” senso comune applicato metodicamente?

Sembra essere questa l’essenza dell’ossimorico termine “profezia retrospettiva”, coniato da Thomas Henry Huxley (1825-1895), scienziato positivista, nonché inventore del termine “agnosticismo” (1869), il cui principale insegnamento morale ed epistemico è riassumibile in poche parole d’ordine: umiltà di fronte alle prove della scienza, rifiuto di avventurarsi nell’inconoscibile e fede nell’ordine della natura e nell’assoluto determinismo.

Autore di un numero straordinario di pubblicazioni scientifiche, evoluzionista intelligente e convinto, tanto da essere soprannominato il “bulldog di Darwin” per l’ostinata difesa delle teorie del maestro dalle dure accuse rivoltegli da religiosi suoi contemporanei, secondo cui  la selezione naturale finiva con l’avvilire la religione e la dignità umana, Huxley scrisse di biologia, antropologia, paleontologia, zoologia, etnologia, filosofia, politica, sociologia (seppure una sociologia ante litteram), critica religiosa (celebri ancora oggi i suoi testi polemici in favore della libertà di pensiero e dell’interpretazione critica dei testi sacri), mostrando una versatilità ammirevole che, unita a una notevole vis pugnandi, ne fecero uno dei personaggi più noti e influenti della scena filosofica inglese di fine Ottocento.

Rispettabile membro dell’establishment vittoriano e titolare in tarda età di una serie di cariche prestigiose (componente del London School Board, presidente della Royal Society, fiduciario del British Museum), Huxley propugnò vivacemente l’applicazione costante e inflessibile del metodo delle scienze della natura, unico metodo in grado di produrre il vero sapere. Fu uno dei primi scienziati ad abbracciare la scienza come professione, in un’epoca, quella vittoriana, in cui essa era per lo più praticata da persone che disponevano di tempo libero. Fidando razionalmente nel metodo scientifico basato sull’analisi empirica dei fatti, lo scienziato inglese era convinto che esso fosse da applicare non solo ai fatti del presente, ma anche a quelli del passato.

Ed è a questo riguardo che Huxley conia, nell’articolo “On the Method of Zadig. Retrospective Prophecy as a Function of Science” (1880), qui da me tradotto in italiano, l’espressione “profezia retrospettiva” che, lasciata inesplicata, potrebbe indurre dei dubbi sulla coerente adesione dello scienziato a una visione positivista e deterministica del mondo. In realtà, il termine “profezia” non va inteso in senso mistico-religioso ma come facoltà in grado di farci comprendere “ciò che fino a prima andava oltre la sfera della conoscenza immediata”, facendoci vedere “ciò che era invisibile al senso naturale del vedente”. Tale comprensione non avviene in seguito a una intuizione trascendente o metafisica, bensì per mezzo dell’applicazione di un metodo rigorosamente empirico, fondato sull’osservazione meticolosa e sull’assioma “secondo cui da un effetto si può risalire alla causa competente a produrre quell’effetto”.

Centrale in questa impresa è la capacità di osservare con sagacia le relazioni tra cause ed effetti. In questo senso, Huxley fa sua la lezione di Zadig, il personaggio fantastico di cui parla il filosofo francese Voltaire (1694-1778), che da una semplice traccia nel terreno o una depressione nella sabbia è in grado di ricostruire il passaggio del cavallo del re o della cagna zoppicante della regina (“indovinando” anche che era zoppa). La sagacia non è qualità di tutti: non  a caso le doti di Zadig sono fraintese dai suoi contemporanei per abilità quasi magiche e gli costano guai a ripetizione. Un po’ come le doti di un altro personaggio vittoriano di fantasia, Sherlock Holmes, in grado di stupire amici e nemici, esibendo capacità di osservazione fuori del comune.

Ma questa facoltà di “vedere” il passato, ossia di applicare quello che sarà poi chiamato metodo abduttivo, non è appannaggio di personaggi di invenzione, ma è alla base del progresso delle scienze naturali e storiche, tanto che sue brillanti illustrazioni sono rinvenibili nell’attività di scienziati come lo zoologo George Cuvier (1769-1832) capace di risalire “magicamente” da un dente o da un osso al tipo di animale dotato di quel dente o osso, o in discipline come l’archeologia, grazie alla quale è possibile risalire da un frammento di pietra a un insediamento umano di migliaia di anni prima con una buona approssimazione alla verità, o come l’astronomia, in grado di rivelarci il verificarsi di remoti fenomeni celesti di cui altrimenti non sapremmo nulla.

