La mitologia offre diverse vicende che possono essere ascritte al meccanismo della profezia che si autoavvera, termine con il quale si intende, secondo la celebre definizione di Watzlawick, “una supposizione o profezia che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità”.
La più famosa è probabilmente la storia di Edipo, eroe della tragedia greca, che, diventato adulto, apprende dall’oracolo di Delfi che ucciderà il padre e si congiungerà con la madre. Per evitare la sinistra profezia, Edipo mette in atto una serie di comportamenti che lo portano prima ad uccidere il padre Laio e poi, dopo aver liberato Tebe dalla Sfinge attraverso la soluzione del famoso enigma, a divenire re della stessa e a congiungersi con la madre Giocasta. La profezia creduta si autoavvera mediante ciò che Edipo fa per non farla avverare.
Una vicenda meno nota, ma ugualmente “profetica” e “autoavverantesi”, è quella del leggendario ultimo re di Atene, Codro, figlio di Melanto, di cui parla anche lo scrittore greco Pausania, autore di Periegesi della Grecia, opera nota purtroppo per le sue grossolane inesattezze.
Il racconto della vicenda di Codro è sintetizzato dalla traduzione del seguente brano che è facile incontrare in diverse antologie a uso degli studenti liceali.
Anticamente vi fu una grande guerra tra Ateniesi e Spartani. Gli Spartani per la pesante annona, vennero in Attica, cacciarono gli abitanti e posero l’accampamento alla città. Allora gli Ateniesi mandarono ambasciatori per l’oracolo di Delfi e consultarono Apollo sull’esito della guerra. La Pizia, sacerdotessa di Apollo, fu interrogata dagli ambasciatori e così rispose: “Sarete vincitori, Ateniesi, se i nemici uccideranno il vostro re”. Per tale ragione, quando vennero in guerra, gli Spartani prima di ogni cosa raccomandarono ai loro soldati l’incolumità del re. Allora il re degli Ateniesi era Codro: quando seppe il responso del dio e i precetti dei nemici, cambiò la veste regia portando una veste pannosa e sacchi al collo, entrò nell’accampamento dei nemici. Qui intenzionalmente ferì con una falce un soldato degli Spartani e il soldato per l’ira uccise con la spada Codro. I Lacedemoni, quando riconobbero il corpo del re, memori dell’oracolo, se ne andarono senza scontro. E così il re Codro, per virtù andò incontro alla morte per la salvezza della patria e liberò dalla guerra gli Ateniesi.
Ciò che colpisce di questa storia è la passiva accettazione della profezia della Pizia da parte dei protagonisti e il fatto che essa si realizza proprio in virtù delle azioni intraprese da Codro e dagli Spartani. Il primo si fa uccidere per farla avverare; i secondi si arrendono senza nemmeno combattere, timorosi delle conseguenze soprannaturali annunciate dall’oracolo. Il primo la fa avverare, agendo; i secondi, astenendosi dall’azione. Il destino si compie per la compiacenza degli attori al verbo divino. Non sapremo mai quale avrebbe potuto essere l’esito dello scontro tra ateniesi e spartani se questi non avessero dato ascolto all’oracolo.
Quante volte cadiamo vittime di meccanismi simili nel corso della nostra vita quotidiana. Ci agitiamo perché crediamo che incontrare un gatto nero porti sfortuna e incappiamo in un incidente. Non partecipiamo a un concorso perché tanto “vincono sempre gli stessi” e, naturalmente, vincono sempre gli stessi (che partecipano). Siamo convinti che quella ragazza che ci piace tanto ci trovi antipatici e reagiamo allo stesso modo nei suoi confronti, incoraggiando la sua antipatia. E così via.
Dovremmo sempre ricordare che siamo noi, con le nostre convinzioni e atteggiamenti, a far avverare le “profezie” che ci riguardano. Non gli dei. Noi stessi.
La guerra non è solo violenza, propaganda e fake news. È anche superstizione.
Non a caso, insieme a sportivi professionisti, scommettitori e studenti, i soldati compaiono tra gli individui più superstiziosi in generale.
Una testimonianza in tal senso ci viene dal bel libro di Franco Cardini, Quella antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese (Mondadori, Milano, 1995, pp. 408-410).
La superstizione dei soldati e, soprattutto, dei marinai, era proverbiale; essa cominciava dagli alti gradi e si collegava a pratiche astrologiche e divinatorie comuni un po’ a tutte le sfere dell’attività umana. Del resto, l’astrologia aveva un suo ruolo preciso nella guerra: nel Medioevo e nel Rinascimento era pratica comune attendere che l’astrologo facesse «il punto» prima di attaccar battaglia o di consegnare il bastone di comando al capitano generale delle milizie; allo stesso modo, del resto, si attendeva sempre il momento astrale propizio alla partenza per un viaggio o alla fondazione d’un edificio. È rimasto famoso l’astrologo ghibellino Guido Bonatti, che spia il cielo dalla torre campanaria della chiesa forlivese di San Mercuriale in attesa del momento buono per dare ai suoi il segnale dell’attacco.
