È vero perché è capitato a me (o a un amico)

Potremmo definirlo il potere dell’aneddoto. Lo abbiamo visto all’opera durante la recente pandemia di Covid-19, quando abbiamo sentito No-vax e persone comuni affermare con convinzione: «Un mio amico/parente/conoscente si è vaccinato e la settimana dopo si è sentito male. Per questo non mi sono vaccinato». Lo stesso argomento è stato utilizzato in chiave negativa: «Tanti miei amici non si sono vaccinati contro il Covid-19 e stanno benissimo. Perché, dunque, vaccinarsi?».

Sebbene, da un punto di vista epidemiologico, la percentuale di coloro che hanno avuto una reazione avversa alla somministrazione del vaccino sia minima, testimonianze come quelle descritte e fatti di cronaca sensazionalmente riportati dai media hanno diffuso la percezione che gli effetti indesiderati dei vaccini siano stati molto più numerosi e letali di quanto non siano stati in realtà. Tutto questo grazie al potere dell’aneddoto.

Pensiamoci: abbiamo intenzione di andare a vedere l’ultimo film di Paolo Sorrentino, quando il nostro più caro amico ci dice di averlo visto e di esserne stato deluso. Quante probabilità ci sono che la sua opinione condizionerà le nostre scelte? Ugualmente, il consiglio dell’amico che ha cenato nel locale di recente apertura, “spendendo poco e mangiando bene” è probabile che sarà decisivo nella scelta del ristorante dove pranzeremo prossimamente con moglie e figli. Certo, potremmo leggere decine di recensioni positive o negative su un film o un ristorante, ma è probabile che la testimonianza dell’amico o del parente abbia un’influenza più vivida su di noi.

Talvolta, questo tipo di ragionamento si traduce in un vero e proprio pregiudizio negativo, come nell’esempio seguente:

Sono stato a Genova. Non ti consiglio di andarci. Sono stato quasi investito da un’auto. I genovesi proprio non sanno guidare.

In questo caso, la testimonianza di un singolo individuo, a noi noto, pretende di generalizzare un’esperienza, traendo da essa un giudizio negativo nei confronti dell’insieme dei genovesi da condividere, ovviamente, con tutti quelli che vogliono andare a Genova.  

Rimanendo in tema sanitario, a tutti è capitato di avere a che fare con individui che affermano con convinzione: «Mio nonno fumava due pacchetti di sigarette al giorno ed è vissuto fino a ottantanove anni. E poi dicono che fumare fa male!». Oppure: abbiamo un problema di salute e dobbiamo consultare uno specialista. Che cosa facciamo? Chiediamo a parenti e amici e ci rivolgiamo al medico con il quale Teresa “si è trovata bene” o Antonio ha risolto il suo disturbo.

Si tratta di ragionamenti fallaci che pretendono di istituire facili generalizzazioni o norme comuni di condotta a partire da singole esperienze e sporadiche testimonianze, il cui unico merito è quello di vedere protagoniste persone che conosciamo in maniera diretta o indiretta. Il fatto che il nostro amico Giuseppe sia in buona salute senza essersi mai vaccinato non costituisce affatto una prova contro l’utilità dei vaccini. Il singolo aneddoto non regge il confronto con gli esiti della ricerca scientifica, che si basa su studi epidemiologici e clinici condotti su migliaia di soggetti. Ugualmente, il fatto che mio nonno sia vissuto fino alla soglia dei novant’anni pur essendo un accanito fumatore non significa che fumare non faccia male, come dimostrano migliaia di evidenze empiriche di segno contrario. Insomma, come recita un noto adagio americano, the plural of anecdote is not data (“il plurale di aneddoto non è dati”). Non basta mettere insieme una serie di racconti e storie di amici e parenti per giungere alla verità su un determinato fenomeno. Un solo dato non può fondare una teoria.

Eppure, la “fallacia dell’aneddoto” o “dell’evidenza aneddotica” – la fallacia consistente, appunto, nel sostenere la verità di una teoria utilizzando un aneddoto a conferma – è alla base, come abbiamo visto, di tanti discorsi della vita quotidiana e si insinua in tanti nostri ragionamenti che partono da esperienze personali fino a divenire luogo comune dato per scontato. Si può dire che tutti noi viviamo di aneddoti e di generalizzazioni di esperienze aneddotiche. Tutti noi presumiamo che la nostra esperienza personale sia rappresentativa di ciò che accade a tantissimi individui come noi. È come se agisse una sorta di egocentrismo cognitivo in virtù del quale ci riteniamo al centro del mondo. In un certo senso, è più forte di noi. Non riusciamo a farne a meno.

Così, è un luogo comune adoperare le proprie esperienze personali per dimostrare un assunto, ma le esperienze personali non dimostrano alcunché. Posso dire di aver visto un UFO, ma il fatto che lo abbia visto non può essere adoperato per dimostrare l’esistenza degli UFO.

Ma se le evidenze aneddotiche non consentono di conoscere oggettivamente ciò che accade nel mondo perché tendiamo a confidare così tanto in esse? Perché la fallacia dell’“È vero perché è capitato a me/a un mio amico” è così dilagante nei nostri ragionamenti e nelle nostre conversazioni di ogni giorno.

Per una serie di ragioni. La prima è che l’aneddoto ci fornisce informazioni in forma narrativa e personale e molte ricerche hanno dimostrato in maniera significativa che le persone sono maggiormente persuase dalle storie che da numeri e statistiche. Un caro amico che gode di buona salute e che ci riferisce di aver sperimentato forti effetti avversi dopo una vaccinazione avrà sulla nostra mente un impatto maggiore di un insieme di dati che dimostrano che gli effetti avversi riguardano un numero limitato di individui e sono, per lo più, trascurabili. La testimonianza calda e personale dell’amico risulterà più persuasiva delle informazioni fredde e distanti offerte dai numeri (Kahneman, 2013). La ricerca scientifica ha dimostrato che ciò avviene anche quando si tratta di prendere decisioni importanti per il proprio futuro scolastico. Borgida e Nisbett (1977), ad esempio, hanno rilevato che la scelta di quale corso di studi intraprendere è più influenzata da raccomandazioni aneddotiche ricevute da altri studenti che da statistiche informative.

A ciò, possiamo aggiungere l’azione di un altro tipo di fallacia, individuata dal filosofo Bertrand Russell (1872-1970), denominata “Induzione popolare”. In sintesi, le persone tendono a compiere generalizzazioni spontanee a partire da pochi esempi occasionali soprattutto se questi posseggono una forte “carica emotiva”. Ad esempio, tenderanno a valutare maggiore il rischio che un evento nefasto possa accadere se questo stimola maggiori reazioni emotive. In altre parole, la valutazione del rischio si basa spesso più sull’impatto psicologico ed emozionale dello stesso che su numeri obiettivi (Piattelli Palmarini, 1993).

