In un libro pubblicato nel 1969, The Crime of Punishment, lo psichiatra e criminologo Karl Menninger (1893-1990) offre questa riflessione: «Ritengo che il danno complessivo inflitto alla società da tutti i reati commessi da tutti i criminali detenuti non sia uguale a quello inflitto alla società dai reati commessi contro di loro».
Quando viene commesso un crimine, il desiderio di tutti è quelli di punire l’autore del reato, dosando la severità della punizione in ragione della gravità del reato. Non ci interessa quello che accade al criminale detenuto, né tantomeno le ripercussioni che ciò che gli accade avrà su di lui e sulla società nel complesso. Ci interessa semplicemente che sia soddisfatta la nostra voglia di punizione, che è, in realtà, una voglia di vendetta camuffata nemmeno tanto bene.
Così, prosegue Menninger, «c’è un crimine che tutti noi continuiamo a commettere, ripetutamente. […] Commettiamo il crimine di condannare alcuni nostri simili applicando loro l’etichetta di “criminale”. E, dopo di ciò, li obblighiamo a subire un’esperienza abbrutente e disumanizzante».
L’accusa di Menninger è straniante: i reati commessi nei confronti di chi è in prigione sono più dannosi alla società dei reati da loro commessi e per i quali sono condannati alla pena del carcere. Se, dunque, riuscissimo a resistere alla tentazione di soddisfare il nostro desiderio di vendetta camuffato, riusciremmo ad avere una società migliore in cui la risposta al crimine non è un altro crimine, ma un atto di vera giustizia.
Per Menninger, il dolore e la disperazione che affliggono tanti nostri simili nella società potrebbero essere evitati soprattutto attraverso una efficace opera di prevenzione della sofferenza non necessaria alla fonte, prima che gli individui prendano o siano costretti a prendere la strada sbagliata.
Menninger era convinto che buona parte del crimine e della malattia mentale possano essere prevenuti modificando l’ambiente sociale degli individui e fornendo loro sostegno emotivo, soprattutto durante l’infanzia. Infatti, l’io sottoposto a uno stress gravoso, prolungato e inaspettato, nello sforzo di mantenere l’equilibrio delle sue strutture, del suo funzionamento, perseguendo il massimo possibile di aderenza alla realtà, pone in essere vari tipi di meccanismi di relazione, uno dei quali può consistere nella scarica caotica e disordinata di aggressività per cui la personalità viene, per così dire, sommersa al punto da disorganizzarsi.
Evitare questa disorganizzazione deve essere il compito della criminologia, ma anche dell’azione della società nei confronti dei suoi membri; membri, tuttavia, che sembrano più impegnanti a reclamare vendetta che a prevenire. Forse perché la vendetta è più appagante, da un punto di vista emotivo, della prevenzione.
Secondo il dizionario della Treccani, “stupido” significa innanzitutto “preso da stupore, attonito, sbalordito; che è in una condizione d’incapacità o insensibilità indotta da meraviglia, sorpresa, o da altre cause fisiche o morali”. Lo stesso dizionario riconosce, tuttavia, che il significato più comune di “stupido” è “che ha, o mostra, scarsissima intelligenza, lentezza e fatica nell’apprendere, ottusità di mente” (https://www.treccani.it/vocabolario/stupido/).
Se “stupido” significasse semplicemente “poco intelligente” o “lento a comprendere”, non ci sarebbe altro da aggiungere. La realtà è che il termine viene adoperato secondo una varietà di significati per lo più elusivi, eclettici, indeterminati, dipendenti dall’uso di ogni singolo parlante. Si può dire, a ragione, che ognuno di noi adopera la parola in modo idiosincratico per designare un complesso di comportamenti o idee che non necessariamente designano scarsa intelligenza, ma spesso semplicemente diversità, distanza dal proprio punto di vista, difformità di pensiero, incomprensione, ambiguità, oscurità concettuale, ostinazione intellettuale, inefficacia, inadeguatezza ecc.
Quella di “stupidità” può essere anche un’arma retorica per screditare, denigrare, ridicolizzare l’avversario, indipendentemente dal fatto che questi sia poco o molto intelligente. Questa pluralità potenziale di usi e significati spiega perché filosofi, psicologi moralisti e scrittori si siano tanto affannati a discutere di stupidità, spesso dandone per inteso il significato e argomentando in base a personali punti di vista.
In un breve e fortunato divertissement di qualche decennio fa, lo storico dell’economia Carlo Cipolla (1922-2000) espose in maniera assiomatica le sue cinque leggi fondamentali della stupidità umana. Esse sono:
1) Sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione.
2) La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona.
3) Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita.
4) Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare, i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore.
5) La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista.
Corollario: lo stupido è più pericoloso del bandito (ossia, di chi compie un’azione dalla quale trae un vantaggio causando una perdita ad altri) (Cipolla, C. M., 1988, Allegro ma non troppo, Il Mulino, Bologna, pp. 41-83).
Alle cinque leggi di Cipolla, contrappongo altre cinque leggi – o, più modestamente, proposizioni, suggestioni, proposte – che possono costituire la base per una riflessione sociologica sulla stupidità che sfugga al moralismo e alla supponenza con cui abitualmente il tema viene affrontato. Si tratta di proposizioni che rovesciano completamente la prospettiva di Cipolla, condannandola ovviamente alla “stupidità”. Vediamo perché.
1) Sempre ed inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione.
Al contrario di quello che afferma Cipolla, ognuno di noi tende spontaneamente, anche per ragioni cognitive, a ritenersi più giudizioso, sensato, sapiente, equilibrato, ragionevole degli altri. In definitiva, più in gamba, più furbo, più intelligente, più capace del prossimo. Gli esseri umani, contrariamente a quanto ritiene Cipolla, tendono costantemente e sistematicamente a sopravvalutare le proprie capacità e a ritenere gli altri più stupidi in generale. Gli psicologi definiscono questa particolare inclinazione della mente, o bias, overconfidence (in italiano, “sicumera”) e affermano che non si tratta né di arroganza né di presunzione (non è quindi un “difetto morale”), ma di una precisa tendenza della psiche. Una conseguenza di tale bias è la facilità con cui sovrastimiamo la stupidità degli individui che ci circondano (come fa Cipolla), aderendo a una visione stupidocentrica della realtà che, in ultima analisi, ha poco a che vedere con la realtà.