Ma a queste tradizioni, derivate da una cultura dotata d’un suo preciso statuto scientifico, ne corrispondevano altre che, in forma dimessa e popolare, perpetuavano il celebre ibis redìbis degli antichi con l’interrogazione del futuro mediante varie tecniche divinatorie tese a conoscere l’esito dello scontro che si approssimava e il propri destino in esso.
Naturalmente, la colorazione di queste antiche credenze era ormai cristiana; gli amuleti indossati per recarsi in guerra avevano forma di medagliette, rosari, scapolari; ci si armava di reliquie – da sempre, come nel pomo della spada di Rolando, usbergo arcano in battaglia – e d’immagini di santi. Erasmo da Rotterdam si sdegnava di queste manifestazioni di «follia», che riteneva dirette eredi dell’idolatria pagana:
“Fedeli corpo e anima al mio credo sono invece coloro che si dilettano nel sentire o nel raccontare storie mirabolanti inventate di sana pianta – di prodigi e miracoli, e non sanno saziarsi d’udire raccontare portenti di fantasmi, di spettri, di morti, di genietti, e altre vicende del genere: e quanto più queste fole si allontanano dalla verità, tanto più volentieri costoro le credono vere e tanto più piacevolmente se ne sentono titillare le orecchie. Predicatori e preti dal canto loro ne profittano mirabilmente non soltanto per scacciare la noia, ma anche per empire le proprie borse.
Un genere di follia simile è quello di chi si abbandona alla stolta ma allegra fiducia che, per aver visto per caso un’immagine o una gigantesca statua di San Cristoforo, quasi nuovo Polifemo, per quel giorno sia sicuro di non morire, o che, per aver rivolto alla statua di Santa Barbara la preghiera di rito, si creda certo di scamparla in battaglia.
Altri in certi determinati giorni, con offerte stabilite di statuine di cera con gran borbottare di preghiere impetrano la ricchezza da Sant’Erasmo. In San Giorgio hanno trovato un secondo Ercole, e così pure in lui hanno resuscitato Ippolito. Con religioso zelo ne adornano il cavallo con redini e campanelli, e manca soltanto che l’adorino, e con nuove offerte cerchino di guadagnarsene la benevolenza: un giuramento per il suo elmo di bronzo è ritenuto fede di re”.
Talora, la difesa magica non aveva neppure i connotati esterni del culto cristiano, e si rivelava per quel che era: appunto un oggetto magico. Si trattava di particolari preghiere-scongiuro da portare indosso – sul tipo della famosa «preghiera di Carlo Magno» – oppure dei cosiddetti brevia militum, vale a dire «brevi» (strisce di carta o più spesso di pergamena recanti iscrizioni o simboli a carattere magico, che si urtavano arrotolati o cuciti, appesi al collo) che avrebbero dovuto assicurare l’immunità in battaglia. L’uso, da parte di certi cavalieri, di una «camicia infernale» decorata di simboli magici da indossarsi sotto la corazza, e che avrebbe dovuto rendere invulnerabili, fu condannato nel 1306 da Filippo il Belio. Più tardi si sarebbe affermata la superstizione che le palle di cannone si potevano arrestare invocando – è un caratteristico caso dell’applicazione del principio di analogia – le pietre della lapidazione del protomartire Stefano. Nel Quattrocento, ricordava Jean Germain, si tendeva a ricercare l’invulnerabilità in battaglia con un altro sistema magico di antiche origini, l’astensione dalle carni: il digiuno o la continenza sessuale si ritrovano spesso, nelle società militari, come mezzi atti ad aumentare forza e valore. Anche al di sotto di certi voti cavallereschi – che infatti riguardavano spesso il vitto, le bevande, gli usi quotidiani e via dicendo – sembra di poter cogliere il ricordo di pratiche magiche d’invulnerabilità. Scongiuri e giaculatorie, connessi o no, in tutto o in parte, al cristianesimo, erano comuni contro le ferite, specie quelle da arma da lancio, e ricordano le Loricae celtiche che usano appunto un linguaggio esorcistico di tipo guerriero per invocare la protezione delle forze divine. Ancora durante il movimento vandeano, circolava del resto fra i partigiani realisti la leggenda che la bandiera bianca della monarchia preservasse dalla morte.
Se si faceva di tutto per sfuggire ai pericoli della guerra, s’impiegava in cambio la magia per esporvi il nemico: tali pratiche ricordano, forse nel loro principio di fondo, il quadro romano della devotio. Attorno al 1232, durante una guerra tra Firenze e Siena, in margine ai conflitto si svolse una specie di «guerra fra stregoni», regolamenti pagati per colpire con i loro sortilegi a base di malie e di polveri incantate le armate in campo. Atteggiamenti e pratiche del genere si sono del resto mantenuti anche molto oltre l’età preindustriale.
