I politici e i “nostri figli”

Nel repertorio retorico saccheggiato dai politici di varia caratura è onnipresente il richiamo ai “nostri figli”, dispositivo quanto mai persuasivo per conferire valore a una proposta politica o suggerire una linea di condotta.

Il richiamo ai figli è particolarmente adoperato quando ciò che si vuole proporre non è destinato ad avere un impatto immediato sulla società e correrebbe il rischio di non essere percepito adeguatamente dai destinatari della proposta. Esempio: “Dobbiamo fare X, altrimenti a pagarne le conseguenze saranno i nostri figli”. Tale richiamo è particolarmente attuale in riferimento alle questioni ecologiche, spesso non avvertite come urgenti e tematizzate dal cittadino medio solo in un’ottica futuristica.

Questo strumento retorico può servire, però, anche a gettare fumo negli occhi allontanando nel tempo le conseguenze di un’azione, i cui effetti “poco altruistici” saranno già percepibili nell’immediato, ma che il politico ha tutto l’interesse di “mascherare”, appunto, con il richiamo ai “nostri figli”. In questo modo, ad esempio, si può legittimare la costruzione di una grande opera, che porterà utili immediati al politico e al suo gruppo, dichiarando che a trarne beneficio saranno soprattutto “i nostri figli”, quando tutto ciò che interessa davvero sono i profitti realizzabili a breve.

La retorica dei “nostri figli” può servire anche a legittimare l’adozione di politiche paternalistiche, che pur avendo una connotazione positiva agli occhi del pubblico, sono di per sé contestabili o dagli effetti dubbi. Pensiamo a tutte le politiche sulle droghe che, in nome del benessere dei “nostri figli”, proibiscono da anni il consumo di sostanze che possono avere anche un utilizzo benefico.

Infine, la figura dei “nostri figli” serve a valorizzare specularmente quella del “buon padre di famiglia”, tanto amata dal nostro codice civile e da chi pretende di apparire saggio. Il “buon padre di famiglia” richiama i criteri di diligenza e prudenza che dovrebbero informare l’assunzione di decisioni buone e giuste. In realtà, essa deriva dal latino pater familias che indica una forma di famiglia – quella, appunto, degli antichi romani – che, come fa notare Eva Cantarella, «era un gruppo all’interno del quale si commettevano soprusi e violenze non da poco: il padre poteva sottoporre i discendenti (per non parlare della moglie) a punizioni fisiche, in casi estremi poteva metterli a morte, decideva chi poteva sposarsi e con chi, poteva diseredare i figli senza doverlo motivare… Il padre di famiglia alla romana, insomma, è una figura grazie al cielo scomparsa».

In conclusione, la figura tanto apprezzata del pater familias rimanda a un mondo patriarcale dal quale il nostro tempo cerca in ogni modo di prendere le distanze, ma che ossessivamente ci viene riproposto come modello da prendere ad esempio. Si tratta di una figura rispetto alla quale tendiamo a reagire positivamente in maniera irriflessa, ma che nasconde mille insidie di cui sarebbe opportuno essere consapevoli.

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Sulla relatività della bellezza

La nostra epoca, abbacinata dalla retorica della bellezza salvifica (“la bellezza ci salverà”, ripetono come un mantra politici, insegnanti, amministratori locali e scrittori di ogni genere) e ossessionata dall’ideale/imperativo della bellezza fisica che trascende ogni confine di età (e che arricchisce pubblicitari e ditte di prodotti di bellezza),  tende spesso a dimenticare che il concetto stesso di bellezza è mutato nel corso del tempo a tal punto che faremmo fatica, oggi, a definire belli/belle individui, maschi e femmine, un tempo apprezzati proprio per il loro aspetto fisico.

Ce lo ricorda la storica Olwen Hufton in un brano del suo interessantissimo Destini femminili. Storia delle donne in Europa 1500-1800 (Mondadori, Milano, 1996, p. 109):

A quell’epoca [nel XVII secolo] chiunque non fosse butterato dal vaiolo, non soffrisse di carenze vitaminiche, non avesse difetti congeniti o malformazioni professionali era attraente. Nella Franca Contea una ragazza che a venticinque anni non avesse le vene varicose era una rarità. La bellezza, si sa, è relativa.