Quello che certamente sottovalutiamo, invece, è il potere delle etichette (labelso tags, in inglese) e delle definizioni; in particolare, delle etichette e delle definizioni che conferiscono all’altro lo status di stupido. Spessissimo non ci rendiamo conto di come tali etichette, disinvoltamente distribuite a chi è intorno a noi, abbiano effetti devastanti sulle persone. Ad esempio, se definiamo sistematicamente “stupido” nostro figlio non dovremmo poi meravigliarci se questi effettivamente si sentirà e si comporterà da stupido. Se ingiuriamo continuamente con lo stesso epiteto il nostro collega o collaboratore, è verosimile che questi avvertirà un profondo senso di demotivazione e frustrazione in ambiente lavorativo che, in ultima analisi, si ritorcerà a sfavore del livello di produttività. Gli effetti dell’applicazione di quest’etichetta riguardano anche chi la applica che si vedrà progressivamente isolato, emarginato, disprezzato e odiato dai suoi simili.
Perché allora questa prima legge di Cipolla, come del resto anche le altre, ha riscosso tanto successo? Il buon esito della definizione dello storico sta nel fatto che essa offre al lettore l’illusione di far parte di una élite di benpensanti, di una schiera di non stupidi, la cui unica imperfezione è quella di sottovalutare il numero di individui stupidi in circolazione. Corollario di questa “legge” è che lo stupido è incontestabilmente sempre l’altro. Raramente ci consideriamo stupidi. Raramente ci autodefiniamo stupidi. È sempre qualcun altro a farlo. È sempre qualcun altro a essere etichettato come “stupido”. La legge di Cipolla ha, dunque, successo per il suo valore rassicurante, consolatorio. Essa consente al lettore di annuire vigorosamente, tra vari sospiri di conferma, all’attestazione della stupidità altrui e di illudersi che, per il semplice fatto di essere tra i lettori delle cinque leggi di Cipolla, non si è stupidi.
2) La probabilità che una certa persona sia stupida è indipendente da qualsiasi altra caratteristica della stessa persona.
Al contrario, la probabilità che una certa persona sia etichettata come “stupida” dipende da una serie di fattori sociologici e psicologici. L’etichetta di “stupido” varia in ragione di fattori quali l’età [l’adulto definisce spesso “stupido” il comportamento spensierato, superficiale, irresponsabile o ingenuo dei bambini e degli adolescenti (tale etichetta cela spesso un sentimento di invidia); bambini e adolescenti ricambiano definendo “stupido” il comportamento degli adulti e dei vecchi, accusati di grettezza, conformismo, ottusità, tradizionalismo, eccessiva prudenza, “vecchiezza” (anche questa etichetta cela spesso un sentimento di invidia nei confronti dell’autonomia posseduta dagli adulti)], il sesso (gli uomini accusano spesso le donne di sentimentalismo, irrazionalità, mancanza di controllo, ossia “stupidità”; le donne accusano spesso gli uomini di incapacità di provare sentimenti o non saperli condividere, di eccesso di razionalità, di non sapersi assumere le loro responsabilità, di essere mammoni, in altre parole di essere “stupidi”), lo stile di vita (il borghese in giacca e cravatta perenni accusa il punk di essere “stupido”; il punk accusa il borghese in giacca e cravatta perenni di essere grettamente conformista, ossia “stupido”. Il pacifista è “stupido” agli occhi del guerrafondaio; il guerrafondaio è “stupido” agli occhi del pacifista), la classe sociale (per chi occupa alte posizioni sociali il povero è spesso tale per stupidità; il povero, a sua volta, può tacciare di stupidità il ricco per la sua avidità o avarizia; un operaio può considerare “stupido” l’acquisto per 20.000 euro di un orologio di lusso da parte del riccone di turno; un magnate dell’alta finanza può giudicare incomprensibile e, dunque, “stupido” il tenore di vita di un metalmeccanico), la professione (un professionista dell’economia o del diritto osserva con il sopracciglio alzato il disoccupato che usufruisce del reddito di cittadinanza e che, quindi, è per ciò stesso “stupido”; questi, a sua volta, considera “stupide” le lamentele esistenziali di chi è “pieno di soldi”), l’orientamento politico (il programma dell’avversario politico è invariabilmente “stupido”, ma naturalmente anche l’avversario avrà da ridire sul nostro “stupido” programma), l’istruzione (il laureato definisce “stupido” il drop-out che ha rinunciato a proseguire gli studi, privandosi della possibilità di trovare un lavoro migliore; il drop-out definisce “stupido” il laureato che ha dedicato la vita agli studi invece di divertirsi e trovare subito un lavoro) ecc.
3) Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita.
Parafrasando il sociologo Howard Becker, il quale diceva che “I gruppi sociali creano la devianza istituendo norme la cui infrazione costituisce la devianza stessa, applicando quelle norme a determinate persone e attribuendo loro l’etichetta di outsiders. Da questo punto di vista, la devianza non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di norme e di sanzioni nei confronti di un colpevole. Il deviante è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; un comportamento deviante è un comportamento che la gente etichetta come tale”, potremmo dire che “le persone e/o i gruppi sociali creano la stupidità istituendo norme la cui infrazione costituisce la stupidità stessa, applicando quelle norme a determinate persone e attribuendo loro l’etichetta di stupidi. Da questo punto di vista, la stupidità non è una qualità dell’atto commesso da una persona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione, da parte di altri, di norme e di sanzioni nei confronti dello stupido. Lo stupido è una persona alla quale questa etichetta è stata applicata con successo; un comportamento stupido è un comportamento che la gente etichetta come tale”.
Di conseguenza, la stupidità non è una qualità intrinseca delle persone, ma un’etichetta ad esse applicata. Tutti noi commettiamo azioni che, agli occhi di altri, possono essere state, sono o saranno considerate stupide, oppure sono di fatto o potenzialmente stupide. Le persone stupide sono tali perché qualcuno le etichetta sistematicamente e pubblicamente come tali. Data la sua elusività, l’etichetta di stupido può essere adoperata in un contesto estremamente composito di situazioni. Ai fini della nostra definizione beckeriana, però, non è importante tanto il contenuto dell’etichetta, quanto il fatto che essa trovi regolare applicazione. Stando così le cose, è importante comprendere il motivo sottostante all’agire degli “imprenditori di stupidità”: perché alcuni individui si danno tanto da fare per tacciare gli altri di stupidità? Qual è il loro scopo? Qual è il loro interesse? Qual è il loro tornaconto?