Il metodo di Zadig è universale perché si basa sulla regolarità dell’ordine naturale ed è congeniale al senso comune in quanto presuppone che ogni azione umana si regga, come detto, sul postulato che a ogni effetto corrisponda una causa. Alla luce di tale metodo, perfino la ricostruzione dei fatti miracolosi narrati dalla Bibbia appare altamente improbabile ed è più facilmente spiegabile ricorrendo a nozioni di biologia e fisiologia che ai redattori del Nuovo e dell’Antico Testamento erano sconosciute. Al contrario, la fede, che presuppone la credenza in eventi altamente improbabili conservandone l’improbabilità, non ha interesse ad applicare i metodi della scienza e si colloca così su un orizzonte coerentemente impossibile agli occhi di quella. La fede disdegna le investigazioni che potrebbero ridurre a fatti umani e spiegabili miracoli e personaggi e ricerca significati non riconducibili al vaglio della ragione. È per questo che, secondo Huxley, scienza e teologia sono nemici mortali destinati a darsi battaglia fino al prevalere di uno dei due.

Lo scienziato inglese conclude il suo articolo, “profetizzando”, da buon positivista, che “in un futuro non molto distante, l’applicazione del metodo di Zadig a un maggiore numero di fatti di quanti l’attuale generazione abbia la possibilità di esaminare, consentirà al biologo di ricostruire lo schema della vita fin dai suoi inizi e di descrivere con sicurezza le caratteristiche di esseri da tempo estinti, ma di cui non si è conservata alcuna traccia”.

Si tratta di un’affermazione forte, il cui vigore, quasi fideistico, contrasta con il clima di spaurita sfiducia nella scienza che noi che abbiamo la ventura di vivere nel terzo millennio sperimentiamo ogni giorno. I rivali del buon senso – gli equivalenti dei “maghi” con cui si confrontava Zadig – sono ancora lontani dall’estinguersi, come si augurava Huxley, e, anzi, prosperano, magnificando la propria irrazionalità dai tanti pulpiti social che la contemporaneità offre loro. Abbondano, peraltro, i laureati dell’Università di Internet, tanto diversi dai “laureati dell’Università della Natura”, che sempre Huxley celebra nel suo articolo.

Ciò, comunque, non è un buon motivo per smettere di coltivare la sagacia e l’impegno che sono attributi propri della scienza. Anzi, in fondo, dovrebbe stimolarci ancora di più a (continuare a) leggere “On the Method of Zadig”, nella speranza che lo spirito del personaggio di Voltaire possa sempre illuminare le nostre conoscenze.

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Perché si rapisce un bambino

Il rapimento di un bambino è probabilmente uno dei crimini più orrendi per la sensibilità attuale. Sebbene i numeri di tali rapimenti siano spesso “gonfiati” e non raggiungano le cifre “mostruose” che la stampa sensazionalistica ci offre di continuo, notizie del genere suscitano sempre grande scandalo nel pubblico e sono soggette a infiniti commenti da parte di giornalisti, opinionisti ed esperti di vario genere.

Ma perché si rapisce un bambino? Oggi la scomparsa dei minori, come rilevano i periodici rapporti del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, avviene per lo più per allontanamento volontario, per possibili disturbi psicologici, per allontanamento da un istituto o comunità, per sottrazione da coniuge o altro congiunto e solo in minima parte in seguito alla commissione di un reato. L’immaginario televisivo dei più tende a ritenere che, in quest’ultimo caso, i bambini siano uccisi per il traffico di organi, rapiti per essere venduti a organizzazioni internazionali di pedofili o di adozioni illegali, sacrificati da sette sataniche o rapiti da “zingari cattivissimi”, tutte ipotesi per le quali ci sono, di solito, scarsi riscontri. 

Tuttavia, come rileva la storica Elizabeth Foyster nel suo “The ‘New World of Children’ Reconsidered: Child Abduction in Late Eighteenth- and Early Nineteenth-Century England”, pubblicato sul Journal of British Studies (2013), le motivazioni dietro il rapimento dei bambini sono cambiate nel corso dei secoli, riflettendo il diverso valore attributo ad essi da parte della società

Ad esempio, nell’Inghilterra del quattordicesimo secolo, ad essere abducted, in maniera consensuale o violenta, erano soprattutto adolescenti o giovani donne per motivi sessuali. Nel diciassettesimo secolo, invece, i rapimenti riguardavano soprattutto situazioni di servitù debitoria o a contratto (indentured servitude) in cui il giovane sottostava a un periodo di servitù volontariamente contratta per ripagare un debito.

