La mente umana è afflitta da un potentissimo pregiudizio che gli psicologi definiscono “pregiudizio di proporzionalità”. In base a esso, tendiamo a pensare che la grandezza di un effetto sia pari alla grandezza della sua causa. Quando il risultato di un evento è significativo, importante o in qualche modo profondo, siamo inclini a pensare che debba essere stato causato da qualcosa di altrettanto significativo. Detto in parole semplici, ci aspettiamo che a grandi effetti corrispondano grandi cause.
Alla luce di tale pregiudizio, potrebbero apparire sorprendenti i risultati di due ricerche che hanno dimostrato come le sentenze formulate dai giudici nel corso delle loro attività siano spesso condizionate da fattori quali la vittoria o la sconfitta della squadra del cuore, l’umore del momento, il bello o cattivo tempo o se si è appena fatta colazione.
Il primo studio (1) condotto negli Stati Uniti su migliaia di sentenze di tribunali minorili tra il 1996 e il 2012 ha riscontrato che quando la squadra di football locale perde una partita nel fine settimana, i giudici prendono decisioni più dure il lunedì (e, in misura minore, per il resto della settimana). Gli imputati neri risultano i più penalizzati da questo incremento di severità. Più precisamente questo effetto si ha se la squadra locale perde un incontro inaspettatamente, non se la sconfitta è prevedibile. Ciò è ancora più vero se il giudice ha ottenuto la sua laurea presso l’università la cui squadra di football ha perso la domenica precedente.
Il secondo studio (2) ha analizzato un milione e mezzo di decisioni giudiziarie emesse nell’arco di tre decenni, arrivando alla conclusione analoga che i giudici sono più severi nei giorni successivi a una sconfitta della squadra cittadina che nei giorni successivi a una vittoria. Lo stesso effetto è determinato se la decisione dei giudici ha luogo in un giorno di cattivo tempo.
Per quanto incredibili, questi due studi confermano una realtà nota da tempo agli psicologi. Cause apparentemente trascurabili o minime possono avere conseguenze terribili (ma anche estremamente positive) sulla vita delle persone.
Ciò dimostra che la vita non funziona in maniera simmetrica o equa. È opportuno tenerne conto se non vogliamo rimanere delusi di fronte al manifestarsi di tali effetti.
La vita, semplicemente, non obbedisce alle leggi della simmetria e dell’equità.
Fonti:
(1) O. Eren, N. Mocan, Emotional Judges and Unlucky Juveniles, in “American Economic Journal: Applied Economics”, 10 (2018), n. 3, pp. 171-205.
(2) D.L. Chen, M. Loecher, Mood and the Malleability of Moral Reasoning: The Impact of Irrelevant Factors on Judicial Decisions, in “SSRN Electronic Journal”, 21 settembre 2019, pp. 1-70.
Kahneman, Daniel; Sibony, Olivier; Sunstein, Cass R.. Rumore (Italian Edition) (p.21). UTET. Edizione del Kindle.
Già torna la Vergine, e torna il regno di Saturno,
già la novella prole discende dall’alto del cielo.
Tu, casta Lucina, proteggi il bambino nascituro
con cui cesserà la generazione del ferro e in tutto il mondo
sorgerà quella dell’oro: già regna il tuo Apollo.
Sotto di te console comincerà la gloria di quest’era,
o Pollione, e incominceranno a trascorrere i grandi mesi.
Con te per guida, se resta traccia dei nostri delitti,
sarà vanificata e scioglierà dal continuo timore la terra.
Egli riceverà la vita degli Dei e vedrà gli eroi
misti agli Dei, e lui stesso apparirà ad essi
e reggerà il mondo pacato dalle virtù del padre.
Per te, o fanciullo, la terra senza che nessuno la coltivi,
effonderà i primi piccoli doni, l’edera errante
qua e là con l’elicriso e la colocasta con il gaio acanto.
Le capre da sole riporteranno gli uberi colmi
di latte, e gli armenti non temeranno i grandi leoni.
La stessa culla spargerà per te soavi fiori.
Svanirà anche il serpente, svanirà l’erba insidiosa
di veleno, e dovunque nascerà l’amomo di Assiria.
Ma quando potrai leggere le lodi degli eroi
e le imprese del padre, e conoscere che cosa sia la virtù,
imbiondirà a poco a poco la campagna di ondeggianti spighe,
da selvaggi roveti penderanno rossi grappoli d’uva,
le dure querce stilleranno una rugiada di miele.
Resteranno tuttavia poche tracce dell’antica malizia,
che faranno affrontare Teti con navigli, cingere
di mura le città, incidere di solchi la terra.
Allora vi sarà un altro Tifi, e un’altra Argo
Che trasporti scelti eroi; vi saranno altre guerre
E di nuovo sarà mandato a Troia il grande Achille.
Poi, quando la salda età ti avrà fatto uomo,
il mercante da sé si ritrarrà dal mare, le navi di pino
non scambieranno le merci; ogni terra produrrà tutto.
Il suolo non patirà rastrelli, né la vigna la falce;
anche il robusto aratore scioglierà i tori dal giogo;
e la lana non saprà più fingere i vari colori,
l’ariete da sé nei prati cambierà il colore del vello
con la porpora che rosseggia soave, con il giallo che svaria nell’oro:
spontaneamente il carminio rivestirà gli agnelli al pascolo.
“Affrettate tali secoli”, hanno detto ai loro fusi
le Parche concordi nell’irremovibile volontà del Fato.
Sarà ormai tempo di raggiungere i più alti onori,
o diletta prole degli Dei, o glorioso rampollo di Giove!
Guarda il mondo che scuote la curva mole,
e la terra e le distese del mare e il cielo profondo!
Guarda come tutto s’allieta del secolo che viene!
Oh, mi resti l’ultima parte d’una lunga vita
e mi sia bastante lo spirito per celebrare le tue imprese:
non potranno vincermi nel canto né Orfeo di Tracia,
né Lino, sebbene l’uno assista la madre, e l’altro
il padre, Orfeo Calliope, Lino il bellissimo Apollo.
Persino se Pan gareggiasse con me, a giudizio di Arcadia,
persino Pan si direbbe vinto, a giudizio di Arcadia.
Comincia, o piccolo fanciullo, a riconoscere con un sorriso la madre:
alla madre nove mesi arrecarono lunghi travagli,
comincia piccolo fanciullo: a chi non sorrisero i genitori
un dio non concede la mensa, né una dea l’amoroso giaciglio (trad. di Luca Canali).