4) Le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide. In particolare, i non stupidi dimenticano costantemente che in qualsiasi momento e luogo, ed in qualunque circostanza, trattare e/o associarsi con individui stupidi si dimostra infallibilmente un costosissimo errore.
Etichettare una persona come stupida causa un danno ad essa o al gruppo di appartenenza, spesso per conseguire un qualche tipo di vantaggio consapevole o inconsapevole. Applicare l’etichetta di stupido all’altro comporta dei vantaggi all’etichettatore e una serie di vantaggi secondari all’etichettato. Tra i vantaggi che l’etichettatore (l’imprenditore di stupidità) può trarre ci sono: la certezza confortante di non far parte del novero degli stupidi; la credenza in una presunta superiorità nei confronti dello stupido; la squalifica morale dell’altro; benefici economici, materiali e di altro genere derivanti dallo screditamento dell’altro (si pensi a una promozione sociale guadagnata a spese del collega “stupido”). Si può sempre trarre un vantaggio dal definire gli altri stupidi.
Anche lo stupido può trarre un vantaggio dall’etichetta a lui/lei imposta. Ricordiamo quanto afferma Sigmund Freud nel ventiquattresimo capitolo della sua Introduzione alla psicoanalisi: «Un bravo lavoratore che si guadagna la vita viene storpiato da un infortunio sul lavoro; con il lavoro è finita, per il poveretto, che però col tempo riceve una piccola pensione di invalidità e impara a sfruttare come mendicante la sua mutilazione. La sua nuova esistenza, per quanto peggiorata, si basa ora proprio su ciò che lo ha privato dell’esistenza precedente. Se voi poteste togliergli la deformazione, lo rendereste nell’immediato privo di mezzi di sussistenza e sorgerebbe il problema se sia ancora capace di riprendere il lavoro di prima. ciò che nel caso della nevrosi corrisponde a un simile sfruttamento secondario della malattia possiamo contrapporlo al tornaconto primario, dandogli il nome di tornaconto secondario della malattia» (Freud, S., 1915-1917, Introduzione alla psicoanalisi, in Idem, 1989, Opere. Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino, p. 538). Similmente, anche alla stupidità possono essere associati tornaconti secondari: ad esempio, gli stupidi subiscono minori pressioni e sono destinatari di minori aspettative di successo in ogni campo della vita, circostanza che permette loro di “vivere un’esistenza tranquilla”; evitano di essere coinvolti in situazioni potenzialmente rischiose o impegnative (come recita una nota massima: “fare il fesso per non andare in guerra”); attraggono talvolta simpatia e comprensione.
In definitiva, per i non stupidi, associarsi con individui etichettati come stupidi si dimostra spesso un vantaggio, ma anche coloro che sono etichettati come stupidi possono trarre un vantaggio della loro etichetta.
5) La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista.
Corollario: lo stupido è più pericoloso del bandito.
A questa “legge” è possibile controbattere che la persona che etichetta l’altro come stupido è una delle persone più pericolose che esistano. Potenzialmente, tramite la sua etichetta, può screditare, inferiorizzare, disumanizzare, bestializzare l’altro, procurandogli danni enormi, specie di natura psichica, sociale e culturale. Ma anche materiale.
Definire qualcuno stupido può, inoltre, generare una profezia che si autoavvera. Se molti trattano una persona come stupida, questa può interiorizzare la definizione degli altri, considerarsi stupida, comportarsi da stupido e finire con l’essere davvero stupido.
Pericolosa non è, dunque, la persona stupida, quanto l’etichetta “istupidente”.
Facendo il verso a Cipolla, si può dire che il suo divertissement è, in ultima analisi, superficiale, semplicistico, banale, classista, penoso; insomma… “stupido”! Perché fa torto all’intelligenza di Cipolla (procurandogli un danno) e perché procura un danno ai lettori che avrebbero potuto impiegare meglio il proprio tempo leggendo altro.
Il termine shibbolet (anche shibboleth, scibboleth o scibbolet) designa una parola che, per la sua difficoltà di suono e pronuncia, è scelta come contrassegno per distinguere i parlanti di una comunità da quelli di un’altra. Uno shibbolet ha la funzione sia di escludere sia di includere: esso infatti permette di escludere quelli che non sono capaci di pronunciare correttamente una parola e di includere quelli che vi riescono.
Un bell’articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo, Folklore di guerra: gli shibbolet, password linguistiche, mi consente di “aggiornare” i tanti esempi riportati nel mio libro con un riferimento, “a metà fra l’episodio reale e il folklore bellico”, come precisano i due autori, all’attuale conflitto russo-ucraino. Dicono Lincos e Stilo:
Non sappiamo come sia iniziata; ma già il 26 febbraio, il terzo giorno di guerra, l’utente George Yeromin ha postato su Twitter un breve video in cui, a quanto pare, un automobilista ucraino incappa in un gruppo di soldati nella nebbia. Per capire se si tratta davvero di connazionali, chiede loro di pronunciare la parola palyanytsa (паляниця), un tipo di pane il cui nome, a quanto pare, i russi storpierebbero in modo da rendersi riconoscibili.
Da quel momento la storia del pane-scopri-russi è dilagata e ha raggiunto anche i media internazionali. Il 1° del mese, Newsbeezer.com la menzionava sostenendo una cosa interessante, e cioè che la storia risaliva “ai vecchi tempi delle guerre sovietiche” – forse con riferimento alla vicende complicate che toccarono l’Ucraina nella Seconda Guerra Mondiale e, ancora prima, al duro periodo del comunismo sovietico.
L’articolo però si soffermava su un altro aspetto interessante: a Kyiv, il timore dei sabotatori e dei paracadutisti russi aveva assunto toni paranoici. Li si vedeva dappertutto, e, oltre che il sistema antispie della palyanytsa, si diceva fossero utili anche altri mezzi: ad esempio, chiedere ai sospetti se sapevano indicare dove si trovava la più vicina filiale di una banca che – lo sapevano tutti, in Ucraina – svolgeva solo attività online. Secondo l’agenzia France Press invece un certo Pasha, tassista della capitale, aveva escogitato un altro trucchetto: cominciare a cantare una hit musicale ucraina recente, che iniziava con le parole Oleinïi, Oleinïi, per poi chiedere al sospetto russo di continuare con i versi successivi.