Vene varicose a 25 anni? Oggi, probabilmente inorridiremmo all’idea. Anzi, una situazione del genere sarebbe descritta come patologica e rimessa al medico/chirurgo di turno, il quale sarebbe invitato alacremente a fare qualcosa per la “poverina” di turno, pena la sua emarginazione sociale.

Insomma, la bellezza è non solo relativa, ma, in base al tipo di società, può essere un fatto meramente estetico o anche medico. Lo dimostra il volto butterato della foto che appartiene al celebre rivoluzionario francese Robespierre. Ai suoi tempi era considerato “normale”. Oggi, un leader politico con quel volto avrebbe difficoltà perfino a proporsi come soggetto credibile.  Potenza della relatività dei modi di vedere il mondo!.

A proposito, a quando una sociologia della bellezza?

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Animali dotati di poteri misteriosi?

In quest’epoca di forte antropomorfizzazione quotidiana degli animali, non è difficile udire commenti secondo cui essi “si vergognano”, “fanno dispetti”, “tengono il broncio”, “sono gelosi o invidiosi”, “si sentono colpevoli”, “mostrano empatia”, sono in grado di “capire le parole” e di interagire quasi fossero umani al punto che, si sente spesso dire, “manca loro solo la parola”.

Non sono in grado di dire se questo processo di antropomorfizzazione sia oggi più accentuato rispetto al passato. Sembrerebbe di sì a giudicare dal fatto che viviamo nell’epoca dell’animalismo e dell’antispecismo, un’epoca che ha riconosciuto agli animali diritti prima nemmeno concepibili e riconosce loro uno status non dissimile da quello degli umani. Anzi, talvolta superiore agli umani.

Lo dimostrano alcuni racconti che hanno come protagonisti cani e gatti e che tendono ad attribuire ai pets preferiti dagli umani capacità paranormali, spesso spiegate in riferimento a “sensi speciali” che gli animali possiederebbero naturalmente.

Ad esempio, nel 2007, grande scalpore suscitò un articolo pubblicato dal New England Journal of Medicine, secondo cui un gatto di nome Oscar era in grado di prevedere la morte imminente degli ospiti della Steere House Nursing and Rehabilitation Center di Providence, una casa di riposo del Rhode Island. Tali previsioni si manifestavano concretamente nel fatto che il gatto “faceva visita” ai malcapitati pazienti, raggomitolandosi nei loro pressi fino alla morte. La storia divenne così popolare che l’autore dell’articolo, David Dosa, pubblicò un libro che ottenne un discrete successo, Making Rounds with Oscar: The Extraordinary Gift of an Ordinary Cat.

Oscar possedeva davvero doti paranormali? Sembra di no a giudicare dal fatto che il “famoso” articolo del New England Journal of Medicine non era un vero e proprio testo scientifico, ma una sorta di aneddoto divertente inserito nella sezione di apertura della rivista. Né lo stesso Dosa affermò mai che le sue conclusioni erano basate su uno studio scientifico del comportamento del felino.

Dosa, infatti, non raccolse mai dati precisi sulla condotta di Oscar. Ad esempio, non rilevò mai il numero di “visite” che Oscar faceva agli ospiti della casa di riposo, la durata di tali visite, l’intervallo di tempo intercorrente tra le visite e i decessi, le caratteristiche delle “visite predittive” rispetto a quelle non predittive ecc. Dosa si limitò a dire che circa una cinquantina di decessi erano stati preceduti dall’intervento di Oscar, un dato davvero poco scientifico, soprattutto se si considera che, in una casa di riposo popolata da pazienti terminali o molto anziani, non è insolito che un comportamento, felino o di altro tipo, possa correlarsi con un decesso. Lo stesso Dosa, fra l’altro, ammette di essersi concesso delle licenze narrative nell’esporre i fatti della storia di Oscar.