Si potrebbe raccontare una intera sociologia della superstizione. Per saperne di più rimando al mio recente Aloni, stregoni e superstizioni, dove un intero capitolo è dedicato all’analisi della psicologia e della sociologia della superstizione con la traduzione di un piccolo classico in argomento dell’americano Burrhus F. Skinner: Superstition in the Pigeon.
Presso politologi e opinionisti si avverte talvolta la tentazione di squalificare il nazionalismo, riducendolo a superstizione barbara di epoche passate o ad atteggiamento al più utile per tifare per la squadra di calcio della propria nazione.
In un’epoca iperglobalizzata come la nostra, il nazionalismo può apparire effettivamente come un relitto ottocentesco, un detrito di un tempo dedito a una ottusa difesa dei propri confini, un ostacolo alla fratellanza mondiale, a una configurazione politica in cui non si vive più come cittadini dell’Italia, del Brasile o della Polonia, ma come cittadini del mondo.
Eppure, ieri come oggi, il nazionalismo continua ad assolvere una funzione importante, per quanto forse discutibile. Lo mise in evidenza nel XVIII secolo il filosofo tedesco Johann Gottfried Herder (1744 – 1803), autore di celebri riflessioni sulla storia dell’umanità.
Federico Chabod attribuisce a Herder addirittura l’invenzione del termine “nazionalismo” e ricorda alcune sue parole al riguardo: «Lo si chiami pure pregiudizio, volgarità, limitato nazionalismo, ma il pregiudizio è utile, rende felici, spinge i popoli verso il loro centro, li fa più saldi, più fiorenti alla loro maniera e quindi più felici nelle loro inclinazioni e scopi».
E ancora: «La nazione più ignorante, più ricca di pregiudizi, è spesso la prima: l’epoca delle immigrazioni di desideri stranieri, dei viaggi di speranze all’estero è già malattia, pienezza d’aria, gonfiezza malsana, presentimento della morte» (cit. in Chabod, F., 1967, L’idea di nazione, Laterza, Bari, p. 48).
Il nazionalismo, dunque, come pregiudizio e ignoranza; ma un pregiudizio e un’ignoranza “utili” a rendere felici i popoli e farli sentire uniti. Un po’ come il calcio: manifestazione irrazionale e volgare, secondo alcuni, in grado di tenere unita un’intera nazione… almeno per il tempo di una partita.
Come il virus è un fenomeno che non interessa solamente il virologo o l’epidemiologo, così il dolore non è qualcosa di competenza esclusiva del medico o del fisiologo. È noto da tempo che modelli psicologici, sociali, economici e culturali incidono sulla fisiologia umana, condizionando l’esperienza del dolore, in cui rientra non solo la sensazione dolorosa, ma anche gli stati emotivi e psicologici a essa collegata. Nelle attività fisiologiche dell’uomo, i modelli culturali e sociali hanno una parte tanto importante che, in determinate situazioni, possono addirittura svolgere un’azione contraria ai bisogni fisiologici, determinando l’atteggiamento e le reazioni nei confronti del dolore provocato da malattie e ferite.
Si pensi, ad esempio, al dolore inflitto nel corso dei riti iniziatici, stoicamente superato dai neofiti per accedere al loro nuovo status sociale, nonostante l’indubbia intensità dello stesso. Oppure, al contrario, alla reazione violenta e talvolta inattesa di taluni che subiscono la puntura di una siringa o di uno spillo, a dispetto della tenuità della sofferenza causata dall’ago o dallo spillo.
La sociologia ha da tempo rivelato che il dolore, come altri fenomeni fisiologici, acquista uno specifico significato sociale e culturale che determina le reazioni a esso. Quindi, individui appartenenti a culture diverse reagiscono in maniera diversa al dolore. Ad esempio, in passato il dolore delle doglie del parto era considerato, anche per la nota “legittimità” fornita dalla condanna biblica (Genesi 3,16: «Alla donna disse: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”» Bibbia CEI), qualcosa di “naturale”, “inevitabile”, da sopportare con pazienza. Anzi, un vero parto non era tale senza le doglie. Oggi, l’“epidurale” e altri metodi analgesici permettono di annullarne gli effetti quasi completamente, almeno nelle società occidentali avanzate, e il dolore del parto è considerato innaturale e da evitare il più possibile.
Tra le variabili culturali sono da considerare, ovviamente, anche variabili relative alla classe sociale e occupazionale di appartenenza, all’istruzione, alla religione ecc. Come abbiamo visto, la legittimazione religiosa può consentire di assegnare al dolore un significato salvifico, iniziatico, di prova imposta dalla divinità, di viatico a una condizione migliore, di “offerta” al soprannaturale. Significati che rendono più sopportabile il dolore e consentono di attribuirgli valenze positive. L’istruzione permette di attribuire significati corretti al dolore, riconducendolo nell’ambito della giusta cornice medica di riferimento e di evitare stati ansiosi duraturi. Infine, il medesimo dolore può avere conseguenze diverse, in termini lavorativi, su un operaio addetto a lavori manuali e su un avvocato: nel primo caso, potrebbe significare l’impossibilità di continuare a lavorare; nel secondo, solo uno spiacevole contrattempo, niente affatto inabilitante.