Un’altra ragione per cui la “fallacia dell’aneddoto” si introduce così subdolamente nei nostri ragionamenti sta nel fatto che questi si basano spesso sulla cosiddetta “euristica della disponibilità”, ossia sul fatto che, nelle decisioni, tendiamo a dare maggiore importanza ai fatti o eventi che più facilmente richiamiamo alla mente. Ad esempio, se siamo invitati a stimare la probabilità di essere feriti in un incidente stradale, tenderemo a giudicare alta tale probabilità se un parente o amico è rimasto vittima recentemente di un incidente stradale.  Oppure: se siamo invitati a stimare la probabilità di rimanere vittime di un incidente aereo rispetto a un incidente automobilismo, tendiamo a giudicare la prima superiore alla seconda, contro ogni statistica esistente, per il semplice fatto che le notizie di incidenti aerei hanno maggiore visibilità di quelle di incidenti automobilistici e, quindi, sono più facilmente richiamate alla memoria (Calemi, Paolini Paoletti, 2014, pp. 57-58). Allo stesso modo, le valutazioni di una persona cara su un determinato fenomeno saranno più facilmente ricordate rispetto a quelle fornite freddamente dal telegiornale della sera. È il prezzo, in un certo senso, che paghiamo per il fatto di essere umani.

Gli aneddoti sono dotati anche di una maggiore vividezza rispetto ad altri tipi di informazioni e le persone tendono ad attribuire una maggiore attendibilità o verosimiglianza a informazioni concrete, salienti, personalmente rilevanti o facilmente percepibili rispetto a informazioni astratte, impersonali, espresse in forma matematica o statistica o riguardanti fatti distanti da noi. E questo anche se le informazioni astratte contengono un valore di verità superiore a quelle delle informazioni vivide. Così, se, entrando in un negozio, “sperimentiamo” che in esso sono praticati sconti superiori alla media, questa informazione avrà su di noi un impatto sicuramente maggiore che se acquisiamo la medesima informazione da un conoscente. Allo stesso modo, un aneddoto ci appare molto più vivido di un complesso insieme di dati statistici: se a un nostro amico capita di essere derubato in una determinata area della nostra città, questa informazione avrà un impatto sul nostro sistema di pensiero molto maggiore di un freddo complesso di numeri che rappresenta statisticamente i tassi di criminalità presenti in quell’area (Michal, Zhong, Shah, 2021).

In conclusione, la “fallacia dell’aneddoto” si dimostra particolarmente pericolosa. Essa ci induce a credere nella verità di alcune informazioni solo perché sono rappresentate dalla nostra mente in maniera narrativa, immediatamente disponibile e vivida. In particolare, è alto il rischio di sottovalutare la portata di alcune informazioni rilevanti a vantaggio di informazioni di importanza secondaria, il cui unico merito è di apparire più “calde”. L’implicazione più preoccupante dell’aneddoto come criterio di verità è che alcuni tipi di informazioni, per quanto preziose, eserciteranno un’influenza minima su di noi solo perché sono in forma non narrativa, fredda e astratta. Ciò è vero in particolare per i dati statistici, certamente privi del fascino di una storia personale, ma dotati spesso di un contenuto di verità maggiore.

La morale, come dicevano gli antichi, è che dobbiamo saper vagliare con attenzione informazioni ed eventi che ci coinvolgono in prima persona e imparare a diffidare dei loro contenuti. Non sempre ciò che ci colpisce di più è più vero. Non sempre un aneddoto è più aderente alla realtà di un grafico statistico. Anche se la tentazione di generalizzare affrettatamente a partire da un episodio accaduto a noi o a qualcuno che conosciamo è grandissima e può, talvolta, contribuire a generare pregiudizi e stereotipi molto vischiosi, come ci insegna l’aneddoto sui genovesi citato in precedenza.

Riferimenti

Borgida, E., Nisbett, R. E., 1977, “The differential impact of abstract vs. concrete information on decisions”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 7, n. 3, pp. 258–271.

Calemi, F. F., Paolini Paoletti, M., 2014, Cattive argomentazioni: come riconoscerle, Carocci, Roma.

Kahneman, D., 2013, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, Milano.

Michal, A. L., Zhong, Y., Shah, P., 2021, “When and why do people act on flawed science? Effects of anecdotes and prior beliefs on evidence‑based decision‑making”, Cognitive Research: Principles and Implications, vol. 6, n. 1.

Piattelli Palmarini, M., 1993, L’illusione di sapere. Mondadori, Milano.

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“Di questo passo chissà dove andremo a finire!”

“Se continua così, dovrò chiedere l’elemosina in strada”, si lamenta la non più giovane signora al supermercato, commentando il recente aumento dei prezzi.

“Se non ci diamo una regolata, tra 25 anni la Terra diventerà un pianeta inabitabile” osserva sconsolato il giovane ecologista, sconvolto dal caldo eccessivo delle giornate agostane.

“Se i governanti continuano su questa china, non riuscirò mai ad andare in pensione” commenta avvilito il dipendente pubblico di fronte all’ennesima riforma del sistema previdenziale.

“Di questo passo chissà dove andremo a finire” – con le sue innumerevoli varianti – è indubbiamente uno dei luoghi comuni più pervasivi del discorso pubblico.  Se i tempi in cui viviamo sono “i peggiori di sempre”, tanto da suscitare infinite nostalgie per il “paradiso” nella nostra infanzia (“Oh, i bei tempi andati!”), la nostra epoca è anche quella in cui le decisioni prese, in ogni settore, conducono rapidamente a esiti calamitosi. Così, per ogni proposta concepita ci sarà sempre un bastian contrario che enumererà le conseguenze finali nefaste derivanti dall’adozione della proposta.

«Se riconosciamo i diritti degli omosessuali, ci ritroveremo ad abolire per legge l’eterosessualità e l’omosessualità diventerà la nuova normalità», sbraita l’omofobo che proprio non vuole sentire parlare di LBGTQ++. «Se concederemo lo ius scholae (la nazionalità italiana a chi è nato in Italia e ha frequentato almeno cinque anni di scuola), concederemo anche lo ius soli (la cittadinanza italiana a chi è nato in Italia) e da qui all’invasione inarrestabile degli immigrati il passo sarà breve», obietta chi vede nello straniero un nemico da cui guardarsi sempre con sospetto. «Se legalizziamo la marijuana, la gente comincerà a prendere crack ed eroina e dovremo legalizzare anche questi. In poco tempo ci ritroveremo in una nazione di drogati», sentenzia il proibizionista contrario alla legalizzazione.

Tutte queste argomentazioni condividono il medesimo errore che la logica conosce da tempo e che è stato battezzato con molteplici nomi a indicazione, forse, della sua onnipresenza nelle conversazioni e considerazioni quotidiane.