Il diciottesimo secolo significò un nuovo modo di considerare i bambini, almeno nelle classi medie. In questo periodo, i bambini vennero “valorizzati” perché consentivano alle donne di acquisire il ruolo socialmente stimato di madri e perché costituivano modelli in miniatura di tutto ciò che una società più ricca poteva consentire, in quanto “consumavano” merci prima rare da trovare per i bambini come abiti su misura, giocattoli, libri ecc.

Divenendo sempre più “preziosi”, i bambini divennero sempre più “appetibili” come “merci” da rubare. Sulla base dello studio accurato di 108 casi di rapimento nella Londra del periodo, Foyster osserva che la maggior parte dei rapimenti riguardava bambini al di sotto dei sei anni e che a rapirli erano solitamente donne tra i 20 e i 30 anni, “desiderose” di mostrare un figlio in società. In altri casi, i bambini erano rapiti per sottrarre loro i vestiti o per essere utilizzati per chiedere l’elemosina o un lavoro.

Foyster nota anche che, all’epoca, i genitori non erano ossessionati dal terrore del pedofilo che oggi, invece, sembra essere il principale timore di padri e madri apprensivi. Alcuni rapimenti avvenivano, anzi, proprio perché i genitori si fidavano eccessivamente degli sconosciuti a cui non attribuivano intenzioni malvage.

Al giorno d’oggi, è corretto affermare che i timori parossistici nei confronti dei bambini testimoniano il valore senza precedenti che l’infanzia ha raggiunto nella nostra società. Per questo motivo, ogni crimine ai loro danni viene severamente stigmatizzato e penalizzato, come mai è accaduto nella storia. Per lo stesso motivo, si tende a sopravvalutare il numero e il tipo di pericoli che minaccerebbero la loro incolumità, con la conseguenza che ogni genitore tende ansiosamente  a scorgere intorno a sé minacce un tempo impensabili per i propri figli. Ma queste ansie riflettono più una condizione psicologica che reale, come testimonia il relativamente basso numero di rapimenti criminali di bambini contemporanei compiuti da “adulti cattivissimi”.

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Istituzioni e infantilismo

Le istituzioni, siano esse totali o no, tendono a sviluppare un linguaggio infantilizzante  che mira a “umiliare” i propri membri e a ricordare loro costantemente che essi sono “meno” dell’istituzione a cui appartengono oppure che occupano una posizione inferiore all’interno della gerarchia legittima creata per lo svolgimento dei compiti funzionali all’istituzione stessa. Talvolta, tale linguaggio, nobilitato dalla tradizione o dall’uso, finisce con l’emanciparsi dal suo contesto di origine e a perdere il significato iniziale. Spesso, viene interiorizzato e ostentato in modo da comunicare appartenenza a un’istituzione di cui si è fieri di fare parte.

Nelle istituzioni burocratiche, ad esempio, i lavoratori sono definiti “impiegati”. Non molti riflettono sul fatto che “impiegato” è il participio passato di “impiegare”, cioè “usare”, “sfruttare”. Eppure, è facile imbattersi in dipendenti pubblici orgogliosi di essere “impiegati”, anche se il termine rimanda a una condizione poco nobile (essere usati non è qualcosa di cui solitamente ci si vanti, a meno di non essere masochisti).

A proposito di dipendenti pubblici, il termine “dipendente” è il participio presente del verbo “dipendere”, altro termine dalla connotazione originaria “umiliante”, oggi quasi del tutto scomparsa. Anche “funzionario”, cioè “destinatario di una funzione”, sembra ridurre chi è investito di tale titolo al ruolo di “rotella del sistema”. Gli impiegati sono detti anche servitori pubblici. Insomma, tutto un repertorio di termini relativo a chi lavora all’interno di istituzioni pubbliche esprime originariamente subalternità, passività, assenza di umanità e dignità, cosalizzazione.

In ambiente militare, l’infantilizzazione è perfino più accentuata. Il “fante” ha origine linguisticamente dalla stessa fonte da cui proviene “infante” (“colui che non sa parlare”, etimologicamente). In Marina, la parola “mozzo” – colui che vale meno di tutti a bordo di una nave – ha origine da mucus, e significa dunque “moccioso”, “ragazzino”. Nella marina mercantile, il termine “piccolo” designa chi svolge funzioni di cameriere. Chi svolge funzioni servili viene chiamato, in altri contesti, garçon, in francese, criado, in spagnolo.

Infine, è noto come nelle istituzioni in cui sono ospitate le persone con disabilità, queste sono spesse chiamate “ragazzi/e” anche se hanno 50 anni, come se la loro condizione li rendesse “infanti” a vita.