Il 4 marzo, alla parola palyanytsa è stata dedicata attenzione specifica da parte di France Press. […].
Ancora il 12 marzo, di nuovo su Twitter, ecco una testimonianza di prima mano: il giornalista Christopher Curtis ha scritto che, in una stazione ferroviaria ucraina sul confine polacco, è stato sospettato per un momento di essere una spia russa. Per provare di non esserlo, gli avevano chiesto di pronunciare palyanycia (in questo caso il termine in cirillico è stato traslitterato così). Dopo aver biascicato la parola, conclude Curtis, gli ucraini soddisfatti lo avrebbero lasciato andare. Infine sei giorni dopo, il 18 marzo, un altro utente di Twitter scriveva che palyanytsa era ormai diventata la parola che gli occupanti temevano più di tutte.
Vi invito naturalmente a leggere l’intero articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo, ricco di storie curiose e interessanti. Per il momento, mi sento di aggiungere solo che la storia degli shibbolet ci insegna, ancora una volta, che le parole non sono “solo” parole, ma possono decidere addirittura della vita e della morte delle persone, come insegna, fra l’altro, la vicenda degli errori di traduzione a cui è dedicato il mio libro 111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo.
A volte, mettere a confronto detti, massime, proverbi, apoftegmi, modi di dire di epoche diverse consente di cogliere la distanza culturale e psicologica intercorrente tra esse meglio di un trattato di sociologia o di storia.
Pensiamo alla concezione della morte che possediamo noi del XXI secolo, riassumibile nella diffusissima frase “È morto senza accorgersene”, e quella che traspare da un antico verso della Litania di Ognissanti che esprime l’atteggiamento del cristiano credente di fronte alla morte: A subitanea morte, libera nos, Domine (“Liberaci, o Signore, da una morte improvvisa”).
“È morto senza accorgersene”, al tempo stesso commento ubiquitario e sospiro ottativo, esprime una delle ambizioni massime di noi che viviamo in una società secolarizzata: morire senza soffrire e senza essere consapevoli (anzi, senza soffrire perché non consapevoli perché consapevolezza = atroce sofferenza). Secondo questa concezione, la morte più desiderabile è quella che si riduce ad attimo fuggente, a momento effimero, anzi l’effimero per eccellenza, a residuo ineffabile e impensabile, negazione di una immortalità presunta, sempre vagheggiata. La morte migliore è una morte anestetizzata, analgesica, distante, al limite trascurabile, se non repressa, momento di trapasso verso il nulla. Soprattutto inconsapevole. Il che è paradossale, se si pensa che viviamo nell’epoca della consapevolezza, anzi della mindfulness, della coscienza sempre presente a se stessa. Fuorché ovviamente nella morte.
Il verso “Liberaci, o Signore, da una morte improvvisa” sottende, invece, una concezione completamente opposta della morte, che dovrebbe appartenere a ogni vero cristiano. Essere portato via in maniera repentina senza avere avuto la possibilità di prepararsi, di sentirsi pronti, di poter fare i conti con la vita che si è vissuto, dovrebbe essere per i veri cristiani il massimo dei pericoli da cui guardarsi. Morte improvvisa significa morte non cosciente, morte senza intenzione. Di qui l’importanza salvifica, soteriologica, del momento della morte, che può decidere del futuro dell’anima nell’aldilà. Tale concezione è riassunta nel celeberrimo “memento mori” e nei versi del Cantico delle creature di San Francesco: «Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali; beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ‘l farrà male». In ogni azione, in ogni pensiero, il cristiano dovrebbe comportarsi come se dovesse morire oggi stesso. Appunto: “Ricordati che devi morire!”.
Quanta distanza, dunque, tra il contemporaneo “È morto senza accorgersene” e l’antico “Liberaci, o Signore, da una morte improvvisa”. Sembrano solo frasi di poche parole. Celano, invece, concezioni diametralmente opposte della vita e della morte.
Sono in strada e cammino. Davanti a me ci sono circa dieci persone. Ognuna di esse ha un ombrello. Il cielo minaccia pioggia. Anch’io ho un ombrello. D’improvviso, un violento scroscio d’acqua. Tutti apriamo l’ombrello per ripararci dal rovescio. Dopo pochi minuti è tutto finito. Chiudo l’ombrello e, come me, anche quattro delle dieci persone che mi precedono in strada. Gli altri sei continuano a tenere aperti i propri ombrelli. Dopo qualche secondo, un paio di essi decidono che non è più necessario servirsene. Altra manciata di secondi, e sono seguiti da altri due. Nel giro di pochi minuti, tutti quelli che mi precedono in strada hanno chiuso i loro ombrelli. Ora, il nostro comportamento è perfettamente uniforme.
La scena che ho appena descritto è probabilmente familiare a molti. Occorrono sempre una manciata di secondi dalla fine della pioggia prima che tutti quelli che hanno l’ombrello aperto decidano di chiuderlo. Da un punto di vista razionale, questo lasso di tempo trascorso dalla fine della pioggia è incomprensibile: se non si ha più bisogno dell’ombrello perché continuare a tenerlo aperto?
Sebbene sia possibile proporre diverse teorie al riguardo, la più convincente, a mio avviso, rimanda alla cosiddetta “legge psicologica dell’inerzia”, secondo la quale gli esseri umani tendono a perseverare in determinati comportamenti, per quanto poco funzionali, per ragioni di economia mentale. In altre parole, gli esseri umani oppongono resistenza alla cessazione di determinati comportamenti perché il nostro cervello tende ad evitare, per quanto è possibile, l’elaborazione di nuove condotte, pur a fronte di nuove informazioni ricevute.
I tempi di mantenimento dell’inerzia variano in base a diversi fattori. Ad esempio, quando la mole di nuove informazioni è troppo pressante o quando le informazioni possedute non reggono al confronto con la realtà, è difficile perseverare nel comportamento precedente. Così, per tornare al caso della pioggia, quando questa viene meno, è possibile continuare a tenere aperto l’ombrello per qualche secondo o, in casi estremi suscettibili di riprovazione sociale (derisione ecc.), per qualche minuto, ma presto il fatto che tutti coloro che sono intorno a noi hanno chiuso l’ombrello ci “costringerà” ad abbandonare la condotta non funzionale. In tale circostanza, la conservazione del comportamento precedente ci appare insostenibile e viriamo verso la nuova condotta.