L’eisegesi consiste nel proiettare in un testo le proprie credenze, convinzioni, aspettative, ideologie fino a farne tutt’uno con queste. È un leggere “nel” testo invece che “il” testo. Come tale, si tratta di un errore fondamentale, talora consapevole, talvolta inconsapevole. Per certi versi, è inevitabile. Ognuno di noi legge a partire da un sistema di riferimento. Il problema è quando tale sistema diventa così preponderante da avere la meglio sul senso originario delle parole ed essere piegato a scopi aberranti o anacronistici.
Un esempio clamoroso quanto celeberrimo di eisegesi anacronistica è l’egloga IV di Virgilio, che, nel Medioevo, divenne una profezia cristiana e trasformò il poeta mantovano in un araldo del cristianesimo. Fare di uno scrittore vissuto tra il 70 a.C. e il 19 a.C., in una temperie radicalmente diversa da quella cristiana, un oracolo di un’età a venire richiede molta immaginazione, se non follia, e una buona dose di forzatura storica e logica, ma se ciò avvenne fu a causa di una serie di motivi.
Il primo di questi fu la fama che Virgilio aveva nel Medioevo; una fama talmente elevata che, come accade ancora oggi a tanti individui celebri, favoriva la proiezione sulla sua figura di capacità straordinarie (una sorta di potente effetto alone). Non a caso Virgilio fu rappresentato da una certa tradizione popolare come mago, sapiente onnisciente e capace di valersi dei segreti della natura a fin di bene.
In secondo luogo, nel Medioevo, in base a una visione del mondo che oggi parrebbe insensata o fantastica, gli autori pagani venivano talvolta disinvoltamente “usati” dagli scrittori ecclesiastici non solo come esempi illustri di stile e retorica, ma per confermare principi di fede, anche a costo di ricorrere a torsioni clamorose del senso e a falsificazioni. Ciò perché, all’epoca, il confine tra vero e falso, realtà e invenzione non rispondeva necessariamente ai criteri oggi adoperati e dati per scontati. Così, Virgilio, tra i pagani, parve colui a cui meglio potevano applicarsi le parole del Vangelo: «Si accorsero che Gesù passava».
Un terzo motivo ha a che vedere con il testo stesso della egloga IV. In essa compaiono una “vergine”, un “bambino nascituro” che annuncia “un’età dell’oro”, un “serpente” che svanirà, un “piccolo fanciullo” a cui sorridono i genitori, un’epoca in cui “tutto s’allieta del secolo che viene”. Si tratta di elementi che, a noi cresciuti in un sistema culturale intriso di cristianesimo, rimandano agevolmente a temi consolidati di questa tradizione che, giovandosi della vaghezza dei termini adoperati, ha gioco facile nell’avventarsi sul testo poetico, ghermirlo e iniettarvi i potenti steroidi dei suoi contenuti religiosi. E pazienza se Virgilio cita il “regno di Saturno”, il console Pollione (suo amico), le Parche, Giove, Orfeo, Calliope, Pan; se il puer a cui fa riferimento è molto probabilmente il figlio derivante dall’unione tra Ottavia e Marco Antonio o Asinio Pollione oppure Salonino, figlio di Asinio Pollione; se l’ottimismo dell’egloga nasce nel clima di serenità e di speranza prodotto dalla pace di Brindisi siglata tra Ottaviano e Marco Antonio nell’autunno del 40 a.C.
Tutti questi temi pagani e storici possono – e lo furono – essere messi in ombra o minimizzati, come fa ad esempio Agostino, il quale è convinto che «anche tra altre nazioni ci siano stati uomini ai quali è stato rivelato questo mistero e che sono stati spinti anche ad annunciarlo». A questo scopo, Agostino spaccia anacronisticamente l’oracolo cumano a cui fa riferimento Virgilio per un oracolo cristiano! E serve a poco che San Girolamo avverta che «non possiamo dire che [Virgilio] Marone fosse un cristiano senza Cristo, che scrisse: Ecco ritorna anche la Vergine, ritorna il regno di Saturno; ormai discende già dal cielo una nuova progenie […]. Queste sono cose puerili». La puerilità può nulla contro la pervicacia interpretativa. Del resto anche Dante fa di Virgilio un profeta, seppure inconsapevole, del cristianesimo e lo elegge a sua guida in riconoscimento delle sue qualità.
Armati di un potente codice interpretativo, gli eisegeti cristiani leggono l’egloga 4 come oggi leggeremmo un profilo astrologico: riempendola delle proprie presupposizioni, profittando della vaghezza e della enigmaticità con cui è espressa e in cui ognuno può rinvenire un senso di verità.
Il meccanismo non è dissimile da quello che gli psicologi chiamano “effetto Forer”. Nel XX secolo, lo psicologo Bertram R. Forer (1914–2000) scoprì che le persone tendono ad interpretare descrizioni psicologiche vaghe e generiche come descrizioni corrispondenti esattamente alla loro individualità. Allo stesso modo, gli autori cristiani del Medioevo, non diversamente dagli interpreti degli oracoli antichi, come la famosa Pizia, interpretavano le descrizioni vaghe e generiche offerte da Virgilio come esattamente corrispondenti alla veritas cristiana. Questa forma di “convalida soggettiva”, come la chiamava Forer, serviva poi, circolarmente, a legittimare e accreditare il proprio sistema di credenze. Come dire: se perfino il grande Virgilio l’ha predetto, qualcosa deve pur esserci.
Questo processo interpretativo si basa, come abbiamo visto, sul meccanismo dell’attenzione selettiva, che consiste nel prestare attenzione solo a ciò che conferma la propria lettura e a scartare, minimizzare o reinterpretare gli inevitabili riferimenti pagani, e sul cosiddetto “bias della conferma”, cioè la tendenza a notare e ricercare solo le informazioni che confermano le proprie credenze e ad ignorare o sottovalutare quelle che le contraddicono.
Si tratta degli stessi meccanismi che valgono a Nostradamus una fama imperitura e ai tanti compilatori zodiacali moderni apparizioni quotidiane in televisione.
Oggi, nessun cristiano, per quanto entusiasta, crederebbe davvero che Virgilio ha profetizzato l’avvento del cristianesimo. Eppure, non è difficile imbattersi in commentatori del poeta dell’Eneide che affermano che l’interpretazione cristiana contiene qualcosa di vero. Potenza della suggestione del più grande sistema di credenze sviluppato in Occidente?
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. 40 Ma l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. E aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso” (Luca 23,39-43. Bibbia CEI).
I vangeli non dicono molto sull’identità degli uomini crocifissi insieme a Gesù e l’immaginario cattolico li etichetta sbrigativamente come “ladroni” o “malfattori”. Eppure, è probabile che, dietro questa identità dimessa, si nasconda altro, celato da una clamorosa scelta traduttiva.