In inglese viene definito slippery slope. In italiano: fallacia del pendio sdrucciolevole, della brutta china, del dito nell’ingranaggio o dell’argine che si rompe. Oppure: appello alle conseguenze negative. La fallacia dello slippery slope consiste, appunto, nell’affermare che, se un evento accadrà, accadranno altri eventi dannosi a catena, sempre più disastrosi, fino al rovinoso baratro conclusivo.  In altri termini, accettare una tesi A porterà ad accettare una tesi B pericolosa, ma accettare una tesi B porterà ad accettare una tesi C ancora più pericolosa, fino ad arrivare a una tesi Z, ritenuta universalmente inaccettabile. L’argomento si basa sul presupposto non dichiarato secondo cui solo uno fra tutti i possibili esiti di un evento accadrà con certezza e inevitabilità e questo è il più negativo possibile. Così, anche se non vi sono prove che un evento provocherà necessariamente altri eventi dannosi a catena, la convinzione è che, se si imbocca una certa strada, ci ritroveremo immediatamente a scivolare pericolosamente verso la peggiore china possibile.

In letteratura, è possibile trovare numerosi esempi di questo tipo di fallacia. Il seguente è tratto da un libro dedicato alle fallacie logiche:

Mi oppongo ad abbassare il limite di età per bere alcolici da ventuno a diciotto anni. Questo potrà solo condurre a ulteriori richieste di scendere a sedici, poi a quattordici, e prima che ce ne rendiamo conto i nostri neonati avranno cominciato a poppare vino piuttosto che il latte materno (Pirie, 2011, p. 202).

Un altro esempio riguarda l’aborto:

Se si è legalizzato l’aborto entro i primi tre mesi di gravidanza, allora occorre legalizzare anche l’aborto oltre i primi tre mesi di gravidanza. Ma se occorre legalizzare l’aborto oltre i primi tre mesi di gravidanza, allora occorre legalizzare anche l’infanticidio. E se occorre legalizzare l’infanticidio, allora occorre legalizzare anche l’omicidio. Ma la legalizzazione dell’omicidio è inaccettabile, dunque è inaccettabile la legalizzazione dell’aborto entro i primi tre mesi di gravidanza (Calemi, Paolini Paoletti, 2014, p. 36).

L’ecologia non sfugge alla tentazione dello slippery slope:

Le case dovrebbero essere riscaldate soltanto per il tempo strettamente necessario. In caso contrario, si avrà un aumento della temperatura della Terra, al quale seguirà una maggiore concentrazione di anidride carbonica nell’aria. Questo favorirebbe l’effetto serra, quindi un ulteriore aumento della temperatura, con il conseguente scioglimento delle calotte polari e l’innalzamento del livello dei mari. Gli effetti sarebbero disastrosi per tutto il genere umano (Boniolo, Vidali, 2002, pp. 110-111).

Sebbene l’ultimo enunciato non consegua logicamente dal primo, questo tipo di monito è oggi ampiamente diffuso anche grazie alla popolarità delle tesi ecologiste.

Oriana Fallaci usa l’appello alle conseguenze negative nel suo pamphlet bestseller La rabbia e l’orgoglio. Qui, si dichiara contraria a ogni apertura nei confronti dell’Islam perché, altrimenti, «al posto delle campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella» (cit. in Cantù, 2011, p. 11).

Talvolta, la fallacia del pendio sdrucciolevole assume una forma che i logici definiscono del “treno in corsa”, un argomento fallace che porta un esempio ragionevole alle estreme conseguenze, senza fermarsi, fino a farlo diventare irragionevole. Un esempio tipico di treno in corsa è il seguente:

Per la nostra sicurezza, dovremmo abbassare il limite di velocità in città a 30 km».

«E perché non a 20 o 10?».

Estendere un buon argomento oltre un certo limite può condurre a conseguenze paradossali, come nell’esempio proposto in cui l’immobilità dei veicoli diviene il comportamento da tenere per avere più sicurezza.

Una variante estrema della “brutta china”, per Adelino Cattani, è la “tesi della perversità”, la quale afferma che, in ultima analisi, gli effetti conseguiti da un corso di azione non saranno solo indesiderati, ma opposti a quelli attesi (Cattani, 2011, p. 131).

Tornando allo slippery slope classico, la sua variante più nota e diffusa è probabilmente quella riassumibile nell’ammonimento morale: “Si inizia con lo spinello e si finisce con l’eroina”. Nella letteratura scientifica, tale ammonimento prende il nome di gateway theory o “teoria del passaggio”. Si tratta dell’assunto secondo cui l’uso di droghe “leggere” come la marijuana conduce inevitabilmente all’uso di droghe più “pesanti” come eroina o cocaina. Questa tesi è sostenuta non solo da cittadini comuni, ma anche da moralisti, politici e amministratori. In Italia, personalità come Gianfranco Fini, Umberto Bossi e Carlo Giovanardi, Bettino Craxi, Ignazio La Russa, Girolamo Sirchia, Antonio Tajani, Pier Ferdinando Casini hanno fatto della “teoria del passaggio” uno dei loro cavalli di battaglia politici preferiti.

Ma quanta verità c’è nella gateway theory? In realtà, pochissima. Essa, infatti, si basa su un grave errore logico. Una delle regole principali di chi si occupa di statistica è che una correlazione non è una relazione causa-effetto. In altre parole, se due fenomeni coesistono non significa che uno di essi sia causa dell’altro. Dire che lo spinello porta al consumo di droghe pesanti è come dire che chi gioca a tombola diventerà un giocatore d’azzardo. Se è vero che chi usa droghe pesanti ha iniziato con droghe leggere non è necessariamente vero che usare droghe leggere porterà automaticamente al consumo di droghe pesanti. Così come sarebbe falso dire che il consumo di nicotina provoca la dipendenza da eroina solo perché molti eroinomani fumano o hanno fumato sigarette. Del resto, a nessuno verrebbe in mente di criminalizzare il consumo sporadico di vino o birra per il fatto che gli alcolizzati hanno iniziato bevendo un bicchiere di vino o birra. Ugualmente, se si gioca una volta al casinò non necessariamente si svilupperà una dipendenza da gioco. Però è probabile che un giocatore d’azzardo compulsivo avrà iniziato giocando una o due partite (Kramer, Trenkler, 1999, pp. 131-132).

La fallacia dell’argomentazione secondo cui “Si inizia con lo spinello e si finisce con l’eroina” appare evidente, se solo riflettiamo su alcuni casi storici significativi come ciò che accadde negli Stati Uniti al tempo del cosiddetto “proibizionismo”, il periodo fra il 1920 e il 1933 in cui era proibito produrre, vendere, importare e consumare alcool. In quel decennio, politici e cittadini comuni minacciavano che se la produzione e il consumo di alcol fossero stati legalizzati, l’America sarebbe diventata una nazione di etilisti e le strade sarebbero traboccate di alcolizzati a ogni angolo. Cosa che, come sappiamo, non è mai accaduta. Tuttavia, nonostante le smentite della storia, la credenza nella gateway theory rimane salda e difficile da scalzare e appare profondamente radicata nel senso comune.