La legge psicologica dell’inerzia spiega perché gli esseri umani rimangono spesso attaccati a condotte (e idee) che pure sembrerebbe più logico modificare. Ma può essere adoperata in senso predittivo? Ad esempio, quanto tempo dalla fine dell’attuale pandemia (e delle relative norme emergenziali che ne disciplinano la gestione), occorrerà prima che tutti smettano di indossare la mascherina? È probabile che, anche in questo caso, molte persone continueranno ad adoperarla per giorni e mesi (in qualche circostanza forse anni), anche in assenza di una loro effettiva utilità funzionale. Ed è probabile che si serviranno di tutta una serie di razionalizzazioni ad hoc per farlo: “Non si sa mai”; “La mascherina mi protegge dallo smog cittadino/dalle polveri sottili/dagli allergeni”; “In inverno, mi ripara dal freddo” e così via.
Anche nella vita quotidiana, ci serviamo di argomenti apparentemente razionali per giustificare i nostri comportamenti abitudinari. Non dovremo sorprenderci, dunque, se ciò accadrà anche nel caso delle mascherine. Gli esseri umani tendono più all’inerzia e alla conservazione che all’innovazione e al cambiamento. Prepariamoci, dunque, a un più o meno lungo periodo interlocutorio in cui non sapremo se tenere o smettere la mascherina. Le abitudini – come dice il proverbio – sono dure a morire.
Scrive Berger Evans, autore già citato nel mio post precedente, sull’ipnosi:
[…] si crede oggi che un individuo possa cadere, attraverso il malefico potere dell’ipnotismo, sotto il completo controllo di un’altra persona, che può costringere la sua vittima a compiere qualunque azione solo con «l’imporre la sua volontà». Charlie Chaplin fu accusato dall’avvocato della signorina J. Barry di aver esercitato questo maligno potere sulla sua debole cliente. Barbara Hutton accusò il suo ex marito, il conte Haugwitz-Reventlow, di averle carpito 1.200.000 dollari esercitando su di lei «un’influenza quasi ipnotica» (provocò una grande sensazione il pensiero della somma che egli avrebbe ottenuto se l’influsso fosse stato completo). E Clyde R. Powell, uno «psicologo» di Endicott, New York, confessa di aver avuto fino a tremila persone nello stesso tempo completamente in suo potere, incapaci addirittura di muovere le mani senza il suo consenso. E mentre egli è guardingo nell’esercizio di questo suo tremendo potere, a tal punto da mettere un assistente dietro ad ogni soggetto che egli ipnotizza, perché afferri il paziente quando egli ordina «dormi», altri ipnotizzatori, meno scrupolosi, si servono, secondo la comune credenza, dei loro soggetti per fini criminali, costringendo i malcapitati ad agire come schiavi od anche ad acconsentire a farsi tagliare la gola.
Eppure, per quanto si conosce dell’ipnosi, queste ed altre illusioni volgari sono prive di fondamento. Sembra che si tratti principalmente di un processo di suggestione, un riflesso condizionato. Le persone deboli e sottomesse non sono migliori soggetti di quelle forti e intelligenti, può essere ipnotizzati senza saperlo, il soggetto deve partecipare attivamente al processo ed è dubbio che una qualunque idea indotta, realmente nociva per il soggetto, possa essere messa in pratica, a meno che non sia l’estrinsecazione di un impulso latente autodistruttivo, già vivo nel soggetto (Evans, B., 1948, Storia dei luoghi comuni, Longanesi, Milano, pp. 190-192).
Idee e credenze errate sull’ipnosi sono diffuse da tempo immemore. Particolarmente raccapricciante la convinzione che, tramite l’ipnosi, sia possibile indurre chiunque a commettere atti criminali contro la sua volontà.
Quanta verità c’è in questa credenza? Davvero l’ipnosi può essere adoperata a scopi immorali o illegali?
Di questo e altri temi (Gli zingari rapiscono i bambini? E i bambini scompaiono a migliaia ogni anno? È vero che si inizia con lo spinello e si finisce con l’eroina? E che tutte le droghe sono ugualmente dannose? Il traffico di organi è una leggenda metropolitana? L’occhio conserva l’ultima immagine vista dalla vittima prima di morire?) tratto nel mio 101 falsi miti sulla criminalità, che naturalmente vi invito a leggere.
In un post precedente ho presentato il cosiddetto “canone di Morgan”, dal nome dello psicologo Lloyd Morgan il quale, nel 1903, nel suo An introduction to comparative psychology scriveva a proposito degli animali:
In nessun caso è lecito interpretare un’azione come il risultato dell’esercizio di una facoltà psichica superiore, se essa può essere interpretata come il risultato dell’esercizio di una facoltà di livello psicologico inferiore.
Di questa tendenza sovrainterpretativa si hanno numerosissimi esempi, anche contemporanei.
Uno scrittore, oggi dimenticato, che si è soffermato con un po’ di ironia su questa tendenza è Berger Evans (1904-1978), professore di inglese e celebrità televisiva americana, autore di una deliziosa History of Nonsense (tradotta nel lontano 1948 dalla Longanesi con il titolo, alquanto improprio, di Storia dei luoghi comuni), in cui, fra l’altro, smaschera con ironia alcuni luoghi comuni riguardanti le pretese doti soprannaturali degli animali. A proposito dei cani, ad esempio, dice:
È quasi impossibile passare un pomeriggio in un gruppo di rispettabili persone normali della classe media senza dover ascoltare qualche racconto sui poteri soprannaturali dei cani; e la più piccola espressione di dubbio o il minimo tentativo di controbattere suscita un gran coro di proteste. I cani sono sacri nella nostra cultura, e nulla di essi è più sacro della loro abilità a predire il futuro, ad annunciare calamità prossime e a sentire «istintivamente» la morte del padrone o della padrona che in quel momento possono trovarsi lontano.