Come ricorda lo studioso Fernando Bermejo-Rubio, il termine greco con cui sono definiti i due da Marco e Matteo è lēstaì: «Il sostantivo lēstés significa “bandito” o “brigante”, ma può anche designare il “mercenario”; si riferisce, infatti, a differenza del “ladro” (kléptēs), a colui che si appropria dei beni altrui con la violenza. Ebbene, la connotazione negativa del termine ha fatto sì che fosse usato in senso peggiorativo per designare avversari politici e insorti». È poco probabile, dunque, che gli uomini crocifissi con Gesù fossero criminali comuni. E questo per varie ragioni. Innanzitutto, «la crocifissione nell’ambito delle province dell’Impero romano era una pena riservata a delitti di sedizione e laesamaiestas, e durante il periodo di controllo romano almeno fino alla Guerra Giudaica […] le testimonianze disponibili indicano che in Giudea la crocifissione era riservata a ribelli politici e ai loro seguaci». In secondo luogo, «secondo il diritto romano, i sudditi ribelli non erano “nemici” (hostes), ma comuni banditi (latrones, il termine latino corrispondente a lēstaì)» e, quindi, lēstaì è spesso un termine derogatorio per riferirsi ai rivoluzionari antiromani (come confermato anche dal grande storico Flavio Giuseppe). Termini come “banditi” o “briganti” per designare gli insorti servivano a marginalizzare e a privare di qualsivoglia ideale di dignità spirituale e morale queste persone.
In terzo luogo, «l’urgenza di reinterpretare la crocifissione di Gesù non come una sconfitta – un episodio fallito della resistenza antiromana -, insieme al desiderio di presentare le comunità nazoree come scollegate da ogni opposizione all’Impero e contribuire così alla loro sopravvivenza dopo la distruzione di Gerusalemme nel 70 e.v.» obbediva alla volontà apologetica di «scacciare qualsiasi tentazione di collegare Gesù a elementi ostili all’Impero. Presentare gli uomini crocifissi come “banditi” o, come si fa di solito nelle traduzione moderne, come “ladri”, neutralizza tale tentazione».
Infine, «le notizie che nei vangeli rivelano un ambiente conflittuale suggeriscono che i lēstaì crocifissi insieme a Gesù appartenessero ai ribelli antiromani. […]. L’esistenza di un clima rivoltoso nell’epoca e nel luogo in cui avviene la crocifissione del Golgota rende ancora più probabile che l’interpretazione politica del termine lēstaì sia quella corretta».
In conclusione, gli uomini crocifissi con Gesù non erano ladri o banditi, ma individui coinvolti in qualche tipo di resistenza alla dominazione romana su Israele. La distorsione operata dalla scelta delle parole adoperate per definire la loro identità «esprime un giudizio sugli uomini crocifissi che rispecchia i valori dell’Impero romano. Mentre per un nazionalista giudeo quegli uomini saranno stati eroi della resistenza e uno storico imparziale avrebbe scelto il termine “insorti” o un altro assiologicamente neutro, agli occhi di Roma non erano che “banditi” o “briganti”, e cioè volgari criminali senza gloria né onore. È questa valutazione distorta e ostile che accolsero gli evangelisti, senza dar segno di voler prendere le distanze».
È a causa di questa scelta che ancora oggi, nelle nostre lingue, dipendiamo da una traduzione scorretta dei termini adoperati per indicare i due uomini crocifissi insieme a Gesù. Ci piace pensare a questi come a un pacifico predicatore religioso, che annunciò duemila anni fa la “buona novella”. Molto più probabilmente, si trattava di un combattente per la liberazione di Israele, impegnato in un progetto politico, la cui immagine è stata edulcorata nei secoli fino a diventare quella “inventata” in cui tanti oggi ripongono la loro fede.
Fonte:
Bermejo-Rubio, F., 2021, L’invenzione di Gesù di Nazareth. Storia e finzione, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 113-115.
Una delle argomentazioni più insistenti che mi capita di ascoltare da chi sostiene che il coronavirus sia poco più che un raffreddore è la seguente: “Mi sono ammalato di Covid, non ho avuto alcun sintomo/ho avuto pochi sintomi, sono guarito in pochi giorni, quindi il virus non è letale come dicono/non esiste/è una montatura”. L’argomentazione può essere riferita anche a coniugi, figli, fratelli, genitori, conoscenti, amici ecc. e assumere la seguente forma: “Mio cugino/un mio amico si è ammalato di covid…”. Un esempio clamoroso di tale orientamento è rappresentato da una dichiarazione di Andrea Bocelli nel corso di un intervento al Senato, nel luglio 2020, in cui l’artista pronunciò le seguenti parole: “Conosco tanta gente, ma non conosco nessuno che sia andato in terapia intensiva, quindi perché tanta gravità?”.
La fallacia di questa argomentazione è – o dovrebbe essere – evidente: il fatto che un virus/una patologia colpisca me (o mia moglie, il mio amico ecc.) in forma lieve o asintomatica non significa che altre persone non possano esserne colpite in maniera grave o mortale. Molte persone si ammalano di cancro e guariscono: ciò non impedisce che tante altre muoiano. Molte persone contraggono polmoniti e hanno infarti senza morirne. Ciò non toglie che in tanti muoiano per le stesse ragioni.
In altre parole, il fatto che la mia esperienza di una certa patologia sia di un certo tipo, non significa che tutti ne avranno esperienza allo stesso modo. Agisce, in questo caso, una sorta di miopia biografica o biocentrismo per cui la mia vita diviene il metro di misura di tutte le altre vite e assurge a norma universale di confronto.
Come rivelano gli studi di psicologia evolutiva, l’egocentrismo è una caratteristica cognitiva delle prime fasi di sviluppo dell’essere umano, ma non scompare mai del tutto, nemmeno in età matura. La tendenza a eleggere la propria esperienza a bussola di vita è fortissima e spesso inconsapevole. È per questo che la scienza si basa su campioni rappresentativi e significativi della popolazione per giungere alle proprie conclusioni. È per questo che un aneddoto (o più aneddoti), per quanto vivido e curioso, non può costituire base di conoscenza.
Eppure, nella vita di tutti i giorni, ci comportiamo come se ciò che accade a noi fosse sempre epistemicamente importante e tendiamo a opporre resistenza a chi ci fa notare che le cose non stanno in questi termini. È una tentazione “umana, troppo umana” contro cui la scienza fa i conti da secoli, ma a cui ci piace cedere leopardianamente: “E il naufragar ci è dolce in questa illusione”.