Incidentalmente, la relazione tra spinello e droghe pesanti potrebbe avere un diverso fondamento. Chi consuma hashish potrebbe frequentare gli stessi ambienti che frequenta chi consuma droghe pesanti o condividere la stessa condizione di marginalità ed essere, quindi, più esposto a certe “tentazioni”. Ma, anche quest’argomentazione, a ben vedere, è discutibile. Non necessariamente coloro che condividono un certo ambiente condividono gli stessi gusti e gli stessi stili di vita, anche se la probabilità che ciò avvenga è ovviamente maggiore.

La fallacia dell’appello alle conseguenze negative è particolarmente sfruttata in argomentazioni morali e politiche sotto la forma: «Se lasciamo accadere questo, seguirà un male peggiore». Come strategia argomentativa è utilizzata quando si vuole opporsi all’adozione di un provvedimento politico o amministrativo e, più in generale, quando ci si vuole opporre al cambiamento perché, in fondo, non c’è nessuna proposta per la quale non possa essere concepito un esito finale catastrofico. Per la sua natura, è particolarmente adoperato dagli schieramenti conservatori per difendere lo statu quo e ottenere consenso intorno a temi sensibili su cui alcune parti sociali esprimono una volontà di cambiamento.

Forse è proprio per questo motivo che, nonostante la sua illogicità, lo slippery slope continua ad avere successo: in fondo gli esseri umani temono le novità e, pur di non cambiare, sono disposti a condannare ogni mutamento dal quale – essi argomenteranno – non possono che derivare conseguenze negative. Chi lascia la via vecchia per la nuova…

Riferimenti

Arnao G., 1991, Proibizionismo antiproibizionismo e droghe, Stampa Alternativa, Roma.

Boniolo, G., Vidali, P. 2002, Strumenti per ragionare, Bruno Mondadori, Milano.

Calemi, F. F., Paolini Paoletti, M., 2014, Cattive argomentazioni: come riconoscerle, Carocci, Roma.

Cantù, P., 2011, E qui casca l’asino. Errori di ragionamento nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino.

Cattani, A., 2011, 50 discorsi ingannevoli. Argomenti per difendersi, attaccare, divertirsi, Edizioni GB, Padova.

Kramer W., Trenkler G., 1999, Dizionario dei luoghi comuni e delle credenze popolari, Sperling & Kupfer, Milano.

Pirie, M., 2011, Come avere sempre ragione. Usare la logica, abusarne e difendersi, Ponte alle Grazie, Milano.

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Gilbert Chesterton e i lombrosiani

Che ti aspettavi, un mostro? Non riesci a capacitarti, vero? Non ho giustificazioni da offrire. Non ho un perché che ti farebbe dormire sogni tranquilli. Non ho subito traumi infantili. Non mi hanno molestato da piccolo. Mamma non ha abusato di me. Papà non mi ha violentato. Sono fatto così e basta. Non c’è niente da spiegare.

Sono le parole con cui il torturatore sadico Machine, all’anagrafe George Anthony Higgins, un uomo con pochi capelli e gli occhiali, che vive ancora con la madre, si presenta allo sconcertato Tom Welles, interpretato da Nicolas Cage, dopo essersi tolto la maschera, nel film 8mm. Delitto a luci rosse (1999) diretto da Joel Schumacher e interpretato dallo stesso Cage e da Joaquin Phoenix.

Le parole del “mostro” dall’aspetto ordinario, dalla vita del tutto normale, se non mediocre, sconvolgono Wells, il quale crede evidentemente che dietro alla efferata crudeltà dimostrata da George per tutta la durata della pellicola, si celi un essere dalle sembianze teratologiche, straordinariamente demoniache, rimanendo deluso dal suo volto spiazzante di miope disarmato. Un caso di assoluta banalità del male, potremmo chiosare.

Le parole di Machine sconcerterebbero anche tanti criminologi passati e presenti, convinti dell’esistenza di una corrispondenza “scientifica” tra caratteristiche fisiche, biologiche, anatomiche e tratti di personalità criminali. Sconvolgerebbero, in particolare, tanti lombrosiani e neolombrosiani che di tale corrispondenza hanno fatto il proprio mantra professionale.

Il problema è che, al di là delle continue falsificazioni che le teorie biologiche della criminalità hanno ricevuto e continuano a ricevere, una delle fallacie principali dei dogmi su cui esse si reggono sta nel fatto che pretendono di ricavare informazioni sulla moralità delle persone dalla conformazione del cranio o da altre peculiarità fisiche, senza però sapere che cosa debba intendersi per moralità. A meno, ovviamente, di non far coincidere la moralità con l’adesione più bovina a una concezione convenzionale e rigida della stessa. Ad esempio, a una concezione piccolo borghese secondo cui chiunque non fosse sposato con figli e non ambisse a un “posto fisso” e a una pensione a fine carriera dovrebbe essere tacciato di anormalità e mostrare “segni” della stessa in una qualche caratteristica corporea.

Non a caso le “gallerie d’arte” dei lombrosiani sono zeppe di ritratti di indigenti, ladri, immigrati, assassini, ribelli, rivoluzionari, artisti, spostati e altri devianti su cui “esplodono” le proprie tesi. Spesso con il tipico meccanismo della “profezia retrospettiva” che contraddistingue una certa grafologia quando attribuisce determinate caratteristiche morali a determinati tratti di penna di cui già si conosce l’autore. Allo stesso modo, lombrosiani e frenologi accordano patenti di immoralità o delinquenza a crani e bitorzoli sulla base della conoscenza del “proprietario” di quelle forme o dell’appartenenza socio-economico-culturale di quello, preventivamente valutata in forza di precise tassonomie elaborate in precedenza, ma olezzanti di pregiudizi grossolani, percepibili a miglia di distanza.

È questo l’argomento principale che lo scrittore britannico Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) avanza in un breve articolo dal titolo A Criminal Head, tratto dalla raccolta Alarms and Discursions (1911), che qui trovate nella mia traduzione. Assestando un colpo mortale alla criminologia del suo tempo, Chesterton individua nella mancanza di conoscenza morale il suo più grosso limite: non si può dire che una mandibola prognata o una “fossetta occipitale mediana” (qualsiasi cosa costituisca questo celebre oggetto culturale lombrosiano) siano senz’altro rivelatrici di una tendenza amorale o all’umore cupo, se non si ha un’idea di che cosa debba intendersi per amoralità o per infelicità. O se si giudica l’amoralità e l’umore tetro solo in base a definizioni angustamente prestabilite. Ad esempio, non si può accusare una persona senza fissa dimora di anormalità solo perché il possedere una casa in una società borghese è la normalità. Fra l’altro, si dovrebbe spiegare perché in una società borghese che feticizza il diritto alla casa, alcune persone sono prive di tale diritto. E un’analisi approfondita rimanderebbe alle responsabilità della stessa società borghese, non in grado di garantire il diritto in questione a tutti. Ma questa è un’altra storia.