È molto probabile che, nella vicenda, un ruolo di primo piano sia stato assunto dal cosiddetto bias di conferma, dalla tendenza, cioè, degli operatori della casa di riposo a rilevare  i casi in cui le “visite” di Oscar coincidevano con la morte degli ospiti della struttura e a trascurare le volte in cui ciò non accadeva. Probabilmente, si sarebbe potuto ottenere risultati simili ponendo in relazione i decessi dei pazienti con altri comportamenti. È molto probabile, dunque, che le abilità di Oscar dipendessero più dalle osservazioni poco scientifiche del personale della struttura che da abilità paranormali.

Un altro animale che, nel 1994, fece parlare di sè fu un cane di nome Jaytee. Secondo il biochimico inglese Rupert Sheldrake, questo cane era in grado di prevedere il ritorno del suo proprietario con un certo anticipo, come dimostrato dal fatto che, poco prima del ritorno di questi, Jaytee si faceva trovare nei pressi della veranda in “chiaro” segno di attesa. In realtà, anche in questo caso, i poteri paranormali del cane furono più l’effetto delle cattive osservazioni del biochimico che di altro, come dimostrò lo psicologo Richard Wiseman dopo aver condotto un esperimento sull’animale con tutti i crismi della scientificità dal quale emerse che le visite di Jaytee alla veranda erano frequenti e puramente casuali.

La tendenza ad attribuire agli animali capacità e competenze superiori a quelle effettivamente possedute da questi è molto diffusa, pur senza giungere necessariamente agli estremi delle vicende di Oscar e di Jaytee. Essa è frutto della propensione degli esseri umani a “vedere antropomorfo” in ciò che li circonda ed è probabilmente aumentata nell’ultimo secolo.

Di fronte al pericolo di compiere attribuzioni errate, è consigliabile il ricorso al “canone di Morgan”. Ne ho parlato in un post precedente, e anche nell’ultimo capitolo del mio ultimo libro Aloni, stregoni e superstizioni, che vi invito ovviamente a leggere.

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Un aneddoto non fa conoscenza

È un dato su cui non si riflette a sufficienza il fatto che le nostre idee su istituzioni come la medicina, la scienza, la pubblica amministrazione e così via non dipendono da una corretta e informata valutazione delle stesse, ma dalle esperienze personali – nostre o di amici, parenti, conoscenti ecc. – che ci capita di fare di tali istituzioni.

Così, confondiamo spesso il cattivo funzionamento della sanità (che è un problema politico ed economico) con le esperienze negative fatte con il nostro medico o pediatra di base o con la vicissitudine sfortunata subita in ospedale.

Altre volte, sono le carenze comunicative del personale medico (che riguardano la formazione, psicologica e attitudinale, dei dottori, degli infermieri e del personale ausiliario) a indurci a un giudizio negativo nei confronti della medicina o del metodo in base al quale è possibile determinare l’efficacia di una terapia.

L’insuccesso di uno scienziato diventa spesso il fallimento della scienza o mina la credibilità degli scienziati. Allo stesso modo, una brutta esperienza con un dipendente pubblico autorizza, ai nostri occhi, ogni possibile contumelia nei confronti della pubblica amministrazione, che accusiamo di inefficienza e incapacità.

Come dicono gli americani, “dati” non è il plurale di “aneddoto”: una o più esperienze negative con una istituzione non legittimano un giudizio assolutamente negativo nei confronti della stessa. È la nota, ma insidiosissima, fallacia della generalizzazione, probabilmente il più grande “peccato cognitivo” che la nostra mente possa compiere.

Anche se è difficile, dovremmo sempre cercare di mantenere distinte fra loro esperienze personali e giudizi sulle istituzioni nel loro complesso. Oppure, se abbiamo il tempo, condurre ricerche approfondite ed esaminare i dati disponibili in argomento per riuscire a formulare un giudizio che si basi su una conoscenza informata e non aneddotica.