Agli esordi del coronavirus, nel 2020, e anche in seguito, un po’ come un fiume carsico, la domanda se si muoia “con il virus o per il virus” è emersa ad alimentare polemiche sulla “conta dei morti di Covid” con i virologi ad affermare, più o meno compatti, che si muore sempre per il virus e che i calcoli ufficiali sui decessi sono corretti, e giornalisti ed altri a polemizzare che a morire del virus sono soprattutto persone afflitte da altre patologie.
In due miei post precedenti (qui e qui), mi sono soffermato sulle implicazioni logiche e psicologiche della discussione in particolare in riferimento alla cosiddetta fallacia della causa unica, la tendenza a ritenere che un evento debba essere necessariamente causato da un’unica causa, quando invece agiscono varie concause.
Mi ha colpito, di recente, il fatto che la discussione abbia, in un certo senso, cambiato di segno. Come riferisce un articolo del «Corriere della Sera» del 5 febbraio scorso (p. 20), a fronte dell’alto tasso di letalità dell’Italia rispetto agli altri paesi europei, molti medici, scienziati, virologi, epidemiologi si dichiarano convinti che, soprattutto negli ultimi tempi, il calcolo delle vittime del Covid in Italia sia errato in quanto comprende un alto numero di persone “anziane, positive, ma morte per altre patologie, magari non curate per la saturazione del sistema ospedaliero. Se così fosse il quadro generale dell’evoluzione della pandemia risulterebbe falsato”.
Così, secondo Maria Rita Gismondo del Sacco di Milano, “potrebbe esserci anche un’errata codificazione dei decessi Covid come in molti stanno ormai evidenziando”. Della stessa opinione sono anche Francesco Vaia dello Spallanzani e Matteo Bassetti, i quali richiamano la necessità di una analisi approfondita sul tema perché “nei dati potrebbero quindi entrare anche persone colpite da altre patologie ma non curate o curate in ritardo, a causa della pandemia”.
Ritorna così l’urgenza di ragionare in termini di concause piuttosto che di cause uniche. Cosa buona e giusta. Ma ho l’impressione che le polemiche carsiche sui decessi “per covid o con covid” siano condotte da medici, scienziati, virologi ed epidemiologi più per scopi di legittimazione di scelte di contrasto al virus che per amore della scienza.
Mi spiego. Nelle prime ondate del virus, l’interesse era di richiamare l’attenzione del pubblico sulla pericolosità del virus e la parola d’ordine era: il Covid è l’unica causa di morte. Altre eventuali patologie non contano (ciò non significa che anche all’interno della stessa comunità scientifica non vi fossero controversie, anche aspre).
Oggigiorno, invece, l’allarme calcoli-sbagliati serve a legittimare la bontà della campagna vaccinale condotta in Italia, paese dove il 90% della popolazione è vaccinata. Come dire: dal momento che la stragrande maggioranza delle persone sono vaccinate e il vaccino funziona, l’anomalia degli alti numeri dei decessi deve spiegarsi con calcoli sbagliati, altrimenti correremmo il rischio di mettere in discussione l’efficacia dei vaccini e questo non possiamo farlo.
Con questo non intendo “sposare” le tesi dei No-vax e contestare l’efficacia dei vaccini. I vaccini funzionano. Punto. Mi domando solo perché medici e scienziati mettano in discussione oggi quello che, all’inizio, era il dogma inattaccabile e indiscutibile della causa unica.
Nel frattempo, la rilevanza delle concause emerge anche dall’ultimo rapporto ISS sulle “Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia”. Qui si legge che, analizzando le cartelle cliniche di 8.436 casi di decessi per Covid (età media dei deceduti per Covid: 80 anni), emerge, fra l’altro, che “Il numero medio di patologie osservate in questa popolazione è di 3,7 […]. Complessivamente, 246 pazienti (2,9% del campione) presentavano 0 patologie, 955 (11,3%) presentavano 1 patologia, 1.512 (17,9%) presentavano 2 patologie e 5.723 (67,8%) presentavano 3 o più patologie”.
Insomma, mi sembra che l’abbandono della fallacia della causa unica sia sempre più urgente se vogliamo capire scientificamente come si muove e uccide il virus.
In una società capillarmente dominata dai media di massa come la nostra, era inevitabile che anche la crisi provocata dall’irrompere del virus nelle maglie delle nostre esistenze subisse un intenso processo di mediatizzazione; processo che ha coinvolto irresistibilmente anche quanti – virologi, epidemiologi, medici, scienziati – sono ritenuti “esperti” in materia e come tali consultati. Sono gli esperti, infatti, a illustrarci i meccanismi di diffusione del virus, le strategie per contenerlo, le terapie per curarlo, gli strumenti per diagnosticare l’infezione o l’avvenuta guarigione, i progressi nella ricerca del vaccino.
In realtà, i media includono la classe medica nei propri format da tempo. La voce del medico è consultata periodicamente al sopraggiungere della stagione calda affinché elargisca consigli su come abbronzarci senza danneggiare la pelle o su quale dieta adottare per dimagrire; nella stagione fredda per discutere di come prevenire influenze e raffreddori; in primavera per affrontare il problema ricorrente delle allergie ecc. Gli esperti occupano un posto fisso nelle varie rubriche dedicate alla medicina e sono regolarmente invitati ad aggiornare il pubblico sulle ultime conquiste delle loro discipline. Di solito, ruoli e competenze circoscrivono ambiti di intervento precisi che lettori e spettatori sanno riconoscere immediatamente e che gli stessi esperti tendono a non travalicare.
Durante la pandemia, invece, si è assistito a un fenomeno nuovo e sconcertante che ha assunto due importanti aspetti: da un lato, gli esperti hanno occupato spazi e tempi sempre più ampi, riversando i loro discorsi in palinsesti inusitati, finendo con l’imporre la loro presenza ben oltre i confini un tempo riconosciuti alla loro categoria; dall’altro, virologi, epidemiologi e medici hanno generato forme piuttosto estese di “sconfinamento epistemico”, per dirla con Nathan Ballantyne, ossia hanno espresso (e sono stati invitati a esprimere) giudizi anche in relazione a campi in cui non vantano competenze precise. Questi “giudizi” sono “ricercati” dai media perché l’opinione degli esperti è percepita, in virtù del noto effetto alone, come saliente in tempi di crisi sanitaria.
Questo processo di sconfinamento ha esposto medici e scienziati a una visibilità senza precedenti, su cui già più di 40 anni fa la sociologa Rae Goodell richiamava l’attenzione, coniando l’espressione “visible scientists” [“scienziati visibili”, ma ricordiamo che l’inglese scientist ha un’accezione più ampia di “scienziato” in quanto, come ricorda Licia Corbolante, “descrive sia chi fa parte di una comunità scientifica (scienziati, esperti, ricercatori, laboratoristi ecc.) sia chi ha fatto o sta facendo studi scientifici”].