Se è vero che tutti coloro che eccellono nella vita mostrano tratti di ossessività – basti pensare al tempo e alle energie assolutamente sproporzionate rispetto alla norma che le grandi personalità di tutti i tempi dedicano alle attività in cui primeggiano, dallo sport alla politica, dall’arte alla scrittura, dalla musica alla scienza – non si può qualificare tale tratto in senso patologico per poi esaltare la normalità dei mediocri che si allineano ai canoni dell’ordinarietà imposti dalla società in cui vivono. Chesterton fa l’esempio del (presunto) cranio di Robespierre, la cui conformazione suscita in un lombrosiano da operetta il giudizio di “carenza di impulsi etici”, quando, semmai, a Robespierre andrebbe rimproverato un eccesso di moralità, se non moralismo! È come riprovare la condotta ostinata di Jannik Sinner o di Cristiano Ronaldo, noti per il tempo e le forze che dedicano maniacalmente alle attività sportive in cui dominano, confrontandola con quella dell’impiegato comunale, elevato a modello incontrastato di normalità.

La situazione peggiora, se possibile, quando una determinata caratteristica fisica viene attribuita a un intero gruppo sociale – gli irlandesi, gli italiani, gli americani ecc. – venendo interpretata uniformemente in senso positivo o negativo. In questo caso, trionfa la generalizzazione su base biologica, preludio a forme di razzismo ancora oggi ampiamente diffuse e rinnovate.

Chesterton osserva che il marchio scientifico permanente del tipo criminale, il tratto trasversale che accompagna ogni giudizio negativo dei lombrosiani è la povertà. E, in effetti, i criminologi – con qualche debita eccezione – avvertono una profonda resistenza ad applicare le loro categorie ai potenti, ai milionari, a quelli che detengono il potere, soprattutto qualora ancora in vita. Se il deviante povero può facilmente essere anatomizzato, misurato, valutato, il deviante ricco difficilmente si presterebbe a tale forma di umiliazione fisica e morale. E, se anche lo facesse, il criminologo di turno saprebbe come addebitare a eccentricità ed eccezioni di vario genere comportamenti che, nel caso dei rubagalline, sarebbero da imputare senz’altro a una precisa caratteristica fisica.

Certo, oggi la criminologia è tutt’altra cosa rispetto ai tempi di Chesterton. I criminologi odierni fanno strame delle teorie di Lombroso & co., ricordandone il nome solo nei manuali di storia della disciplina. Non manca, però, di tanto in tanto, chi si dice convinto di aver trovato il “gene del male”, il “cromosoma della delinquenza”, l’“ormone del truffatore” o la “deficienza endocrinologica dello stupratore”, dimenticando che gli aspetti biologici o fisiologici hanno un carattere aspecifico, indifferenziato, e, in quanto tale, costituiscono la base per l’attività umana in genere, ma non la base per condotte umane specifiche, come quelle criminali.

In altre parole, le teste di imbecilli abbondano anche nel nostro tempo. Proprio come ai tempi di Gilbert Keith Chesterton.

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Considerazioni telefoniche sulla delinquenza minorile

Come spiegare il fenomeno delle cosiddette baby gangs e in genere dei casi di violenza e omicidio che coinvolgono i minori?

È vero che è in forte aumento e che ormai costituisce una emergenza nazionale da affrontare con rimedi straordinari?

È vero che i minori oggi sono più violenti e aggressivi di quelli di un tempo?
E come trattano l’argomento i media? Possiamo fare affidamento su ciò che dicono al riguardo? E cosa pensare delle opinioni dei “criminologi televisivi” che discettano via etere su cosa è meglio fare o non fare per “debellare” il fenomeno?

Ho tentato di rispondere a queste domande nel podcast “La telefonata all’esperto” che vi invito ad ascoltare e in cui esprimo alcune tesi eterodosse su un fenomeno di cui di discute, a mio avviso, con eccessivo sensazionalismo.

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Sociologia delle regole grammaticali

Siamo abituati sin dai primi mesi sui banchi di scuola a percepire la grammatica in senso normativo, ossia come un insieme di regole rigide e immodificabili la cui violazione provoca biasimo e sanzioni da parte di maestri e maestre. In passato, queste si traducevano in umilianti freghi rossi e blu (ricorderete: il colore rosso indicava gli errori meno gravi, il blu quelli gravi e gravissimi).

Ma anche la grammatica, come è ovvio, subisce gli attacchi del tempo e modificazioni di ogni tipo che, una volta sedimentate, diventano regole altrettanto ferree e implacabili come quelle che sostituiscono.

Per rendersene conto, basta consultare una qualsiasi grammatica del passato. Ciò che colpisce è che qualsiasi compilatore di regole grammaticali assume un atteggiamento rigorosamente normativo, spacciando per precetti intangibili quelli che, qualche anno dopo, saranno probabilmente considerati errori o solecismi.

Prendiamo, ad esempio, i Brevi avvertimenti di grammatica e aritmetica (1984, D’Auria, Napoli) di Alfonso Maria De Liguori (1696-1787), dottore della Chiesa e fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore. Questo breve scritto, composto intorno alla metà del XVIII secolo a vantaggio soprattutto dei religiosi meno istruiti, offre al lettore odierno una serie di regole sconcertanti, meritevoli, considerato gli standard contemporanei, di numerosi tratti di matita blu.

A proposito dei verbi, Liguori suggerisce di dire io leggeva o leggea, non io leggevo (p. 18); debbo e deggio, non devo; inalzare, non innalzare; sieno, non siano (p. 20).

A proposito di nomi, raccomanda abbate, non abate; abozzo, non abbozzo; avezzo, non avvezzo; malvaggio, non malvagio; sagro, non sacro; ubbidienza, meglio che obbedienza (pp. 21-23).

Si potrebbe continuare. Ciò che è importante osservare è che il tono e l’atteggiamento di Liguori rispetto a quelli che noi considereremmo errori, sono altrettanto imperiosi di quelli di molti altezzosi grammatici moderni, pronti a fustigare con sdegno chiunque osi contravvenire le regole divine da essi descritte.

Il confronto con grammatiche del passato induce nel lettore contemporaneo una sensazione di straniamento che, tuttavia, ci fa comprendere come anche le regole della scrittura sono relative a tempi e luoghi.