Tra i testi di psicologia e sociologia del dolore ormai classici, è opportuno segnalare “Relationship of significance of wound to pain experienced”, pubblicato nel 1956 da Henry Knowles Beecher (1904–1976) medico, anestesista e filosofo della medicina americano. In esso, Beecher, già noto per i suoi studi sull’effetto placebo, dimostra empiricamente che il significato che la persona sofferente attribuisce al dolore determina la sua esperienza di questo, incidendo sul livello e la gravità della percezione della sofferenza.
Si tratta di una conclusione densa di importanti implicazioni sia teoriche sia pratiche, ancora oggi “incorporata” nella prassi medica di tutto il mondo.
Vi invito a leggere qui l’intero articolo di Beecher (per la prima volta tradotto in italiano) con una mia articolata introduzione, che contestualizza la tematica del “significato del dolore” connettendola agli studi di altri importanti autori.
Un banco di prova interessantissimo per i cultori delle scienze psicologiche e sociologiche e per chi intende conoscere perché il dolore non è un fatto puramente fisiologico.
“La bellezza salverà il mondo!”. “Le arti spazzeranno via la guerra”. “La cultura ci darà la vittoria”.
In tempi di guerra, sono frequenti gli appelli alla letteratura, alla pittura, al cinema, all’arte in genere, in quanto elementi redentori, agenti molto più efficaci delle armi per “donare” la pace al mondo offeso.
Si crede comunemente che i tiranni zittiscano l’arte durante la guerra e facciano di tutto per rimuoverla dai consessi umani pur di far prevalere l’irrazionalità dei loro sforzi bellici. Niente di più falso. Quando c’è la guerra, tutte le arti sono poste al suo servizio, anche se spesso non ce ne accorgiamo.
Lo rivela, in un passo che è opportuno citare per intero, lo storico britannico John Rigby Hale, richiamando la nostra attenzione su una triste verità:
Nella pinacoteca di Torino è esposta una delle più menzognere allegorie di quell’epoca (il XVI secolo). Dipinta da Lucas de Heere, rappresenta il destino delle sette arti liberali in tempo di guerra. Esse ci vengono mostrate addormentate, in bel disordine, sul pendio di una collina: nella valle sottostante è in corso una battaglia, mentre dal consiglio degli dèi giunge Mercurio con un messaggio di pace, per comunicare alle arti che possono ridestarsi. Nella realtà, Mercurio avrebbe trovato la collina abbandonata e le sue amabili colleghe impegnate fino al collo nella battaglia: la Retorica intenta a incitare i soldati con discorsi e manifesti, la Matematica occupata a schierare le truppe secondo moduli numerici, la Musica a eccitarle alla battaglia con pifferi e tamburi (incoraggiata in ciò da una concezione che identificava la guerra con l’armonia musicale); l’Architettura a dare il tocco finale a una fortezza, l’Astronomia a prestare un cannocchiale al generale favorito, la Grammatica intenta a prendere appunti per celebrare la vittoria, e la Filosofia a far lo stesso per giustificarla (John Rigby Hale, Eserciti, flotte e arte della guerra, in AA.VV., Storia del mondo moderno. La Controriforma e la rivoluzione dei prezzi 1559-1610, a cura di Jean Olivia Lindsay, vol. III, pp. 213-214, citato in Cardini, F., 1995, Quella antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Mondadori, Milano, p. 438).
Ancora oggi, queste parole sembrano vere. L’arte non dorme durante la guerra, ma combatte al fianco di soldati e cannoni, che celebra orgogliosa con tutta la sua creatività.
Certo, è sempre possibile contrapporre all’arte guerriera, l’arte della pace. Credere però che letteratura, pittura e filosofia languiscano, ridotte al silenzio dal rumore dei proiettili e delle palle di cannone è una menzogna su cui non si può tacere.
A volte la bellezza non salva il mondo. Lo distrugge.
C’è nella nostra epoca una forte pressione sociale a conformarsi a standard fisici e atletici piuttosto esigenti, la cui soddisfazione richiede un impegno attivo e continuo nel tempo e che viene data per scontata. Tali standard sono, infatti, incarnati da attori/attrici, atleti/atlete, cantanti, assunti a modelli da imitare, rispetto ai quali ogni differenza viene vissuta come una mancanza, carenza, deficienza, incompetenza.
È indubbio che praticare un’attività fisica sia una buona cosa. L’esercizio fa bene alla salute. E molto esercizio fa molto bene alla salute. Ma ciò non significa che enormi quantità di esercizio facciano enormemente bene al corpo. A un certo punto, il troppo inizia a danneggiare la nostra fisiologia a livelli che spesso ignoriamo.