Gli anni precedenti ai Settanta del XX secolo (e questo è ancora più vero negli ultimi venti anni), fa notare Goodel, sono stati caratterizzati da profondi cambiamenti sia della scienza in generale sia del mondo della comunicazione. Tali cambiamenti hanno indotto profonde trasformazioni sia nella comunicazione della scienza sia nella figura dello scienziato che comunica. Al pari di politici, attori e calciatori, gli scienziati acquistano oggi visibilità non tanto o non solo per le loro scoperte, per la loro attività di divulgatori o per il ruolo che occupano nella comunità scientifica, ma per le attività che svolgono nel concitato mondo della politica e delle polemiche (controversy). Utilizzando in maniera aggressiva i nuovi mezzi di comunicazione, essi tentano di influenzare le persone e le politiche su una serie di questioni collegate alla scienza come la sovrappopolazione, le droghe, l’ingegneria genetica, il potere nucleare, l’inquinamento, la genetica, le carestie, il controllo delle armi (e dei virus, potremmo aggiungere).
La comunità scientifica si trova talvolta a disagio di fronte a questa democratizzazione della comunicazione della scienza, un po’ come succede a tutti noi di fronte ad alcuni effetti dell’uso delle nuove tecnologie. Gli scienziati visibili sono percepiti da alcuni loro colleghi quasi come una contaminazione della comunità scientifica: una contaminazione irritante e potenzialmente pericolosa. Al tempo stesso, i visible scientists sono di solito ben inseriti nelle comunità di appartenenza, hanno spesso un incarico di ruolo e sono ben remunerati; fattori, questi, che tutelano le loro figure da possibili attacchi da parte dei colleghi. Inoltre, secondo gli stessi colleghi, la loro produzione scientifica tende a diminuire quantitativamente, ma non qualitativamente.
La caratteristica principale degli scienziati visibili è che essi usano i giornalisti per i loro scopi così come i secondi li utilizzano per i propri. Anzi, essi “vogliono” essere usati. Gli scienziati visibili vogliono pubblicità per le loro idee e per le questioni che essi pongono. Inoltre, tramite i mezzi di comunicazione, hanno la possibilità di esprimere concetti e opinioni che, in sede scientifica, non potrebbero esprimere se non con un eccesso di caveat. I media, dal loro canto, hanno bisogno degli scienziati per catturare il più ampio numero di spettatori possibili, anche a costo di banalizzare o sensazionalizzare i loro messaggi. Il rapporto tra scienziati e giornalisti è, quindi, di reciproco sfruttamento: i primi accettano di essere usati per potersi garantire visibilità, i secondi si fanno usare dai primi per ottenere in cambio opportunità notiziabili
Uno degli esempi paradigmatici di visible scientist proposto da Goodel è l’antropologa americana Margaret Mead, la quale comprendeva e usava la logica della televisione talmente bene da dire una volta: «Se ti vedono in televisione, leggono i tuoi libri o vengono alle tue conferenze: percorrono cinquanta miglia per sedere dietro a tutti, in compagnia di duemila persone, perché ti hanno visto in televisione».
Sebbene sia passato del tempo dall’articolo di Goodel, alcune caratteristiche dei visible scientists rimangono identiche. La presenza permanente degli esperti della salute nel discorso mediatico contemporaneo sul virus consente a questi di promuovere o accelerare carriere anche in ambiti non necessariamente medici, accreditare ulteriormente le proprie competenze, acquisire prestigio e denaro, vedersi facilmente pubblicati i propri libri, divenire famosi. Si tratta di conseguenze della visibilità che probabilmente nessuno di loro ammetterebbe mai pubblicamente, ma che pure sono evidenti a chiunque non sia sprovveduto.
È noto che i giornalisti non interpellano i loro esperti solo sulla base delle competenze scientifiche, ma anche in virtù delle capacità comunicative e di creare polemiche e della disponibilità. Spesso viene a crearsi una sorta di “compagnia di giro” per cui sono convocati sempre i medesimi nomi che funzionano sui media e che non sono necessariamente i più qualificati. La frequenza con cui sono interpellati nei contesti mediatici più disparati fa sì che essi inevitabilmente siano chiamati a rispondere a ogni sorta di quesito, per quanto lontano dai loro campi di interesse. Di qui, la tentazione della tuttologia che spesso viene loro rimproverata, ma che è funzione delle esigenze del circuito mediatico in cui sono inseriti. Con il tempo, è probabile che gli esperti finiscano con l’affinare le abilità comunicative e argomentative a scapito di quelle divulgative e professionali, finendo coinvolti nel turbinio dei meccanismi mediatici che ne condizionano azioni e discorsi.
In ultima analisi, il rischio è che la visibilità abbia la meglio sulla scienza e il visible scientist venga trasformato in uno dei tanti characters della scena mediatica, utile a conquistare ascolti e garantire audience, più che a informare.
Le vicissitudini di tanti virologi, epidemiologi e medici televisivi contemporanei, trasformati in oracoli quotidiani di scenari imprevedibili, riflettono molte delle caratteristiche dei visible scientists individuate da Goodel, con la differenza che tali caratteristiche sono oggi accentuate, se non esasperate, dal ruolo sempre più aggressivo e diffuso che i media e i social hanno nella nostra società.
Rae Goodell, 1977, “The Visible Scientists”, The Sciences, vol. 17, n. 1, pp. 6-9. PDF in inglese.
Diceva il grande storico Moses Finley, in Problemi e metodi di storia antica, che «gli scrittori antichi, come tutti gli storici da allora in avanti, non potevano tollerare vuoti, e li riempirono in un modo o nell’altro: in fin dei conti, semplicemente inventando. La maestria degli antichi nell’inventare e la loro capacità di credere sono costantemente sottovalutate».
L’invenzione – la commistione di vero e falso, di probabile/improbabile e fatto accertato – non è, però, prerogativa degli antichi, da spiegare evolutivamente come una minore perizia nel distinguere il vero dal falso o come una accentuata inclinazione alla credulità. Anche la storia moderna e contemporanea, sebbene forse più ossessionate dal fatto, lasciano trasparire vuoti, incomprensioni, opacità che specialisti e non amano riempire secondo la teoria o la propensione ideologica del momento.
Del resto, sappiamo che la nostra epoca patisce un sovraccarico (overload) di informazioni che rende non sempre possibile sceverare il fatto dall’invenzione, anche perché proprio l’eccesso incalzante di dati non consente di sottoporre ogni singolo byte comunicativo ad accurata verifica.