Alla luce di queste considerazioni, considero davvero spocchiose le sopracciglia alzate di tanti eruditi bacchettoni, disposti a linciare chi non si conforma alle regole della grammatica del momento. Un po’ di umiltà dovrebbe insegnare loro che la regola aurea che tanto strenuamente sostengono potrebbe essere contraddetta di lì a qualche anno per il semplice mutare di tempi e sensibilità.

Insomma, una certa dose di sociologia della grammatica ci renderebbe tutti più indulgenti e comprensivi.

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Il rosario come mantra

Quali sono gli effetti psicologici della recitazione del rosario sulla mente? Sebbene possa sembrare blasfemo agli occhi del credente, questo aspetto è stato indagato dalla psicologia in uno studio di qualche anno fa a cui fa riferimento l’articolo riportato sopra.

Nel 2001, il British Medical Journal ha pubblicato i risultati di una ricerca condotta a Firenze e Pavia da una equipe internazionale di ricercatori diretta da Luciano Bernardi su 23 soggetti adulti in buona salute. L’articolo ha indagato l’influenza che la recitazione di preghiere come il rosario o il mantra dello Yoga ha sul ritmo cardiovascolare e altri parametri cardiaci. I risultati suggeriscono che preghiere come il rosario (almeno quello in latino che prevede la recitazione di cinquanta Ave Maria per tre volte), se recitate sei volte al minuto, possono produrre effetti benefici sul corpo sia da un punto di vista psicologico che fisiologico. In particolare, queste preghiere rallentano il ritmo respiratorio fino a sei cicli al minuto, aumentano la concentrazione, migliorano l’ossigenazione del sangue, normalizzano la pressione, regolarizzano il battito cardiaco e riducono gli stati d’agitazione. In conclusione, gli autori suggeriscono che il rosario potrebbe essere considerato una pratica per la salute, oltre che religiosa.

Gli esiti di indagini come quella riportata sono particolarmente controversi. Essi vengono spesso citati dai credenti a conferma della bontà della religione come esperienza spirituale e fideistica. In realtà, riducono la pratica religiosa a fenomeno psicofisico, appiattando l’orizzonte religioso su quello “profano” del funzionamento della psiche e del corpo, al punto che, come nel caso della ricerca sopra citata, rosario e mantra sono assimilati l’uno all’altro indipendentemente dal diverso retroterra storico, culturale e religioso delle due pratiche.

È un equivoco che perdura da tempo e di cui troverete ulteriori testimonianze nel mio La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario.

Fonte: Bernardi, L., Sleight, P., Bandinelli, G., Cencetti, S., Fattorini, L., Wdowczyc­Szulc, J., Lagi, A., 2001, Effect of Rosary Prayer and Yoga Mantras on Autonomic Cardiovascular Rhythms: Comparative Study, “British Medical Journal”, vol. 323, n. 7327, pp. 1446-1449.

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Gli effetti deleteri dei film

Si discute da tempo immemore degli effetti dei mass media sulle fragili menti dei nostri pargoli. Sin dalla loro nascita – forse inizialmente per una forma di misoneismo connaturata all’essere umano – i mezzi di comunicazione di massa sono stati visti con sospetto e diffidenza, quasi che alla loro straordinaria efficacia comunicativa dovesse necessariamente corrispondere uno straordinario rischio intrinseco di corruzione cognitiva ed emotiva dei più giovani tra noi.

Tale sospetto ha assunto forme diverse, la più apocalittica delle quali è stata indubbiamente la cosiddetta Bullet Theory o “Teoria dell’ago ipodermico”, nata negli Stati Uniti nel periodo tra le due guerre mondiali, secondo cui, una volta esposto ai contenuti dei media, lo spettatore (o ascoltatore) è “trafitto” irresistibilmente da questi come da un proiettile e nulla può contro il potere strabordante di televisione e radio.

Al giorno d’oggi, nessuno più parla di Bullet Theory, ma le paure nei confronti degli effetti della continua esposizione dei giovani alle “trame” veicolate mediante Internet e i cosiddetti Social hanno subito una sorta di upgrade, divenendo ancora più intense. La convinzione è che i nuovi mezzi di comunicazione siano in grado di “sparare” contenuti ancora più “perforanti” rispetto a radio e televisione con conseguente catastrofe cognitiva dell’umanità intera, ormai incapace di distogliere il proprio sguardo dalle ammalianti immagini dei vari Instagram e TikTok.

Rimane, in particolare, costante nelle discussioni di esperti, opinionisti e moralisti – che spesso costruiscono le loro fortune reputazionali proprio sulle crociate da loro avviate contro i media – l’attenzione a fattori mutevolmente additati, secondo i tempi e le temperie, a responsabili dei turbamenti di adulti e adolescenti e, quindi, proposti per la gogna censoria in quanto ritenuti assolutamente malvagi. In taluni casi, questi fattori sono addirittura giudicati capaci di favorire condotte antisociali, indurre al suicidio, provocare fenomeni di aggressività e omicidi. In altri casi, a essi sono addebitati fenomeni psichiatrici o di ipersensibilità, come psicosi, schizofrenia, insonnia, pavor nocturnus. Insomma, niente di buono può scaturire dai mezzi di comunicazione di massa, indipendentemente dalla forma da essi assunta: giornali, radio, televisione o Internet.

Negli anni Cinquanta, ad esempio, lo psichiatra Fredric Wertham (1895-1981) era profondamente convinto, che i fumetti fossero un importante fattore causale della delinquenza minorile e di altre condotte antisociali. Venti anni dopo circa, il capro espiatorio di ogni male divennero alcuni brani musicali che, ascoltati al contrario, secondo alcuni critici, nascondevano al loro interno messaggi inquietanti, che invitavano al suicidio, all’adorazione di Satana o all’aggressione eterodiretta (backward masking). Si è passato poi ai videogiochi, accusati di ottenebrare infallibilmente, il cervello adolescenziale per finire con le serie TV, indiziate di creare dipendenza al pari delle più tradizionali sostanze stupefacenti.

Il problema che moralisti e opinionisti raramente riescono a spiegare è come mai i fattori nefasti di volta in volta indicati come alleati di Lucifero agiscano solo su alcuni (pochi) soggetti e non su tutti. E non sempre negli stessi modi e con la stessa intensità. Ma tant’è! Bastano due o tre casi di (presunti) effetti funesti e subito decolla la generalizzazione, la tentazione più comune tra i commentatori, e viene istituita una sorta di legge sociologica.

È proprio questo l’atteggiamento che lo scrittore britannico Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) combatte nell’articolo The Fear of the Film (1923), qui proposto nella mia traduzione: uno scritto pieno di buon senso e da riscoprire soprattutto a vantaggio di tanti massmediologi di grido (o presunti tali), troppo propensi alla facile condanna moralistica e alla facile generalizzazione.