Come rivela Robert Sapolsky, autore del fortunato Perché alle zebre non viene l’ulcera? (Castelvecchi, Roma, 2014), «gli uomini che svolgono enormi quantità di esercizio fisico, come i calciatori professionisti e i corridori che percorrono più di 70-90 chilometri a settimana, hanno meno [ormoni] LHRH, LH e testosterone in circolo, testicoli più piccoli e meno sperma funzionale. Inoltre, hanno livelli più alti di glicocorticoidi nel sangue, anche in assenza di stress (un simile calo della funzione riproduttiva è riscontrabile in uomini con dipendenza da oppiacei)».
Inoltre, «atleti trentenni che corrono dai 70 ai 90 chilometri a settimana possono ritrovarsi con le ossa decalcificate, una minore massa ossea e un maggior rischio di fratture da stress e di scoliosi (una curvatura laterale della colonna vertebrale), ovvero con un’ossatura simile a quella dei settantenni».
Ciò vale anche per le donne: «Circa la metà delle podiste professioniste soffre di irregolarità mestruali, e le ragazze molto atletiche raggiungono la pubertà più tardi del solito. Uno studio condotto sulle quattordicenni, per esempio, ha rivelato che circa il 95% dei soggetti aveva già avuto le prime mestruazioni, mentre lo stesso valeva solo per il 20% delle ginnaste e per il 40% delle podiste».
Insomma, l’esaltazione irrazionale dell’aspetto fisico può produrre effetti contrari a quelli desiderati, quando la ricerca della perfezione del corpo a ogni costo si traduce in un corpo usurato, piegato, danneggiato, precocemente invecchiato. È il trionfo dell’enantiodromia di cui parlava Eraclito, ossia del mutare delle cose nel loro opposto.
Pensiamo che nella nostra epoca tutto proceda in maniera compiutamente lineare e razionale. I paradossi della forma fisica a tutti i costi ci rivelano che le cose non stanno in questi termini e che spesso modelli troppo esigenti di vita ci fanno regredire a forme subnormali di esistenza
Fonte: Sapolsky, R. M., 2014, Perché alle zebre non viene l’ulcera?, Castelvecchi, Roma, p. 113.
La guerra trasforma. Trasforma le persone in amici e nemici; le unioni in divisioni; il nostro in sempre-buono, il loro in sempre-cattivo; i confini in baluardi da difendere; la storia in un racconto che razionalizza e giustifica il conflitto. I nostri sono sempre più nostri; gli altri sempre più altri. Ciò che prima era attraente perché esotico diventa improvvisamente rancido e disgustoso. Tutto ciò che appartiene a noi, anche se non ci piace, diventa l’unica cosa che conta, l’unico tesoro da preservare, il “valore” per eccellenza. Non esistono più mezze misure: tutto appartiene a un polo o all’altro.
La guerra porta semplificazione. Forse è per questo che piace agli stolti. Agli stolti piacciono le cose semplici; agli stolti non piacciono i numeri superiori al due. E così il mondo si offre a una prepotente lettura binaria. Niente più complessità astruse. I libri sono facili da leggere, ora. E abbondano di figure e immagini: quelli della propaganda.
Non valgono i visi sorridenti, se sono quelli del nemico. Non vale l’intelligenza del nemico, le conquiste ottenute, i benefici apportati all’umanità, la bellezza delle sue opere d’arte o letterarie. Il nemico è nemico e basta e, se hai qualche dubbio, fattelo passare, se no rischi di essere accusato di tradimento. E se prima non ti piaceva uccidere e ti dicevano che uccidere era una cosa brutta, ora ti dicono il contrario: il sangue sparso del nemico è cosa buona e giusta e fa di te un eroe. La repulsione del sangue altrui, invece, fa di te un pusillanime. E “pacifista” diventa improvvisamente una parolaccia. “Pacifisti di merda” gridano anche i preti.
Quindi, se il nemico è il russo, anche la vodka e il caviale sono tuoi nemici, Tolstoj (che era un pacifista) e Dostoevskij diventano illeggibili, censurabili, mentre i turisti russi diventano potenziali spie da rimandare in patria (la loro).