Le storie di cani fluiscono attraverso le notizie di cronaca come portate da una corrente senza fine. Un giorno leggiamo che un cocker spaniel, mandato in patria dal Pacifico dall’amico di un motorista di aviazione, riconobbe «intuitivamente» la moglie del suo padrone. Il giorno dopo ecco un edificante racconto di un cane dall’occhio veggente che, ad un concerto, restò seduto «con quieta dignità» mentre si suonava il «God Save the King», ma «balzò su tutte e quattro le zampe e restò sull’attenti col resto del pubblico» mentre si suonava il «The Star-Spangled Banner».
Ma la chiaroveggenza dei cani si manifesta più di frequente nel leggere il carattere degli uomini e particolarmente nell’intuire la cattiveria nascosta. Così, mentre gli sciocchi personaggi umani in «Little Dorrit» sono ingannati dalla soavità di Rigaud, il cagnolino lo riconosce «istintivamente» per quello che è e, malgrado le punizioni del suo credulo padrone, persiste nei suoi attacchi ammonitori finche il cattivo è smascherato.
Né simili episodi sono limitati alla letteratura. Una signora di Chicago scrisse con trionfante indignazione ad una cartiera per dire che il ringhio dei suo bulldog l’aveva avvertita che l’uomo che andava da lei a comprare la carta da macero era un uomo disonesto. Ella aveva ignorato gli avvertimenti della fedele creatura, ma si era accorta, dopo che il compratore se n’era andato, che questi le aveva dato quattro cents di meno. La ditta promise che avrebbe indennizzato la signora.
I cani riescono anche ad afferrare dei temporanei cambiamenti nel carattere. Albert Payson Terhune ci dice che uno dei suoi cani favoriti «si alzava quietamente dopo il mio secondo o terzo bicchiere e lasciava la stanza». La affezionata bestia, aggiunge Terhune, «sembra che noti e si risenta del sottile cambiamento che avviene in me».
Così sicuro è invero questo mistico potere analitico del cane che non si spiega come mai le banche sciupino del denaro per dispendiosi sistemi d’allarme, quando un cane di guardia alla porta potrebbe subito avvertire non solo dell’ingresso dei ladri, ma anche di falsari, di spacciatori di assegni a vuoto e di imbroglioni. Forse i direttori delle banche non vogliono far sapere agli impiegati quand’è che a pranzo hanno bevuto un bicchiere di troppo.
Come i piccioni, anche i cani sarebbero dotati di una abilità soprannaturale nel trovare la via del ritorno attraverso centinaia di miglia di terreno sconosciuto. I giornali sono pieni di storie di cani miracolosamente presentatisi alla porta di casa di sconcertati padroni che li avevano abbandonati lontano. Contro queste storie, tuttavia, possono citarsi gli annunci sugli oggetti smarriti e trovati degli stessi giornali, che in quasi tutti i numeri portano offerte di compensi per chi trova dei cani che, a quel che pare, non hanno saputo ritrovare la strada di casa dall’isolato vicino. Stefansson, che ha avuto parecchio a che fare coi cani, e con cani allo stato selvaggio come ce ne sono pochi, dice che un cane perduto «raramente ritrova la strada» (pp. 67-70).
Tutti noi abbiamo sentito storie del genere e forse le abbiamo narrate noi stessi. Dal 1948 ad oggi non molto è cambiato, dunque, nel nostro atteggiamento “credulo” nei confronti dei cani e degli animali in generale.
Il canone di Morgan rappresenta il rasoio di Occam dell’etologia e consente ancora oggi, se applicato conseguentemente, di chiarire tante storie in cui gli animali sono protagonisti di eventi apparentemente miracolosi o inspiegabili. Certo, usarlo non è semplice. Inoltre, alcune convinzioni sono talmente radicate nella nostra cultura che è difficile sbarazzarne.
Al “canone di Morgan” ho dedicato un capitolo del mio Aloni, stregoni e superstizioni, che naturalmente vi invito a leggere per non rimanere vittime dei “luoghi comuni” sugli animali descritti da Berger Evans.
Secondo il grande sociologo francese Raymond Boudon, una importante legge della teoria delle comunicazioni è che «meno probabilità ha una teoria di essere vera, più ha probabilità di far parlare di sé» (Il vero e il giusto, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 314).
Uomini e donne comuni non ricevono le loro informazioni su ciò che accade nel mondo, facendone esperienza in prima persona, ma attraverso l’intermediazione dei media. In alcuni casi questo processo di mediazione produce notevoli distorsioni. I media, infatti, sono interessati più ad attirare pubblico che a informare correttamente; più a produrre spettacolo che fatti.
[…] uno degli obblighi connessi al “ruolo” di giornalista consiste nell’informare il lettore delle ipotesi più incredibili, anche se queste hanno solo una debole probabilità di essere vere. Così facendo, lo stesso giornalista incita i ricercatori di base a proporre ipotesi azzardate. Queste hanno maggiori probabilità di cadere rapidamente nell’oblio, ma avranno nel frattempo garantito al lettore un brivido gradevole e un supplemento di notorietà all’operaio della scienza. Proprio per questa loro banalità, i suddetti meccanismi permettono di comprendere la generalità della legge dell’inversione mediatica dei valori […] (p. 315).
Questa “legge” contribuisce a spiegare il fatto che, nel mondo coacervico delle informazioni, sono spesso proprio quelle più incredibili e strampalate che finiscono per costituire il sapere comune sull’uomo e la società.
È così che teorie bizzarre e insensate ricevono accoglienza dai media, attirano un’attenzione spropositata rispetto al loro valore di verità e si diffondono, venendo discusse, come se fossero vere o, almeno, altrettanto valide di quelle accettate dalle comunità scientifiche, finendo con l’essere percepite, in taluni casi, come degne di rispetto e considerazione.
La legge dell’inversione mediatica è particolarmente attiva in questo periodo pandemico e bellico in cui un numero inquietante di individui abbraccia tesi cospiratorie sul virus e la guerra, che forse non circolerebbero con uguale virulenza se non ricevessero l’endorsement quotidiano dei media.
Diceva Tocqueville che noi possiamo sperimentare da soli solo una minima parte delle questioni sulle quali la vita sociale ci impone di avere un’opinione: «Non c’è grande filosofo al mondo che non creda a un milione di cose sulla parola altrui». Non possiamo non dare fiducia agli esperti. Ma facciamo attenzione che gli esperti siano davvero tali.
La storia può avere una funzione terapeutica. Può essere adoperata, ad esempio, per “guarirci” da convinzioni infondate, come quella che determinate istituzioni sociali esistano da sempre in determinate forme. Pensiamo alle Olimpiadi.