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Georg Simmel e l’effetto alone

Nel mio libro Aloni, stregoni e superstizioni, dedico un intero capitolo (il primo) alla comprensione del cosiddetto “effetto alone”, di cui ho già varie volte discusso su questo blog. Si tratta di un meccanismo particolarmente fecondo di illusioni e distorsioni della realtà in cui è facile cadere, anche nella nostra epoca che pure si autodefinisce razionale.

Nel libro traduco anche il breve articolo di Edward L. Thorndike che “battezza” l’effetto alone introducendolo tra i concetti più noti della psicologia. Dopo l’uscita del libro, mi sono imbattuto in un brano del sociologo Georg Simmel, tratto dal suo celebre Filosofia del denaro (una di quelle opere che molti citano, ma pochi leggono) che curiosamente descrive lo stesso fenomeno, pur definendolo in altro modo: “espansione psicologica delle qualità”.

Si tratta, da parte mia, di una scoperta degna di Serendippo che, per questo motivo, mi sembra stimolante condividere con chi sia interessato al tema.

Ecco il brano di Simmel:

Il fatto che questo trasferimento del valore, sulla base di connessioni puramente esterne, abbia luogo, si inquadra in una forma molto generale dei nostri  movimenti spirituali, che si potrebbe chiamare espansione psicologica delle qualità. Se, cioè, una serie oggettiva di cose, forze, avvenimenti, contiene un elemento che suscita in noi determinate reazioni soggettive: piacere o dispiacere, amore oppure odio, sensazioni di valore positive o negative – questo valore non ci sembra soltanto fissato al suo veicolo immediato, ma lasciamo che anche gli altri elementi della serie, che in se stessi non sono altrettanto dotati di valore, partecipino di esso. Questo caso non si presenta soltanto nelle serie teleologiche, il cui elemento finale irradia il proprio significato su tutte le cause della sua realizzazione, ma anche in altri ordinamenti degli elementi. Tutti i membri di una famiglia partecipano dell’onore o della degradazione di uno di essi; la produzione secondaria di un grande poeta gode di un apprezzamento che non le spetterebbe se le altre opere non fossero importanti; il favore o l’odio del singolo, che nascono da una posizione politica di parte, si estendono anche a quei punti del programma del partito rispetto ai quali, in sé e per sé, egli sarebbe indifferente o verso i quali nutrirebbe sentimenti opposti; l’amore per un uomo, nato dal sentimento di simpatia per una delle sue particolarità, abbraccia infine tutta la sua personalità, e, in questo modo, molte altre sue particolarità e manifestazioni con un’identica passione, alla quale esse non giungerebbero senza tale collegamento. In breve, dove una pluralità di uomini e cose si presenta mediante qualche collegamento sempre e soltanto come unità, la sensazione di valore, suscitata da un singolo elemento, attraverso la radice che mantiene unito il sistema, si diffonde, in un certo senso, anche sugli altri elementi che sono estranei a quella sensazione. Proprio perché le sensazioni di valore non hanno niente a che fare con la struttura delle cose stesse, ma hanno il loro ambito invalicabile al di là di questa, non si mantengono strettamente nei loro limiti logici, ma si sviluppano con una certa libertà al di là dei rapporti oggettivamente giustificati con le cose. Anche se il fatto che i vertici relativi della vita dell’anima trasmettono il loro carattere in momenti vicini, che in se stessi non arrivano a quelle qualità, ha qualcosa di irrazionale, rivela tuttavia tutta la ricchezza dell’anima, la sua capacità di renderci felici, il suo bisogno intimo di sviluppare le significatività e i valori sentiti anche nella pienezza della loro risonanza interna nelle cose, senza che ci si debba chiedere angosciosamente in base a quale diritto ciascuno di quei momenti possa esigere la propria parte di risonanza» (Simmel, G., 2019, Filosofia del denaro, Ledizioni, Milano, pp. 199-200).