La guerra trasforma. E trasforma tirando fuori il peggio di noi. Lo diceva il grande umanista Erasmo da Rotterdam (1466 o 1469 – 1536) in un brano del suo Lamento della pace:
[…] gran parte della pace consiste nel desiderarla sinceramente. Quanti hanno a cuore per davvero la pace colgono a volo ogni occasione per instaurarla; se ci sono ostacoli, li aggirano o li smussano; sopportano dure prove, purché un bene così grande rimanga intatto. Oggi, invece, costoro vanno in cerca di pretesti di guerra, tolgono di mezzo o fingono magari di ignorare ciò che indurrebbe alla concordia, amplificano ed esagerano quanto spinge alla guerra. Ho vergogna a riferire da che razza di futilità suscitano così immani tragedie e quanto minuscole siano le scintille con le quali provocano le catastrofi. Allora le offese patite tornano in mente a schiera e ognuno amplifica in cuor suo il proprio danno, ma nel contempo cade in una dimenticanza profonda dei benefici ricevuti, sicché giureresti che vogliono la guerra a ogni costo. E spesso è un privato interesse dei principi quello che trascina il mondo a prendere le armi, mentre in realtà la causa di guerra dovrebbe essere più che mai di interesse pubblico. Se poi non c’è causa di sorta, i motivi di rivalità se li inventano, abusando dei nomi dei paesi per attizzare l’odio: così i nobili, e anche taluni sacerdoti, rafforzano la plebe stolta nell’errore, per distorcerlo poi a proprio vantaggio. Così l’Inglese è nemico del Francese per il solo motivo che quello è Francese, lo Scozzese detesta l’Inglese solo perché è Scozzese, il Tedesco è in rotta col Francese, lo Spagnuolo con entrambi. Quale malvagità!
Quale malvagità che l’Ucraino detesti il Russo e il Russo l’Ucraino. Ma l’odio è l’essenza della guerra. È ciò in cui la guerra ci trasforma. La guerra ci trasforma in portatori di odio.
Ciclicamente, in occasione di eventi bellici o conflitti sanguinosi, commentatori e opinionisti rispolverano la vecchia equazione guerra=malattia mentale. La guerra, secondo questa interpretazione sempre pronta all’uso, sarebbe iniziata da “malati di mente” e sarebbe del tutto irrazionale: nessun individuo sano di mente, infatti, dichiarerebbe mai guerra a un altro paese, di conseguenza chi lo fa deve avere qualche rotella fuori posto.
Non sorprende, allora, che, anche in occasione dell’invasione dell’Ucraina da parte dei russi di Putin, ci si chieda insistentemente se Putin sia folle, se esibisca pericolosi sintomi di long covid, se nella sua mente alberghi una “realtà parallela”, se stia seguendo la cosiddetta “teoria del pazzo” (colpire l’avversario con violenza inaudita dando fondo a reazioni irrazionali). Negli Stati Uniti l’intelligence sarebbe al lavoro per valutare lo stato di salute mentale del leader russo. È prevedibile che panel di psichiatri di tutto il mondo si pronunceranno presto sulle sue condizioni psichiatriche. Seguiranno diagnosi, articoli, saggi e manuali. Magari, coronate dalla coniazione di una nuova categoria di disturbo mentale.
Da sempre, etichettare le idee dell’avversario come folli è una strategia per privarle di significato, riducendole a deliri mentali indegni di considerazione. Questa strategia serve, da un lato, a condannare inevitabilmente il nemico, dall’altro, a disinnescare qualsiasi tentativo di comprenderne motivazioni e obiettivi, soprattutto se sgradevoli. Si tratta di una tattica miope che finisce con il demonizzare psichiatricamente l’altro, rinunciando a comprenderlo e abdicando alla ragione. Errore madornale che dà l’illusione di capire, ma condanna all’incomprensione più nera.
L’equazione malattia mentale=criminalità è peraltro smentita da tempo dalla criminologia.
A dispetto di quanto si ritiene comunemente, la ricerca criminologica e le statistiche della criminalità hanno più volte dimostrato che (1) esiste una debole correlazione, in genere, fra malattia mentale e pericolosità sociale; che (2) i malati di mente nel complesso non compiono in proporzione al loro numero più reati rispetto agli individui normali e che (3) la maggior parte dei reati compiuti da malati di mente sono di modesto allarme sociale (oltraggi, furti, ingiurie, danneggiamenti) piuttosto che reati gravi o reati contro la persona.
Non solo. I malati di mente sono più spesso vittime che autori di atti criminali, oltre che di discriminazioni, pregiudizi e stereotipi.
Il luogo comune del “dittatore pazzo” è profondamente nocivo. Inganna chi cerca spiegazioni. Mistifica il dibattito sulla guerra. Condanna all’incomprensione. Anche se è tanto comodo e facile.
Che impatto ha avuto il Covid su matrimoni, unioni civili e separazioni? L’ultimo report ISTAT su “MATRIMONI, UNIONI CIVILI, SEPARAZIONI E DIVORZI | ANNO 2020” offre una risposta su base statistica a questa domanda, a cui non è semplice rispondere in quanto è forte il rischio di considerare la pandemia come l’unica causa dei fenomeni in questione.
I dati ISTAT del 2020 sui matrimoni evidenziano “un crollo di portata eccezionale che ha quasi dimezzato il numero delle nozze in un solo anno: sono stati celebrati 96.841 matrimoni, 87 mila in meno rispetto al 2019 (-47,4%)”.
È evidente che la dimezzamento hanno contribuito le pesanti restrizioni imposte dalla pandemia. Basti pensare a misure di contenimento quali il divieto di assembramenti e l’imposizione di un numero massimo di persone in caso di eventi. Ulteriori elementi a sfavore delle nozze si sono aggiunti, poi, a seguito del dispiegarsi degli effetti sociali ed economici indotti dalla crisi sanitaria.