Come osservano gli storici Finley e Pleket in un delizioso libricino I giochi olimpici (Editori Riuniti, 1980), nel 1896 si tennero ad Atene i primi giochi olimpici moderni, i quali, però, non avevano molto di genuinamente “olimpico”. C’erano quarantadue gare in dieci sport con 285 partecipanti, tutti uomini, senza competizioni a squadre tranne la ginnastica. Ma solo le gare di corsa, il salto in lungo, il lancio del disco e la lotta erano “presi a prestito” dai giochi originari; le altre gare erano sconosciute agli antichi o non erano incluse da essi nei giochi più importanti.
Altro mito che riconduciamo alla antica Grecia è quello della torcia olimpica. In realtà, nella pratica dei greci antichi, non c’era nulla che giustificasse la torcia olimpica, portata in giro per mezzo mondo come simbolo dell’internazionalismo olimpico. Nell’antichità le corse con la torcia erano staffette puramente locali; squadre di uomini nudi, con la fronte ornata di diadema, portavano per le strade, da altare ad altare, torce accese su impugnature metalliche. Nulla più. Né gli antichi gareggiavano su distanze molto lunghe. La maratona ha origine da una leggenda famosa: un ateniese, il cui nome appare diverso in varie versioni del racconto — Fidippide nella versione più nota — nel 490 a C. corse i 42 chilometri fino a Maratona per partecipare alla battaglia contro gli invasori persiani, poi tornò di corsa ad Atene per informare della vittoria e mori stremato dalla fatica.
Altra differenza rispetto ai giochi moderni è che, mentre questi cambiano sede ogni quattro anni, quelli antichi non abbandonarono mai Olimpia. Inoltre, le Olimpiadi antiche furono tenute ogni quarta estate senza interruzioni, nonostante le guerre e gravi difficoltà politiche in vari periodi, fino almeno al 261 d. C: oltre mille anni dalla fondazione, tradizionalmente e credibilmente datata al 776 a.C. I giochi moderni, invece, sono stati cancellati tre volte, nel 1916, 1940 e 1944, a causa di due conflitti mondiali.
Lo spirito olimpico del passato, ancora, non aveva niente di “sportivo” come lo intendiamo oggi. Ciò che contava era essere sempre i primi e superare gli altri. Non c’erano un secondo o terzo posto, una medaglia d’argento o di bronzo; non essere il primo significava perdere, e questo era tutto. Né aveva molta importanza se la vittoria era riportata con una superiorità schiacciante o con un lancio modesto o in un tempo mediocre. Non si registravano mai i primati in questo senso: in greco non c’era neppure il modo di dire “stabilire un record” o “battere un record”. I primati che importavano erano il numero delle vittorie riportate da un atleta durante la sua carriera o il fatto che non era mai stato messo a terra in un incontro di lotta.
Alla regola di onorare soltanto il primo c’erano rare eccezioni in particolare nel pentathlon, e oltre a queste una sola eccezione significativa: nelle corse a cavallo e sui carri, in cui il vincitore era il proprietario, non il guidatore. Allora gli atleti potevano essere orgogliosi di vincere il secondo o anche il quarto posto, ma solo se avevano vinto anche il primo. Per il resto la partecipazione alle gare era un fatto strettamente individuale. Giochi di squadra non furono mai introdotti, e a quanto pare mai presi in considerazione. La gloria non poteva essere divisa con partner, ma soltanto, dopo la competizione, con la propria famiglia, i propri antenati, e con la propria città.
Non è nemmeno vero che gli atleti dell’antichità fossero tutti “dilettanti”. I vincitori olimpici venivano ben ricompensati dalle loro città, e atleti strettamente professionisti erano liberi di partecipare in condizioni di assoluta parità con tiranni e aristocratici. Col passare degli anni furono introdotti in misura sempre crescente i cosiddetti “concorsi a premio”, con ragguardevoli compensi in denaro, che alla fine erano oltre trecento.
Veniamo ai giochi veri e propri. I greci non conobbero mai il salto in alto e la corsa a ostacoli, né facevano saltare i cavalli in incontri competitivi. La corsa dei carri era la gara di apertura, dopo il primo giorno dedicato ai preparativi e al culto. Seguiva la corsa olimpica dei cavalli. Il pomeriggio del secondo giorno era destinato al pentathlon, che si gareggiava nello stadio con la probabile eccezione della lotta, disputata negli spazi aperti attorno all’altare di Zeus. Dalla seconda metà del VI secolo a. C., inoltre, tutti i concorrenti furono nudi e scalzi quando correvano, saltavano o lottavano sulla sabbia. Le gare del pentathlon erano: il disco, il salto in lungo da fermo, il giavellotto, la corsa dei 200 metri e la lotta.
Il pomeriggio del terzo giorno era riservato a tre gare dei giovani: la corsa dei 200 metri, la lotta e il pugilato. La mattina dell’ultimo giorno di gara era interamente occupata dalle tre corse, 200 metri, 400 metri e gara di fondo (4.800 metri), tenute tutte nello stadio. Infine, l’ultimo pomeriggio, arrivava il momento dei rudi e popolarissimi sport corpo a corpo, la lotta, il pugilato e il pancrazio. I tre sport erano brutali, per non dire violenti, in diversa misura. C’erano poche regole, non esistevano limiti di tempo né un ring. Non c’erano neppure categorie di peso, sicché il confronto al massimo livello si restringeva a uomini grossi, molto muscolosi e rudi. Il pugilato antico era più feroce della versione moderna. Gli spettatori andavano per vedere il sangue e lo ottenevano.
A proposito degli spettatori, non era facile controllare decine di migliaia di greci eccitati, ammassati in un’area relativamente ristretta. C’era un corpo ufficiale di uomini dotati di frusta che tenevano l’ordine sia tra gli spettatori che tra gli atleti. Era essenziale controllare anche gli innumerevoli venditori ambulanti.