Di qui il ricorso al principio di autorità, che pensavamo tramontato nella nostra epoca cinica e insofferente ai maestri, ma che osserviamo in maniera quasi clericale a giudicare dalla dipendenza che amiamo esibire da “esperti”, “opinionisti, testimonial, influencer ecc.
Un’autorità era certamente ai suoi tempi, il celebre giornalista Henry L. Mencken (1880-1956), noto per la sua lingua sferzante e irriverente, ideale epigono di Jonathan Swift, Ambrose Bierce e Mark Twain, ammiratore di Nietzsche, a cui dedicò notevoli analisi e commenti, autore di The American Language (1919), opera ancora oggi utilissima sull’inglese parlato negli Stati Uniti.
A Mencken si devono anche pezzi satirici, di costume e fortemente critici di molti ismi del suo tempo. Uno di questi, in particolare, ha il merito di rivelare come sia estremamente facile insinuare l’invenzione nella trama delle nostre credenze e conoscenze quotidiane e trasformarla in fatto acclarato, immune a ogni smentita. Ecco i fatti.
Il 28 dicembre 1917, in piena Prima guerra mondiale, Mencken scrive un articolo per il «New York Evening Mail» dal titolo A Neglected Anniversary in cui delinea concisamente, ma con dovizia di fatti, e con la impostura dell’anniversario trascurato, la storia della vasca da bagno negli Stati Uniti. L’argomento è lieve ed è finalizzato a sollevare il morale degli americani, afflitti dalle notizie grevi e sconfortanti provenienti dal fronte di guerra. In più – ma questo i lettori non lo sanno – l’articolo è uno scherzo, composto per il divertimento dell’autore. Niente di ciò che contiene è vero. Come dirà lo stesso Mencken, si tratta solo di «un mucchio di assurdità, tutte intenzionali e la maggior parte di esse palesi».
Ma c’è dell’altro. Il pezzo è anche una sorta di test concepito per mettere alla prova (o alla berlina) la credulità dei lettori e degli altri giornalisti e per dimostrare l’inattendibilità della carta stampata, troppo spesso letta acriticamente. Un test alquanto crudele, potremmo obiettare, considerando che, come ricorda lo storico francese Marc Bloch, la guerra crea un ambiente favorevole alla fabbricazione e diffusione di «false notizie», che non si limitano a circolare nelle trincee, ma tracimano nella stampa e poi nell’immaginario collettivo fino a imporsi come realtà granitica e indubitabile. Lo stesso Mencken era consapevole che, in periodo bellico, «probabilmente nemmeno l’un per cento dice il vero».
Come che sia, l’articolo viene ristampato da vari quotidiani e Mencken osserva con grande sorpresa (ma forse non più di tanto) che le sue assurdità sono riprese da pubblicazioni serie ed erudite e spacciate per fatti. Ne parlano medici, politici, amministratori, persone comuni. Mencken riceve entusiastiche lettere di approvazione da parte di alcuni lettori e richieste di maggiori informazioni da altri In breve, le invenzioni di Mencken, facendo leva sul meccanismo, ancora oggi irresistibilmente fascinoso, della ripetizione subiscono una inaspettata metamorfosi, abbandonando il dominio della fantasia per trasferirsi in quello della realtà. Così, la menzogna si trasforma in “storia vera” e come tale viene intesa e discussa da chi vi è esposto.
A ciò contribuisce anche lo stile dell’articolo: asciutto, verosimile, apparentemente informativo, apparentemente attendibile, denso di date, nomi, luoghi, statistiche, ossia di “fatti” concreti, alcuni dei quali notoriamente veri (ad esempio, è esistito davvero un presidente degli Stati Uniti di nome Millard Fillmore, così come un suo ministro della guerra di nome Charles M. Conrad) giustapposti ad altri puramente immaginari (come l’esistenza di riviste intitolate «Western Medical Repository» e «Christian Register» che nessun sapiente sarà mai in grado di trovare).
Di fronte al dilagare della storia e alla sua inattesa metamorfosi identitaria, Mencken decide, dopo quasi nove anni, di venire allo scoperto e rivelare la natura burlesca dell’articolo. Il 23 maggio 1926, scrive per il «Chicago Tribune» un altro testo, intitolato Melancholy Reflections in cui descrive la genesi di A Neglected Anniversary e offre alcune interessanti riflessioni sul rapporto tra finzione e realtà.
Per Mencken, la vicenda di A Neglected Anniversary non è affatto eccezionale, bensì “tipica”. La maggior parte di ciò che compone il nostro repertorio di conoscenze «deriva proprio da imbrogli come questo. Ciò che inizia come ipotesi – o forse, non di rado, come vera e propria menzogna deliberata – finisce con il trasformarsi in fatto e, come tale, viene imbalsamato nei libri di storia». L’ipotesi di una genesi fantastica di tutta la nostra conoscenza appare decisamente overblown o, se non altro, sconcertante, soprattutto se consideriamo l’alto valore che ordinariamente attribuiamo al sapere, ma ci mette in guardia dalla convinzione ingenua che fatti e finzione appartengano manicheisticamente a due domini distinti e separati, destinati a non incontrarsi mai. Del resto, già Nietzsche, in un testo del 1873 intitolato Su verità e menzogna fuori del senso morale, aveva provato a dimostrare che quella che viene comunemente chiamata verità non è altro che una grande costruzione retorica, di cui si dimentica la natura illusoria.
In tema di affinità con altri studiosi, la beffa di Mencken ricorda da vicino la beffa di Sokal. Come si ricorderà, il fisico statunitense Alan Sokal sottopose nel 1996 l’articolo “Transgressing the Boundaries: Towards a Transformative Hermeneutics of Quantum Gravity” (“Violare le frontiere: verso una ermeneutica trasformativa della gravità quantistica”) alla rivista accademica Social Text, una rivista specializzata in studi culturali postmoderni, fiducioso che il suo articolo, sebbene del tutto privo di senso, sarebbe stato comunque pubblicato in quanto rispettoso dell’ideologia e dello stile prediletto dai curatori della rivista. Tre settimane dopo la sua pubblicazione, Sokal rivelò che l’articolo era una bufala, dando la stura a una serie infinita di polemiche, che, in parte, richiamano quelle che si ebbero dopo la pubblicazione di Melancholy Reflections. Mencken impiegò più tempo di Sokal per fare coming out: quasi 9 anni. Ma i presupposti e il contesto erano indubbiamente diverso.