A proposito del fatto che «la sensazione di valore, suscitata da un singolo elemento, attraverso la radice che mantiene unito il sistema, si diffonde, in un certo senso, anche sugli altri elementi che sono estranei», come non ricordare oggi che l’amore/odio nei confronti di un virologo tende a diffondersi, in alcune persone, a tutti i virologi? O che la sfiducia che alcuni ripongono nel loro medico di base tende ad estendersi a tutti i medici e alla medicina in generale con grave danno di credibilità per la medicina come disciplina?

Si tratta di temi concreti e attuali che affronto in dettaglio in Aloni, stregoni e superstizioni e che testimoniano della importanza dell’effetto alone o, come preferisce Simmel, dell’espansione psicologica delle qualità.

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Fusaro e la fallacia dei numeri assoluti

Questa immagine, ricavata dal profilo Twitter del filosofo Diego Fusaro del 26 dicembre 2021, è stata oggetto di ripetuti sarcasmi da parte di tantissimi commentatori.

Il foglietto riprodotto, scritto a penna, vorrebbe dimostrare – tesi, questa, cara a Fusaro – l’inutilità delle misure di contenimento e della campagna vaccinale di contrasto e prevenzione del contagio da Covid, ponendo a confronto i valori assoluti relativi al numero dei positivi al 21/12/2020 (10.872) con quelli al 21/12/2021 (30.798, quindi superiori rispetto all’anno precedente). Ergo, le misure adottate non funzionerebbero.

In realtà, rielaborando in termini percentuali gli stessi numeri, le conclusioni finali sono di segno opposto: nel 2020, il 12,37% dei tamponati era positivo al virus; nel 2021 solo il 3,6%. Circa 3 volte e mezzo di meno. Ergo, le misure adottate funzionano.

Per questo “foglietto”, Fusaro, come detto, è stato ridicolizzato in varie salse.

L’errore in cui è caduto il filosofo è, però, un errore in cui cade, in genere, la comunicazione istituzionale sul virus.

Nei bollettini diramati quotidianamente sull’andamento del Covid, a prevalere sono nettamente i numeri assoluti (numero di nuovi casi, numero di deceduti, numero di casi in terapia intensiva ecc.), forniti spesso senza un contesto di riferimento, e commentati, almeno in prima battuta (quella che “rimane” comunicativamente), come tali, senza, cioè, alcun riferimento a proporzioni e percentuali. E questo nonostante i manuali di epidemiologia dichiarino esplicitamente che «la maggior parte delle misure utilizzate in epidemiologia per valutare la frequenza degli eventi o delle malattie è rappresentata da una frazione nella quale è in dispensabile identificare correttamente un numeratore ed un denominatore» (Epidemiologia facile di Lopalco e Tozzi, Il Pensiero Scientifico Editore, p. 9).

Da un punto di vista comunicativo, i numeri assoluti sono più comprensibili e più facilmente comparabili di proporzioni e percentuali e, per questo, sono i valori prediletti dai divulgatori televisivi e social.

Ma tale immediatezza comunicativa è ingannevole e produce delle vere e proprie illusioni cognitive.

Lo dimostra il foglietto di Fusaro.

Lo dimostrano anche gli innumerevoli commenti che, su quei numeri, facciamo quotidianamente.

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Lo sport non è solo gioco

La notizia è del «Corriere della Sera» del 19 dicembre 2021, ma i fatti risalgono a un paio di mesi prima. Il 27 ottobre lo studente di ingegneria indiano Showkat Ahmad Ganai viene tratto in un carcere di massima sicurezza in India con l’accusa di sedizione, reato gravissimo nel paese di Gandhi, istituito dai colonizzatori britannici per punire chi lottava per l’indipendenza del paese. L’accusa? Aver gioito pubblicamente – lui, un indiano – per la vittoria degli acerrimi rivali del Pakistan sull’India ai campionati del mondo T20 di cricket.