Ai giochi antichi la folla era partigiana, volubile ed eccitabile come in qualsiasi altra epoca. E si sprecavano le condanne dell’irrazionalità dei tifosi, ieri come oggi. «Nessun cavallo correrà più lentamente se vi comportate con decoro», ammoniva il famoso oratore Dione di Prusa, noto come Dione Crisostomo («Boccadoro»), in una pubblica orazione ad Alessandria poco dopo il 100 d.C. «Chi può descrivere le vostre grida, l’eccitazione e lo spasimo, i contorcimenti del corpo e i gemiti, le orribili imprecazioni che lanciate? Se non foste ad assistere a una semplice corsa di cavalli — e cavalli che sono abituati a correre — ma foste incalzati dalla sferza della tragedia, non sareste agitati così crudelmente».
Dobbiamo, infine, demistificare anche il mito della purezza dei giochi antichi. La corruzione esisteva e come! Anche se, nelle testimonianze rimaste, i casi accertati sono relativamente pochi. Il più antico fu nel 388 a.C, quando Eupolo di Tessaglia comprò tre pugili, uno dei quali era il vincitore dei giochi precedenti, perché gli facessero vincere il premio. Nel caso successivo, mezzo secolo dopo, un pentatleta ateniese vinse con mezzi simili. La città di Atene mandò a Elide il suo più eminente oratore e politico, Iperide, a invocare la sospensione della multa. Non ebbe successo, e la città stessa versò il denaro, ma soltanto dopo che Apollo, a Delfi, aveva minacciato di non pronunciare più oracoli per Atene finché ciò non fosse stato fatto. Nel 68 a.C. Rodi soccorse nello stesso modo un lottatore.
Soltanto per l’età imperiale troviamo affermazioni di carattere generale che parlano di corruzione diffusa. Uno scrittore del III secolo d.C, Filostrato, lamenta che atleti abituati a una vita di lussi preferivano perdere le gare per denaro invece di affrontare le fatiche necessarie per vincere e ottenere il denaro dei premi; che allenatori corrotti li incoraggiavano prestando loro denaro a usura e poi combinando gli imbrogli per avere assicurata la restituzione. Lo stesso scrittore aggiunge che i giochi olimpici erano immuni da tale malcostume. Curiosamente, il malcostume non era mai associato al gioco d’azzardo. I greci erano giocatori entusiasti, specie con i dadi, e le scommesse tra spettatori sono già menzionate nel racconto omerico dei giochi funebri per Patroclo. Ma non c’erano allibratori né associazioni professionali, e la corruzione era di fatto limitata agli atleti stessi o alle loro famiglie, con l’obiettivo di vincere una gara, non una grande scommessa. È anche curioso che la corruzione dimostrata dopo la gara non privava il vincitore del titolo e della corona, per quanto severe potessero essere le punizioni cui egli era esposto in altra sede. Queste consistevano in: multe, esclusione dai giochi e fustigazione.
Finley e Pleket ci insegnano che la visione che abbiamo dei giochi olimpici antichi è più mitica che reale. La convinzione oggi diffusa che l’immoralità e la corruzione dilaghino nello sport contemporaneo come mai nel passato è fondamentalmente errata. Gli antichi non erano necessariamente più puri e onesti di noi. Anzi, forme di comportamento approvate nel passato sarebbero oggi considerate intollerabili.
La storia ci permette di vedere la vita con occhi più smaliziati e di relativizzare gli eventi in funzione del contesto. Il mondo non è stato sempre come lo conosciamo oggi, né gli uomini, le donne, le istituzioni. Non si tratta solo di date, nomi, battaglie ed eroi. La storia significa soprattutto modi diversi di vedere il mondo e le persone. E allora anche istituzioni come le Olimpiadi greche, se studiate con gli occhiali dello storico, ci appaiono molto diverse da come ingenuamente pensiamo che siano.
Inquadrare sociologicamente Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che pure è di sentimenti schiettamente democratici, non è affatto facile. Le condizioni sociali della sua epoca sono così complesse, che non sempre i principii e le intenzioni del filosofo sono elementi sufficienti per formulare un giudizio sulla sua visione del mondo.
Tuttavia, tra i suoi numerosi scritti non è raro trovare analisi brillantemente sociologiche su eventi e fenomeni che si tenderebbe a giudicare “naturali”. Un esempio è dato dalle seguenti osservazioni da lui maturate all’epoca del celebre terremoto di Lisbona (1755) che causò la morte di circa 30.000 persone e distrusse metà della città.
Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi? Forse non sapete, allora, che la vivente persona di ciascun uomo non è diventata che la minima parte di se stesso e che non vale la pena di salvarla quando si sia perduto tutto il resto?
Avreste voluto – e chi non l’avrebbe voluto! – che il terremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona. Si può dubitare che non accadano terremoti anche nei deserti? Soltanto che non se ne parla perché non provocano alcun danno a lorsignori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. Del resto, ne provocano poco anche agli animali e agli indigeni che popolano, sparpagliati sul territorio, questi luoghi remoti e che non temono né la caduta dei tetti, né l’incendio delle case. Ma che significa un simile privilegio? Vorrebbe forse dire che l’ordine del mondo deve assecondare i nostri capricci, che la natura deve essere sottomessa alle nostre leggi e che per impedirle di provocare un terremoto in un certo luogo basta costruirvi sopra una città? (Jean-Jacques Rousseau, “Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona”, 18 agosto 1756, in Tagliapietra, A., 2022, Filosofie della catastrofe, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 113-114).
Ancora oggi, tendiamo a pensare che i terremoti siano eventi fondamentalmente naturali e, sebbene siamo disposti a riconoscere che possano essere accelerati da comportamenti poco in sintonia con la “natura”, qualsiasi cosa ciò significhi, non riflettiamo spesso sul fatto che le conseguenze di un terremoto possono essere più o meno devastanti secondo il grado di urbanizzazione del luogo colpito, ossia secondo il grado di antropizzazione che l’uomo ha imposto al luogo stesso. Case, grattacieli, edifici ecc. non sono “naturali”, ma sono costruzioni umane e sociali che mutano il nostro ambiente di vita. Eppure, tendiamo a pensare che siano naturali perché abbiamo sempre vissuto in questo ambiente e ci risulta difficile non viverlo come una “seconda natura”.
Evidentemente, anche al tempo di Rousseau queste osservazioni non erano affatto scontate, tanto che i contemporanei le avvertivano come sorprendenti. Ma, del resto, chiunque studi sociologia sa che questa disciplina è in grado di cambiare letteralmente il nostro modo di vedere il mondo e, già solo per questo, dovrebbe essere una materia obbligatoria in qualsiasi indirizzo scolastico superiore.
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