Dopo Melancholy Reflections, alcuni studiosi si sono impegnati a smontare il contenuto dell’articolo di Mencken, quasi fosse una cosa seria, e molti libri hanno indagato a fondo la questione relativa alla beffa. Le biografie di Mencken evidenziano con gusto la vicenda, mentre attualmente alcuni libri popolari di storia americana riconducono l’introduzione della vasca da bagno nella Casa Bianca a Fillmore. Ancora nel febbraio, 2004, si poteva trovare, addirittura nel «Washington Post», prima che venisse frettolosamente corretta, una frase come la seguente: «Scommettiamo che non sapete che […] Fillmore fu il primo presidente a fare installare una vasca da bagno alla Casa Bianca».
Potenza del falso!
Qui la mia traduzione di A Neglected Anniversary, «New York Evening Mail» (28 dicembre 1917) e di Melancholy Reflections, «Chicago Tribune» (23 maggio 1926) con i testi originali degli articoli.
Testi di riferimento
Bloch, M. La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921). Roma: Donzelli, 1995.
Finley, M. I. Problemi e metodi di storia antica. Roma-Bari: Laterza, 1998.
Mencken, H. L. The Bathtub Hoax and Other Blasts & Bravos from the Chicago Tribune. New York: Octagon Books, 1985
Nietzsche, F. Verità e menzogna e altri scritti giovanili. Roma: Newton Compton, 1981.
“Presidents’ Day 101” (15 febbraio 2004), The Washington Post. Travel, P02.
Sokal, A., Bricmont, J. Imposture intellettuali. Milano: Garzanti, 1999.
Ci sono uomini e donne che se non avessero formulato “quella” teoria, “quel” pensiero, “quella” “legge” non sarebbero probabilmente ricordati o sarebbero dimenticati del tutto.
È il caso dell’antropologo inglese Joseph Daniel Unwin (1895–1936) ricordato oggi per la sua ricerca Sex and Culture (Oxford University Press, London, 1934), definita da Aldous Huxley “un’opera di capitale importanza”, e in particolare per quella che potremmo definire la “legge di Unwin”.
Prendendo in esame ottanta società non civilizzate e sei grandi civiltà (babilonesi, sumeri, ateniesi, romani, anglosassoni e angli), Unwin giunse alla conclusione che “più alte sono le restrizioni sessuali più alto è il livello di civiltà, più basse sono le restrizioni sessuali più basso è il livello di civiltà”.
Secondo Unwin, «a questa regola non esistono eccezioni. Le civiltà salgono sul palcoscenico della storia quando la loro sfera sessuale viene regolata da norme molto severe e spariscono dalla scena quando lasciano scivolare la loro sessualità al livello animale delle pulsioni incontrollate […] Negli annali della storia non esistono esempi di civiltà che in un determinato lasso di tempo avessero una energia sociale elevata, a meno che non fossero assolutamente monogame» (J. D. Unwin, Sex and Culture, p. 369).
Sintetizzando la posizione di Unwin, il sociologo Pitirim Sorokin scrive:
Elaborando quattro grandi modelli di cultura umana, Unwin è giunto a conclusioni che considera inoppugnabili: la libertà sessuale prenuziale ed extranuziale decresce con la transizione dalle culture zoistiche a quelle razionalistiche. Fra i popoli delle culture zoistiche vi era una elevatissima libertà; in quelle manistiche appaiono alcune forme di limitazione delle relazioni pre- ed extra-maritali; nei popoli cosiddetti deistici subentra una ancor più grande limitazione e più stretta regolazione, infine, castità prematrimoniale e monogamia post-nuziale vengono richieste e rinforzate nelle società di tipo razionalistico, ad esempio in Egitto, presso i Sumeri, i babilonesi, i Greci. La limitazione della libertà sessuale appare accompagnata da creatività culturale. Fra le 59 società pre-letterarie, emerge il seguente risultato comparativo: le società civilizzate che hanno una più stretta e rigida libertà sessuale sono ancora quelle in cui si sviluppano le forme di cultura più elevata (Pitirim A. Sorokin, 2021, La rivoluzione sessuale americana, Cantagalli, Siena, pp. 62-63).
Quanta credibilità ha oggi la “legge di Unwin”? È vero che a questa “legge” non esistono eccezioni? Prendiamo in esame la civiltà contemporanea occidentale. Nella nostra società, come è noto, vige una libertà sessuale senza precedenti. Comportamenti sessuali una volta rigidamente stigmatizzati e censurati sono oggi consentiti senza che ciò desti reazioni o preoccupazioni (se non da parte di ristretti gruppi ideologicamente orientati). Il sesso prematrimoniale o extramatrimoniale non suscita più scandalo e il novero delle pratiche sessuali “liberalizzate” è notevolmente cresciuto. Una donna non è più considerata “perduta” se ha rapporti sessuali con più uomini. Erotismo e pornografia abbondano sia nelle produzioni culturali sia nel nostro immaginario. Insomma, viviamo in un’epoca di “basse restrizioni sessuali”, per dirla con Unwin, a cui però non corrisponde affatto un “basso livello di civiltà”.
Nessuna epoca come la nostra, infatti, ha prodotto tanta “cultura” (nel senso più ampio del termine). In nessuna società si è pubblicato, scritto, realizzata arte, musica ecc. come la nostra. Nessuna epoca precedente vanta il nostro livello di alfabetizzazione, progresso scientifico, qualità della vita ecc. Eppure, tutto ciò è perfettamente compatibile con un atteggiamento estremamente libero e rilassato nei confronti della sessualità. La “legge di Unwin” non regge, dunque, alla prova dei fatti.
Credo, inoltre, che sia semplicistico porre a confronto i costumi sessuali di società preletterate – considerati sempre come poco restrittivi – con quelli delle “grandi civiltà”, considerati sempre restrittivi. Siamo sicuri che le condotte sessuali di greci e romani antichi fossero così ristrette rispetto a quelle di comunità “primitive”? Il nostro giudizio nei confronti di quest’ultime non deriva spesso da un pregiudizio etnocentrico su cosa debba intendersi per “civiltà” e “costumi sessuali restrittivi”? Infine, è possibile che Unwin abbia “selezionato” abilmente i dati che confortavano la sua tesi, trascurando quelli che la smentivano, come è accaduto a pensatori più celebri di lui (uno su tutti: Hegel)?
Insomma, le “leggi” che pretendono di individuare costanti storiche assolute e “senza eccezioni” celano tanti e tali problemi di tenuta da essere quasi sempre destinate al fallimento. Mi sembra che ciò sia particolarmente vero nel caso dell’antropologo inglese Joseph Daniel Unwin e della sua “regola che non conosce eccezioni”.