Se un bambino decide di aggredire qualcuno con un coltello, dopo aver visto un film in cui lo stesso strumento viene usato per fini non umanitari, la colpa è del film o del bambino? Non dovremmo, in questo caso, occuparci della mente del minore e comprendere il motivo del suo gesto? E che dire dei tanti fanciulli che, come il nostro piccolo aggressore, hanno visto il medesimo film senza essere tentati di uccidere qualcuno? Eppure, la rimozione o la censura della scena filmica in cui appare il coltello viene spesso vista come la soluzione privilegiata per risolvere il problema delle reazioni anomale di alcuni spettatori. Forse perché è più facile censurare che capire. E tutto questo nonostante, nella vita quotidiana, i bambini siano esposti a numerosissimi coltelli che vedono adoperare per gli scopi più svariati, alcuni dei quali anche cruenti.

Manca la certezza del rapporto causa-effetto tra rappresentazione del coltello e comportamento aggressivo. Eppure, al minimo episodio anomalo, pure in assenza di qualunque riscontro empirico, il rapporto viene dichiarato assolutamente certo e non limitato all’episodio in questione, ma esteso immancabilmente a norma universale.

E che dire, tuttavia, dei tanti romanzi e rappresentazioni teatrali in cui il coltello è, in qualche modo, protagonista? Chesterton ricorda il Mercante di Venezia di Shakespeare in cui Shylock “brandisce un coltello per uno scopo grandemente deplorevole”. Ma tante altre opere immortali della nostra letteratura potrebbero essere citate al riguardo. Dovremmo forse censurare o purgare Shakespeare e tanti altri autori per le reazioni sconsiderate di qualche bambino alle loro trame? O dovremmo aiutarlo a capire il significato complessivo dell’opera, che evidentemente trascende i singoli oggetti che in essa appaiono?

Chesterton lo dice molto bene: “Un effetto spaventoso può essere associato a un qualsiasi altro effetto o situazione”. Quindi, piano con la censura e con i giudizi moralistici. Eppure, è proprio in questi casi che, talvolta, la sociologia precipita nel sociologismo, ossia in una ipertrofica caricatura di sé stessa, e si lancia a spron battuto verso spiegazioni nomotetiche dell’accaduto. L’aneddoto peculiare diviene, così, ferrea congiunzione astrale e come tale viene trattato da opinionisti e moralisti. Con il rischio di sguinzagliare un contagioso panico morale nei confronti di ogni oggetto a cui capiti di suscitare una seppure lieve inquietudine in un minore qualsiasi, che sia uno strumento di tortura o il sesso oppure una linguaccia di mucca.

Raccomando a ogni aspirante sociologo la lettura di The Fear of the Film, scritto oltre cento anni fa, ma ancora capace di stemperare, con il suo infinito buon senso, le letture sociologistiche che soprattutto self-styled scienziati televisivi della mente e della società ci hanno proditoriamente e sommariamente ammannito nel corso degli ultimi quarant’anni.

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Sugli effetti prodigiosi della ripetizione

Fa notare Massimo Polidoro in uno dei suoi ultimi libri che

ogni attività ripetuta modifica il nostro cervello. È un processo noto come “neuroplasticità” e indica la capacità del cervello di modificare la propria struttura nel corso del tempo in risposta all’esperienza. Questo significa che se si decide di praticare una certa attività, per esempio suonare il pianoforte, le parti del cervello legate ai movimenti delle dita sulla tastiera mostreranno maggiori livelli di attività, anche quando non si suona, e in certi casi sarà anche possibile misurare in quelle parti del cervello una crescita in termini di volume e densità (Polidoro, M., 2023, Geniale. 13 lezioni sull’arte di vivere e pensare, Fetrinelli, Milano, p. 203).

La ripetizione, che solitamente associamo alla noia e alla monotonia, è in grado di provocare i più grani cambiamenti in noi e nella nostra mente. Ma anche di promuovere le nostre migliori facoltà.

È nota la teoria di Anders Ericsson (The Role of Deliberate Practice in the Acquisition of Expert Performance, 1993) secondo cui sono necessarie 10.000 ore, pari a 10 anni, di esercizio disciplinato e ripetitivo per essere capaci di alte prestazioni in qualsiasi ambito professionale, dalla musica agli scacchi, dalla letteratura allo sport ecc.

Gli esempi sono numerosi.

Mozart è famoso per aver iniziato a comporre musica a sei anni. Tuttavia, le sue prime composizioni, spesso arrangiamenti di opere di altri compositori, non sono considerate eccezionali. Il primo concerto considerabile un capolavoro (n. 9, K 271) lo compose a ventun anni, quando si dedicava in maniera decisa alla composizione da ormai dieci anni. Anche per diventare campioni di scacchi servono quasi dieci anni. Soltanto il leggendario Bobby Fischer raggiunse quel livello in meno tempo: nove anni. Il fondatore di Microsoft, Bill Gates, era ossessionato dai computer, ma quando era studente erano macchine non accessibili ai “comuni mortali”. Per una serie di fortunate coincidenze, nel 1968, a partire dai 13 anni e per i restanti anni del liceo, riuscì a dedicarsi per migliaia di ore alla programmazione su un elaboratore della scuola (Polidoro, M., 2023, Geniale. 13 lezioni sull’arte di vivere e pensare, Feltrinelli, Milano, p. 211).

Anche le preghiere si basano spesso sulla ripetizione. Anzi, preghiere come il rosario fanno della ripetizione la loro cifra principale. Con quali effetti sulla mente e sul corpo?

Per scoprirlo rimando al mio: La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario

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I limiti della criminologia televisiva

Nella nostra epoca massmediatica, i “criminologi televisivi” esercitano un indubbio fascino.

Si tratta, di solito, di uomini e donne, (presuntivamente) esperti in una qualche disciplina o che si autoattribuiscono competenze di qualche tipo, che sono periodicamente chiamati a commentare episodi efferati di cronaca nera. L’anfitrione televisivo di turno e il pubblico li ascoltano nemmeno fossero antichi oracoli greci. Si rivolgono a loro per capire i moventi profondi, le ragioni celate degli atti criminosi su cui sono invitati a commentare. Le loro parole sono accolte con una certa definitività. Il loro verbo è quasi sacro.

Eppure, la criminologia televisiva presenta numerosi limiti.

Innanzitutto, i criminologi televisivi basano le loro teorie e spiegazioni su notizie di cronaca costruite per fini giornalistici, non scientifici. I “dati” a loro disposizione non sono solitamente diversi da quelli di cui usufruisce lo spettatore medio. Non hanno condotto ricerche secondo i metodi della criminologia. Del resto, anche se volessero, non potrebbero, dal momento che sono chiamati a commentare a sangue caldo, a tambur battente per così dire. Le loro interpretazioni, in definitiva, non sono molto diverse da quelle dell’uomo (o donna) della strada.