Sembra che Showkat Ahmad Ganai si sia limitato, insieme ad altri due studenti, pure tratti in arresto, a scambiare qualche messaggio di gioia su WhatsApp, senza manifestare apertamente il suo “tifo”. Secondo la destra induista, lo studente avrebbe invece lanciato slogan a favore del Pakistan, parteggiando per la squadra degli storici rivali.

Aggiungiamo, come fa notare sempre il «Corriere della Sera», che Agra, la città in cui Showkat Ahmad Ganai studiava, si trova nello stato dell’Uttar Pradesh, governato dall’ultranazionalista Yogi Adityanath, più volte accusato di usare le leggi anti-sedizione per reprimere ogni forma di dissenso nei confronti del governo.

L’episodio dimostra che, contrariamente al luogo comune secondo cui lo sport è solo gioco, calcio, cricket, pallacanestro ecc. possono divenire, in determinate circostanze, veicolo di significati politici, economici, culturali, morali ecc. in modi che non possono essere trascurati.

Nelle retoriche comuni, lo sport sembra essere un mondo arcadico e idealizzato, una monade estranea a tutto ciò che la circonda, un mondo immerso in una reductio ad ludum. Così, quando lo sport si tinge di economia, violenza, politica, razzismo, si dice che “è malato”, come se solo rimanendo gioco potesse essere e rimanere sano.

In realtà, da sempre lo sport è associato a significati non ludici, tanto che possiamo tranquillamente affermare che solo nella società contemporanea, strutturata su una profonda divisione del lavoro, allo sport è riservata una dimensione solo, almeno idealmente, giocosa.

Fatti come quello di Showkat Ahmad Ganai dimostrano, invece, che, ancora oggi, lo sport tende a travalicare i confini ricreativi che di solito gli riserviamo, impattando direttamente su molteplici dimensioni della vita quotidiana.

Per una discussione più approfondita di questo luogo comune in riferimento al calcio, rimando al primo capitolo del mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso, pubblicato da Meltemi.

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Classifiche “vere” senza gli errori arbitrali?

Gli psicologi definiscono hindsight bias o “fallacia del senno di poi” l’illusione secondo cui, dopo l’accadimento di un evento, il suo verificarsi sembra essere più probabile di prima, se non addirittura inevitabile. Questo abbaglio mentale si spiega con il fatto che la memoria umana non si limita a immagazzinare le informazioni ricevute in una sorta di deposito dal quale sono recuperate secondo le necessità, ma ricostruisce dinamicamente gli eventi che si verificano in modo tale da adattare continuamente i ricordi alle nuove informazioni ottenute. Ne segue che gli stessi ricordi possono cambiare di significato e gli oggetti a cui questi si riferiscono apparire più certi di quanto non fossero in partenza.  

Tale illusione trova tipicamente espressione in frasi comuni come “Lo sapevo che sarebbe finita così” ed è particolarmente diffusa presso gli amanti del calcio che, retrospettivamente, dimostrano di conoscere in largo anticipo gli esiti degli incontri ai quali assistono.

La medesima fallacia sembra affliggere gli esperti delle cosiddette “classifiche senza errori arbitrali”, esercizio a metà strada tra il ludico e il simulato in cui si prova a immaginare come potrebbe essere la classifica del campionato di calcio al netto degli errori arbitrali a favore o sfavore delle squadre coinvolte.

Il primo assunto errato di questi esercizi – che sono presi molto sul serio dai tifosi, tanto da animare accese discussioni tra gli stessi – riguarda i criteri di selezione degli “errori arbitrali” che variano da esperto a esperto e si basano spesso su valutazioni estremamente soggettive e di parte. Così, un esperto giudicherà errore quello che per un altro non è da considerarsi tale, favorendo una interpretazione a scapito di un’altra.