Secondo l’ISTAT, “il crollo del 2020 accentua drammaticamente la tendenza alla diminuzione della nuzialità che si osserva da oltre quarant’anni, legata a profonde trasformazioni sociali e demografiche. Sin dalla metà degli anni Settanta si è assistito sia alla posticipazione dell’età al primo matrimonio sia alla progressiva diffusione delle libere unioni”. In questo senso, il Covid ha semplicemente funto da catalizzatore di una tendenza già in atto: non un drammatico dietrofront, dunque, ma una accelerazione di processi già in corso.
La pandemia ha avuto un impatto, anche se contenuto, pure sull’andamento dell’instabilità coniugale, soprattutto nel periodo delle chiusure degli uffici e delle restrizioni alla mobilità. Infatti, nel 2020, le separazioni sono state complessivamente 79.917 (-18,0%). Nello stesso anno i divorzi sono stati 66.662, il 21,9% in meno rispetto al 2019 e il 32,7% in meno nel confronto con il 2016, anno di massimo relativo (99.071 divorzi).
La causa della riduzione di separazioni e divorzi sta dunque in un fattore “burocratico”, effetto indiretto della pandemia. E pensare che qualcuno, all’inizio dell’epidemia, vaticinava un aumento esponenziale di separazioni e divorzi a causa della forzata coabitazione di coniugi in crisi che avrebbe condotto a una situazione esplosiva e intollerabile.
Vedremo se queste tendenze regressive si consolideranno nel tempo o se sono da considerarsi puramente congiunturali. Come è evidente, però, i fenomeni sociali, come matrimoni e separazioni, non sono riconducibili a un’unica causa diretta: perfino un evento “apocalittico” come una pandemia finisce con il produrre determinati effetti più in maniera mediata che lineare.
Harry Harlow (1905-1981) è ancora oggi uno degli psicologi più citati al mondo. I suoi esperimenti sono presenti in ogni libro di psicologia e non esiste probabilmente studente della disciplina che non si sia confrontato prima o poi con le sue teorie.
Harry Harlow fu anche uno degli psicologi più singolari che la storia ricordi. Innanzitutto, per ciò che decise di studiare. Prima di lui, pochi avevano eletto l’amore a oggetto di analisi e pochissimi avrebbero osato inserire la parola all’interno del titolo di un articolo accademico. Al più avrebbero scelto la parola attachment (“attaccamento”, “affetto”). Invece, il titolo dell’articolo di Harlow più noto è addirittura The nature of love (1958). Pretenzioso, oltre che singolare. Non solo. Contrariamente alla tendenza accademica ad assegnare nomi “neutri” ed etimologicamente greci o latini a ciò che accade nella mente umana o agli strumenti per esaminarla, Harlow non disdegnò termini poco convenzionali, se non scandalosi, quali rape rack (“ruota dello stupro”) per designare uno strumento congegnato per forzare l’accoppiamento sessuale tra animali; iron maiden (noto strumento di tortura), per indicare un aggeggio per tormentare le “madri surrogate” (ci torneremo fra poco); pit of despair (“fossa della disperazione”) per riferirsi alla camera di isolamento in cui teneva i suoi soggetti sperimentali. Infine, come vedremo tra poco, non ebbe alcuno scrupolo ad utilizzare animali per i suoi esperimenti, diversi dei quali non furono certamente felici di prendervi parte.
Ma torniamo all’inizio. Come detto, Harlow fu uno dei primi a indagare l’amore da un punto di vista sperimentale. Fino a quel momento, come egli stesso riconobbe, l’amore era stato appannaggio di poeti e romanzieri. Non solo. Sebbene chi parla di amore lo faccia di solito in riferimento ai sentimenti tra adulti, Harlow preferì dedicarsi a esplorare l’amore tra madre e figli nella convinzione che ciò potesse illuminare un aspetto fondamentale della dimensione umana.
La posizione sostenuta dagli psicologi e dai sociologi dell’epoca di Harlow era che le pulsioni fondamentali dell’uomo fossero la fame, la sete, il sesso e l’eliminazione del dolore, mentre l’amore e l’affetto figuravano tra gli impulsi secondari. Convinto del contrario, Harlow indagò sperimentalmente l’importanza delle variabili stimolo che determinano la risposta affettiva nel neonato.
Non potendo condurre esperimenti sui piccoli degli umani (per ovvie ragioni, Harlow decise di utilizzare piccoli macachi reso di età compresa tra i due e i dieci giorni di vita. I macachi venivano separati dalle madri tra le sei e le dodici ore dopo la nascita e alimentati con un biberon, che, a dire dello psicologo, garantiva un nutrimento maggiore di quanto avrebbero potuto fare le genitrici (forse solo un modo per svincolare la propria coscienza).