L’eccellenza un tempo era un’altra cosa. Come ci insegna la Treccani, era un titolo “per molto tempo riservato al sovrano, sia nel regno longobardo, sia nel regno franco; e più tardi anche all’imperatore, fino a Enrico VII, pur continuando a essere usato per i re […]. Se ne servirono nel sec. XV i principi italiani; e venendo ormai in uso i titoli di “maestà” e di “altezza” per i capi di stato, “eccellenza” divenne l’attributo degli ambasciatori e dei grandi funzionari dello stato”.
In Italia, continua sempre la Treccani, “eccellenza” era “riservato ai personaggi compresi nelle prime quattro categorie delle precedenze a corte, cioè ai grandi ufficiali dello stato. Nella gerarchia ecclesiastica, oltre a determinati prelati, era attribuito abitualmente ai vescovi” (Enciclopedia italiana 1932). Oggi, il titolo è stato abolito per le cariche civili dalla legge italiana nel 1945, ma tutti ricordano espressioni come: “Vorrei parlare con S. E.”, che, anche a livello regionale, è dato talora di sentire.
Nelle consuetudini e nelle convenzioni protocollari, “ma anche, più in senso stretto giuridicamente”, ricorda Raffaele De Mucci, “eccellenza” continua a essere adoperato “in campo politico (per gli ambasciatori residenti; e nelle cerimonie ufficiali, per rivolgersi a un Capo di stato o a un ministro), amministrativo (per i prefetti in sede), giudiziario (per il primo presidente e il procuratore generale della Cassazione, i presidenti delle Corti di appello e i procuratori generali), religioso, nobiliare e militare. Questa prassi venne consolidata e imposta per legge durante il fascismo”.
Ricordiamo che in Dante Alighieri, “eccellenza” aveva il significato di “elevata superiorità” rispetto ad altri e di “perfezione spirituale sovrumana”,
Infine, conclude mestamente la Treccani, “eccellenza” è diventato “termine di uso senza più connessione con una determinata carica”.
Possiamo iniziare da qui.
Ormai del termine “eccellenza” si abusa in modo inverecondo. Del titolo sono investiti non solo cariche importanti dal punto di vista politico, religioso, militare, ma mozzarellari che esportano con successo il proprio prodotto all’estero, pizzaioli abili nel lanciare e riprendere ammiccando la propria pasta davanti a una telecamera; cuochi pluristellati; artigiani specializzati nel vetro di Merano, nell’ebano, nel tessuto e in improbabili quanto poco utili oggetti; industriali salvatori del distretto in crisi; performatori finanziari; specialisti della customer satisfaction.
È tutto un profluvio di “imprese eccellenti”, “nicchie di eccellenza”, “eccellenza del made in Italy”. Si eccelle nel luxury, nel pets, nell’agroalimentare. Basta saper cucinare, vendere, filare, esportare più del concorrente dirimpettaio che si diventa “eccellenti”. Ci si può perfino iscrivere a un Registro Eccellenze Italiane che “conta circa 8000 aziende dislocate in Italia e all’estero: attività alle quali è stato rilasciato il marchio registrato con un ID anticontraffazione”. Basta possedere qualche certificazione condita da marchi DOP, DOC, IGP, IGT ecc. e da iscrizioni ad albi professionali che si diventa “eccellenti”. L’eccellenza come contrassegno burocratico.
Sembra chiaro che “l’eccellenza è ciò è definito tale”. In questo modo, probabilmente, tutti noi arriveremo a fare qualcosa nella vita che sarà definito eccellente da qualcuno. Forse, anche i criminali più abili saranno, prima o poi, definiti eccellenti, con tanto di marchio e certificazione. Del resto, si ergono al di sopra della massa (e dei delinquentelli di mezza tacca)!
Come ricorda ancora Raffaele De Mucci: “In questi ultimi anni […] abbiamo assistito a un uso indiscriminato e fuorviante dell’appellativo di “eccellenza”, a un vero e proprio abuso del concetto come panacea di modernizzazione e sviluppo sociale, politico e culturale”. E questo al di là di qualsiasi criterio di supremazia nel possesso di particolari capacità, conoscenze e competenze. Criteri che, comunque, sono labili, fluttuanti, mutevoli e che finiranno con lo svuotare il termine “eccellenza” di qualsiasi significato concreto, come tante altre parole abusate e neutralizzate, o nel degradarne il senso per una malintesa volontà di democratizzare alla mediocrità.
Quel che è certo è che oggi non si eccelle per il possesso di qualità morali o spirituali sovrumane, come ai tempi di Dante, ma perché qualcuno ci iscrive a un registro.
Forse non esiste una categoria più dotata di carica retorica della parola “popolo”, ancora oggi adoperata da politici, amministratori e scrittori come chiamata all’azione, invito alla solidarietà, termine con valenza centripeta buono a comunicare appartenenza ecumenica e uniforme in una società individualistica come la nostra.
“Popolo” tramette un’idea di monoliticità, uniformità, condivisione completa di valori, norme, lingua, religione, stili di vita ecc. Per questo motivo, bisognerebbe diffidare per principio di una categoria così totalitaria e boriosa, ingannevole nella sua pretesa egualitaria e irenica.
La realtà, come sappiamo, è che le società sono composte da gruppi sociali, classi, ceti, associazioni, fazioni, partiti, segmenti, subculture, spesso in conflitto tra loro o, comunque, con interessi, aspettative, atteggiamenti, visioni del mondo e della vita diversi, a volte diversissimi tra loro.
Eppure, sembra che proprio non si riesca a fare a meno di pronunciare nelle occasioni solenni la parola “popolo” o di chiamare un partito “Potere al popolo”. Come se il richiamo al “popolo” avesse una sua infallibile cogenza persuasiva.
Ma chi di noi è “popolo”? Probabilmente se qualcuno ci dicesse che noi – proprio noi – siamo “popolo”, avvertiremmo qualcosa che non va. Dentro di noi sappiamo che non siamo “popolo”, siamo individui. Il richiamo dell’individualismo imperante – così caratteristico della nostra epoca – è fortissimo. Perfino la pubblicità non fa altro che dirci che siamo unici e valiamo per quello che siamo. No! Non siamo popolo. Siamo noi e basta. E chi dice che non è così, dovrà fare i conti con il nostro ego.
Stracciando il velo di Maya della retorica, è possibile dire ad alta voce che non esiste il “popolo”, se non come figura retorica che chiama a raccolta, spinge all’azione, mobilita animi, suscita illusioni di unità compatta e, al limite, di una comune anima che vuole all’unisono. Esiste, invece, frammentazione, divisione, conflitto, individualismo.
L’appello al “popolo” è una forma di riduzione della complessità della realtà e, per questo, del resto, è benvoluta dal “popolo”. E per questo il “popolo”dovrebbe diffidarne.
Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte mia. maggiori informazioni
Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.