Il secondo assunto errato è che, rimuovendo l’errore a favore o sfavore, gli incontri avrebbero avuto il medesimo decorso di quelli effettivamente disputati “meno” le conseguenze causate dall’errore. Ad esempio, se, nel corso di una partita, l’arbitro concede “ingiustamente” un goal viziato da un fallo non rilevato, si sottrae il gol allo score complessivo e si postula che, per il resto, l’incontro sarebbe stato giocato esattamente come quello effettivamente svoltosi. Non si tiene conto del fatto che, di fronte a un diverso risultato, una squadra possa avere un atteggiamento diverso nei confronti della partita o che semplicemente avrebbero potuto verificarsi altri episodi decisivi in grado di modificare il risultato. Si “congela” dunque l’andamento dell’incontro, limitandosi a sottrarre l’episodio incriminato.

In questo caso, la fallacia del senno di poi agisce nel senso che l’esperto “sa già” che il risultato finale dell’incontro “emendato” dagli errori arbitrali sarà il medesimo di quello effettivamente disputato “senza” le conseguenze dell’errore. Come sappiamo dalla vita, però, il verificarsi o il non verificarsi di un evento può cambiare radicalmente il corso successivo dell’esistenza in modi non prevedibili a priori.

Ogni evento che si verifica o non verifica comporta determinate conseguenze. Le classifiche senza errori arbitrali rappresentano, dunque, un passatempo che può avere una sua funzione ludica, ma che non dovrebbe essere preso troppo sul serio, come fanno in tanti rivendicando presunti trofei alla luce di “vere” classifiche.

Sulla fallacia del senno di poi nel calcio, rimando a questo post, pubblicato a inizio anno.

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Siamo tutti criminali, ma ci piace dimenticarlo!

Sappiamo che non tutti coloro che commettono un reato sono sanzionati o finiscono in carcere. Alcuni – molti – delinquono senza essere mai “beccati”. Ma quali sono le conseguenze di ciò in termini di identità e di giudizio nei confronti degli altri?

In un recente, interessante articolo, la criminologa Denise Woodall evidenzia che chi la fa franca tende spesso a “dimenticare” di aver commesso un reato, coglie più lentamente le differenze tra sé e coloro che hanno ricevuto una sanzione e ritiene di essere diverso da questi ultimi, anche in termini di identità.

Se studi precedenti hanno dimostrato che le persone tendono a invocare risposte punitive più severe nei confronti degli autori di reato il cui comportamento deviante viene attribuito a fattori individuali piuttosto che sociali, altri studi dimostrano che chi commette un reato senza essere mai arrestato, senza essere, cioè, mai “marchiato” dal sistema penale, tende a non pensarci più di tanto, anzi dimentica facilmente la propria condotta criminale e questa non viene integrata come parte saliente della propria identità.

Le conclusioni di Woodall scaturiscono, come accade spesso in sociologia e psicologia, da una serie di questionari somministrati a 209 studenti (per lo più studentesse bianche, tra cui molte cristiane e repubblicane) della University of North Georgia, invitati a esprimere la loro opinione su alcuni reati (per lo più non gravi) e a “confessare” eventuali condotte criminali a partire dai 14 anni.

Una volta appreso che tali condotte avrebbero potuto avere come conseguenza un certo numero di anni di prigione, un numero rilevante di soggetti della Woodall ha ammesso di “sentirsi più simile ai criminali” e ha dichiarato di essere meno favorevole a pene severe.

Sebbene sia dubbia la validità esterna di tali ricerche, Woodall evidenzia che semplicemente riflettere sul fatto che ognuno di noi, come rivelano tantissime indagini criminologiche, ha commesso un certo numero di reati, non necessariamente gravi, nella propria vita induce un atteggiamento diverso nei confronti del crimine e una maggiore empatia nei confronti dei criminali. In alcuni casi, tale diversa consapevolezza conduce alla ricerca di modi alternativi di “punire” il criminale o, almeno, a mettere in discussione il modello esclusivamente retributivo di reazione alla criminalità.

Le conclusioni della Woodall ci ricordano che siamo naturalmente portati a ritenerci persone migliori di quanto non siamo, anche se la nostra “biografia criminale” non è esattamente immacolata, quando abbiamo la fortuna di non venire scoperti. Tali distinzioni sono, però, fondamentalmente illusorie e rispondono più a un bisogno psicologico di percepirci come “buoni” che a una nostra reale differenza rispetto ai “cattivi”. Il manicheismo può essere infondato da un punto di vista religioso, ma è una tentazione psicologica  fortissima a cui cediamo per vivere in pace con noi stessi.