Harlow si accorse che i piccoli macachi sviluppavano un attaccamento affettivo nei confronti dei panni di stoffa collocati nelle gabbie per ricoprirne il fondo al punto che, se venivano rimossi, gli animali si infuriavano. Harlow notò anche che, se il fondo della gabbia era costituito da una semplice rete metallica, le scimmie sopravvivevano a stento nei primi cinque giorni di vita e talvolta morivano. I panni di stoffa agivano da oggetti transizionali che offrivano enorme sollievo psicologico in un contesto deprivato di stimoli confortanti.
A questo punto, Harlow decise di studiare lo sviluppo delle risposte affettive delle scimmie neonate nei confronti di madri articificiali. Furono costruite, dunque, delle “madri surrogate”, costituite da un blocco di legno, sormontato da una testa antropomorfa, ricoperto di gomma spugnosa e avvolto in un panno di cotone spugnoso morbido con una lampadina sul retro a irradiare calore. Una protuberanza sul petto agiva da succedaneo del seno. In alternativa, il corpo poteva essere composto da una rete metallica, che rendeva più duro il contatto con la madre artificiale.
Harlow costituì vari gruppi sperimentali e di controllo. In alcune situazioni, la madre “dura”, a differenza di quella “morbida”, era dotata di un “seno” da cui i piccoli potevano trarre alimento. In altre, la situazione era opposta. A volte, entrambe erano dotate di “seno”, altre volte nessuna delle due.
In questo modo, misurando il tempo trascorso dai piccoli con ciascuna delle madri surrogate, Harlow scoprì che, indipendentemente da dove fosse collocata la fonte di nutrimento, il piccolo passava gran parte del suo tempo con la madre “morbida”. In altre parole, la gratificazione principale non era dovuta all’allattamento, ma al contatto corporeo. Harlow concluse che la funzione principale dell’allattamento in quanto variabile affettiva è quella di assicurare contatti corporei frequenti e intimi tra l’infante e la madre. In altre parole, la scimmia e l’uomo non vivono di solo latte, ma hanno bisogno di affetto. La funzione rassicurante della madre “morbida” emerse anche dal fatto che i piccoli di reso si abbarbicavano a questa, non alla madre metallica, quando erano esposti a stimoli paurosi.
Hralow riuscì a dimostrare, dunque, che l’affetto non è un impulso secondario e trascurabile, ma una dimensione centrale nell’evoluzione degli esseri viventi. Più o meno nello stesso periodo, altri autori giunsero alle medesime conclusioni. Ricordiamo René Spitz (1887-1974), il quale, nei suoi studi sui bambini deprivati di stimoli, elaborò la teoria della “depressione anaclitica” e descrisse i comportamenti disfunzionali dei bambini che vengono separati dalla persona che si prendeva cura di loro. Ricordiamo anche John Bowlby (1907-1990) e i suoi studi sul legame madre-bambino.
Nonostante la loro importanza scientifica, gli esperimenti di Harlow risentono, tuttavia, di limiti etici che renderebbero oggi impossibile la loro esecuzione. L’isolamento precoce inflitto ai piccoli di reso per periodi lunghi anche anni provocò in essi comportamenti anomali come sguardi nel vuoto, stereotipie, automutilazioni. In non pochi casi, alcune scimmie morirono per anoressia emotiva; altre ebbero conseguenze devastanti già nel breve periodo. Secondo alcuni studiosi, le reazioni pubbliche agli esperimenti di Harlow stimolarono la crescita della sensibilità animalista negli Stati Uniti. Paradossalmente, lo stesso Harlow riconobbe che «nella maggior parte dei casi gli esperimenti non meritano di essere fatti, e i dati ottenuti non meritano di essere pubblicati» (H.F. Harlow, Journal of Comparative and Physiological Psychology, 1962). Come dire: uno spreco di vite animali per conclusioni che avrebbero potuto essere tratte con poco.
Harlow difese sempre le sue ricerche dalle accuse di crudeltà. Del resto, a quei tempi, i codici etici in psicologia non esistevano ed è facile disapprovare la sua condotta a distanza di tempo. Come è facile criticarlo per aver dimostrato l’ovvio, ossia che gli esseri umani hanno bisogno di calore e affetto fin dalla nascita. Psicologi e sociologi studiano spesso l’ovvio. A volte, ne confermano l’ovvietà; altre volte ne mostrano l’infondatezza. Per Harlow le sue scoperte dimostravano i limiti dell’approccio comportamentista e psicoanalitico dominanti: le persone non erano tutte “rinforzi e pulsioni sessuali”. Esiste ben altro. E grazie, fra l’altro, a Harlow lo sappiamo.
Restano le immagini e i video desolanti e commoventi dei piccoli macachi reso alle prese con le loro madri artificiali. Immagini che, credo, prevarranno nella nostra mente più di qualsiasi possibile utilità scientifica potremo attribuire all’attività di Harry Harlow.
Riferimento: Harlow, H. F., 1958, “The nature of love”, American Psychologist, vol. 13, n. 12, pp. 673–685.
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