Insomma, il linguaggio infantilizzante sembra essere uno strumento con il quale ogni istituzione impone ai suoi membri, da un lato, la propria prevalenza sui membri stessi (l’istituzione è più importante dei suoi membri), dall’altro, una gerarchia di funzioni al cui fondo sono relegati i ruoli più svilenti sui quali l’inferiorità è impressa perfino nel nome.

Il fatto più curioso, come detto, è che tali nomi, in alcuni casi, perdono, con il tempo, la loro etimologia inferiorizzante ed entrano nella percezione comune come nomi neutrali o, addirittura, definizioni di ruoli degni e ambiti, come nel caso di “impiegato pubblico”.

In queste circostanze, il prestigio dell’istituzione ha la meglio sull’origine della parola ed emenda apparentemente il nome dalla “umiliazione etimologica” insita in esso; umiliazione che tuttavia perdura nella realtà, come è evidente dalla biografia lavorativa di qualunque impiegato pubblico.

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Distanza psicologica e indifferenza sociale

Perché determinati temi sono da noi trascurati e ritenuti poco importanti? Perché mostriamo scarso interesse per le vicende di alcuni gruppi sociali o categorie di individui? Perché condotte da molti considerate rilevanti sono per noi completamente indifferenti?

Secondo Yaacov Trope, dell’Università di New York, e Nira Iberman, dell’Università di Tel Aviv, in Israele, autori della cosiddetta construal level theory (“teoria del livello costruttivo”), il motivo sta nel fenomeno della cosiddetta distanza psicologica, costrutto che ha quattro dimensioni: la distanza spaziale (la cosa è rilevante solo per chi vive in altri luoghi), la distanza temporale (sarà significativa solo per il futuro oppure era significativa solo nel passato), la distanza sociale (riguarda persone diverse da noi), e la distanza ipotetica (non è detto che accada). Più dimensioni “incontra” un fenomeno più è probabile che esso non ci interessi.

Pensiamo alla questione dei cambiamenti climatici. Uno dei motivi per cui questo fenomeno non viene percepito come importante è che esso viene avvertito come “spazialmente distante” (riguarda solo determinate aree del pianeta), “temporalmente distante” (riguarda le generazioni future), “socialmente distante” (riguarda quei poveracci del sud del mondo), “ipoteticamente distante” (potrebbe non accadere affatto in futuro e comunque riguarda generazioni di persone che non vedremo mai).

Un discorso simile riguarda le sofferenze vissute da migranti e rifugiati nel mondo. Essi provengono da aree remote del mondo (distanza spaziale), in cui gli abitanti sono alle prese con problemi da tempo risolti nel nostro mondo, come la fame e le malattie (distanza temporale), socialmente, economicamente ed epidermicamente diversi da noi (distanza sociale), e che non è detto “incroceranno” le nostre vite (distanza ipotetica).

A volte la distanza psicologica riguarda alcune categorie di età. Il fenomeno dell’ageismo, ad esempio, e, in particolare, l’atteggiamento nei riguardi degli anziani, potrebbe avere come concausa anche il costrutto elaborato da Trope e Iberman. Per un giovane, infatti, l’anziano è “spazialmente distante” (frequenta, di solito, luoghi diversi dai giovani), “temporalmente distante” (data l’età), “socialmente distante” (l’anziano, in virtù della sua età, occupa spesso una posizione sociale e uno status molto diversi dal giovane) e “ipoteticamente distante” (molti giovani sostengono che la vecchiaia è una condizione talmente remota che non riescono nemmeno a immaginare di arrivarvi).

Infine, anche la disabilità potrebbe essere interessata dalla teoria di Trope e Iberman. I disabili sono spesso relegati in casa o occupano spazi diversi dai normodotati (distanza spaziale); sono socialmente distanti nel senso che, ad esempio, non occupano gli stessi impieghi dei normodotati; sono ipoteticamente distanti perché ai normodotati riesce difficile perfino concepire di poter diventare disabili, anche se la disabilità è qualcosa che potenzialmente potrebbe accadere a tutti noi.

L’unico modo per contrastare tali fenomeni di indifferenza, trascuratezza, disinteresse, è evidentemente quello di colmare o accorciare le quattro dimensioni di distanza, che impediscono che l’altro venga percepito come “uguale” a noi.

Un compito difficile, a cui da anni psicologi, sociologi, educatori stanno tentando di trovare una soluzione. Nel mondo di oggi, tuttavia, trovare modi di ridurre le distanze è più facile rispetto al passato; sentirsi in empatia con gli altri più agevole di un tempo. Basta solo farne un obiettivo primario della nostra esistenza. Un obiettivo che, in fondo, conviene a tutti raggiungere.

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