Un altro limite è che la criminologia televisiva serve a fare spettacolo, non a informare. Non si pone finalità accademiche, ma contribuisce al circo mediatico che solitamente circonda ogni delitto efferato. Ciò che conta è produrre effetti, sensazioni, emozioni, brividi o indignazione. Perché sono questi che fanno vendere, che rendono appetibile il prodotto televisivo.

È, poi, da aggiungere che le interpretazioni dei fatti criminosi servono spesso a consolidare stereotipi diffusi o a trovare facili teste di turco da incolpare. Se, ad esempio, un reato viene compiuto da un giovane, partirà la solita reprimenda contro “i giovani d’oggi”, accusati di ogni misfatto. La generalizzazione è frequentemente convocata dai criminologi televisivi, che sanno di trovare il gradimento del grosso pubblico. Lo stesso si può dire di categorie che attirano facile biasimo. Mi riferisco a immigrati, tossicodipendenti, alcolisti, ludopatici, pirati della strada e altri suitable enemies. Anche qui, la generalizzazione è di casa e suscita riscontri positivi degli spettatori medi.

Tornando ai giovani, serpeggia tra i commenti dei criminologi televisivi un certo ageismo di fondo. Il criminologo televisivo è, di solito, una persona matura e (si presume) saggia. Giudica dall’alto della sua posizione sociale e valuta spesso in maniera negativa i giovani, accusati di essere privi di valori e regole, nonostante sia stato egli stesso (o essa stessa) giovane. Non tiene in considerazione il fatto che i ragazzi sono soggetti in età evolutiva e che, per definizione, non posseggono un sistema di valori forte e saldamente interiorizzato. Eppure li rimprovera proprio per questo.

Allo stesso modo, non tiene conto del fatto che le condotte giovanili sono di frequente più espressive che utilitaristiche, ossia rivolte a uno scopo “serio”. Accusa, dunque, gli atti dei giovani di essere privi di senso, anche se, in realtà, un senso ce l’hanno, sebbene non quello strumentale a cui gli individui “maturi” di solito dedicano la propria vita.

Questo tipo di generalizzazione fa sì che ogni comportamento giovanile sia etichettato come predatorio, violento, aggressivo, vandalico, secondo schemi moralistici che il pubblico televisivo condivide.

In questo modo, la spiegazione psicologica o sociologica è, in realtà, una spiegazione moralistica sotto mentite spoglie. Il criminologo televisivo è un moralista, travestito da psicologo, psichiatra, criminologo ecc.

Un’altra pecca del criminologo televisivo è che chiama in causa quasi sempre spiegazioni straordinarie per crimini particolarmente efferati e quindi straordinari. Un delitto inconsueto presuppone sempre moventi inconsueti e spiegazioni, possibilmente, monocausali. Il pubblico televisivo non apprezza spiegazioni complesse. Vuole conoscere immediatamente qual è la causa “unica” dell’evento e il criminologo televisivo sarà più che lieto di accontentarlo chiamando in causa, di volta in volta, l’assenza di valori, il deficit morale, la gelosia, l’invidia, o moventi più aggiornati come il “patriarcato”. Quando non si conosce bene la causa, si scomodano moventi ontologici, legati all’essenza: il colpevole è semplicemente cattivo.

Infine, raramente il criminologo televisivo considera il significato che l’episodio ha per i protagonisti. Il suo è uno sguardo patologizzante, ossia volto alla eliminazione, non alla comprensione del fenomeno. Del resto, se così non fosse perderebbe la chance di essere reinvitato in trasmissione. Il responsabile deve essere inquadrato sempre secondo un’ottica “mostruosa”. È il diverso per eccellenza in cui il bravo borghese non deve avere agio di identificarsi.

I criminologi televisivi sono moralisti votati al trionfo dello spettacolo del male per interessi televisivi. La loro criminologia non ha nulla a che vedere con la criminologia scientifica.

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Come da un inno nacquero le note musicali

In sociologia è comune parlare di “funzioni latenti” (Merton) o di “effetti perversi” (Boudon) dell’agire sociale. Con questi termini si intende il fatto che i comportamenti degli individui producono talvolta effetti non previsti, sia desiderabili sia indesiderabili, che hanno delle conseguenze importanti sulla società. Un esempio, fornito da Boudon, riguarda l’istruzione di massa. Negli anni Sessanta del XX secolo, quando questa fu messa in atto nei paesi occidentali, l’obiettivo era che contribuisse ad aumentare la mobilità sociale attraverso, appunto, l’aumento dell’istruzione. In realtà, come oggi sappiamo, l’aumento del livello di istruzione non genera mobilità sociale. Se tutti hanno un’istruzione superiore, si crea un’inflazione di titoli che non trova corrispettivo nel numero di occupazioni superiori disponibili nella società. Si creano dunque disoccupati, aspettative frustrate e sottoccupazione.

Le conseguenze inattese, però, non sono sempre e comunque negative. A volte, possono essere positive. Lo dimostra la storia della nascita delle note musicali.

Non molti sanno che le note musicali – Do, Re, Mi, Fa Sol, La, Si – furono un “effetto perverso” di un inno religioso, Ut queant laxis, scritto da Paolo Diacono (720-799). Ut queant laxis è l’inno liturgico dei Vespri della solennità della natività di San Giovanni Battista che ricorre il 24 giugno. Ecco il testo:

(LA)

«Ut queant laxis

Resonare fibris

Mira gestorum

Famuli tuorum

Solve polluti

Labii reatum

Sancte Iohannes»

(IT)

«Affinché possano cantare

con voci libere

le meraviglie delle tue gesta

i servi Tuoi,

cancella il peccato

dal loro labbro impuro,

o San Giovanni»

Fu Guido d’Arezzo (991-1045) a ricavare le sette note a noi conosciute dalle prime sillabe di ciascun verso – Ut-Re-Mi-Fa-Sol-La – dell’inno con “Ut” che, in seguito divenne “Do”, mentre “Si” fu aggiunta solo nel 1482 da Bartolomé Ramos de Pareja (1440-1522).

Questa storia ci insegna due cose.

La prima è che le “invenzioni” spesso hanno origine da fonti e ambiti insospettabili. Chi penserebbe mai, ad esempio, di ricavare delle notazioni musicali da un inno religioso?

La seconda è che le forme culturali non nascono già “adulte” ma evolvono e si modificano nel tempo, come dimostra la storia delle note musicali (pochi sanno che “Do” prima si chiamava “Ut” e che “Si” è stata aggiunta solo in un secondo momento), ma anche la storia di importanti preghiere come l’Ave Maria e il rosario di cui parlo nel mio ultimo libro La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario, che, ovviamente, vi invito a leggere.

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