Fonte: Denise Woodall, 2018, “We Are All Criminals. The Abolitionist Potential of Remembering”, Social Justice, vol. 45, n. 4, Penal Abolition: Challenging Boundaries, pp. 117-140

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Il paradosso della prevenzione di Geoffrey Rose

Un aspetto che emerge prepotentemente dalle argomentazioni di quanti sono contrari ai vaccini è la verità di quello che Geoffrey Rose, autore nel 1983 di “Sick individuals and sick population” (International Journal of Epidemiology), definisce il “paradosso della prevenzione” (Prevention Paradox).

Ciò porta al paradosso della prevenzione: “Una misura di prevenzione che reca grandi benefici alla popolazione offre poco a ogni singolo individuo che vi aderisce”. È la storia della sanità pubblica: dall’immunizzazione alle cinture di sicurezza al tentativo di cambiare varie caratteristiche degli stili di vita. Di enorme importanza potenziale per la popolazione nel suo complesso, queste misure offrono molto poco— soprattutto nel breve periodo —a ogni individuo; di conseguenza il soggetto è scarsamente motivato. Non dovremmo sorprenderci del fatto che l’educazione alla salute tenda a essere relativamente inefficace per gli individui nel breve periodo. Nella maggior parte dei casi, le persone agiscono per ottenere ricompense sostanziose nell’immediato, e la motivazione medica all’educazione alla salute è intrinsecamente debole. È improbabile che il prossimo anno la salute delle persone sia molto migliore, se accetteranno o rifiuteranno i nostri consigli. Motivatori molto più potenti ai fini dell’educazione alla salute sono le ricompense sociali derivanti da una superiore autostima e dall’approvazione sociale (Geoffrey Rose, 2001, “Sick individuals and sick populations”, International Journal of Epidemiology, vol. 30, n. 3, pp. 427–432).

In altre parole, dove alcune misure hanno permesso di ridurre o eliminare i rischi derivanti da alcune malattie, si tende a mettere in dubbio l’utilità delle misure adottate. Se le misure di prevenzione hanno successo, la gente non vede più il pericolo e non riconosce i meriti di chi le ha adottate. Sono colte, dunque, da uno strano oblio che le porta a dimenticare che il pericolo non esiste più proprio perché è stata adottata quella misura per eliminarlo.

Esempi classici sono l’uso delle cinture di sicurezza, la riduzione del consumo di sale, la moderazione nell’assunzione di alcolici e così via. In tutti questi casi, il singolo tende a trascurare o dimenticare le ricadute, in termini di popolazione, di determinate misure di salute pubblica, focalizzando la propria attenzione sul corto respiro della propria situazione personale.

A ciò contribuisce anche il cosiddetto “effetto famigliarità” in base al quale, quando le persone convivono da tempo con una determinata patologia o fenomenologia avversa, tendono a sottovalutarne la minaccia, come accade con gli incidenti automobilistici e con l’influenza stagionale, che in Italia provoca ogni anno circa 6.000 morti per cause dirette o indirette.

Secondo Rose, invece, coloro che devono prendere decisioni in materia di salute pubblica dovrebbero adottare un approccio basato non sui singoli individui, ma sulla “popolazione”; approccio che spesso non viene inteso dal singolo che adotta, come detto, un punto di vista estremamente diverso.

Quello che potremmo definire il “bias della prevenzione” è particolarmente presente in quanti si identificano nella galassia No-Vax, i quali invocano la “libertà individuale” a scapito della salute collettiva a difesa delle proprie argomentazioni.

Si tratta di uno dei tanti bias che affliggono la mente di coloro che rifiutano di essere “inoculati”: uno dei meno noti, ma non per questo meno pericolosi.

 

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