Credenze irrazionali sui vaccini

Nel 2020 la Nigeria, ultimo paese africano, è stata dichiarata polio-free dalla Organizzazione Mondiale della Sanità ed è stata inserita nel novero delle regioni che hanno debellato la forma selvaggia della poliomielite. Ad oggi Pakistan e Afghanistan rimangono gli unici paesi al mondo in cui resistono sacche di una malattia che, dopo aver fatto tremare il mondo per un secolo, sembra ormai scomparsa.

Ciò è avvenuto anche grazie all’enorme sforzo compiuto sul fronte vaccinale che ha portato alla creazione, dopo un percorso certamente non lineare, di uno dei rimedi più efficaci contro questo virus.

Ma quali sono le ragioni per cui solo nel 2020 la Nigeria è stata dichiarata polio-free? E perché Pakistan e Afghanistan continuano a essere aggrediti dalla malattia?

Una delle ragioni – come ricorda Agnese Collino, autrice di La malattia da 10 centesimi. Storia della polio e di come ha cambiato la nostra società (Codice Edizioni, Torino, 2021) – sta nelle credenze relative alla nocività dei vaccini che, ancora oggi, sono diffuse in determinate aree del mondo, comprese Nigeria, Pakistan e Afghanistan. Qui, infatti, in un clima di odio e sospetto, circola la convinzione che il vaccino antipoliomielite contenga agenti sterilizzanti, interferisca con il volere divino (che imporrebbe l’accettazione fatalistica di alcune malattie), contenga derivati del maiale (vietato dall’Islam), diffonda l’HIV e serva a controllare in qualche modo la popolazione locale.

Ad alimentare, in parte, tali convinzioni contribuiscono vicende poco chiare come quanto accaduto nel 2011, allorché

la CIA (l’intelligence americana) ha inscenato una finta campagna vaccinale contro il virus dell’epatite B per ottenere campioni di DNA dei bambini presenti nel rifugio di Osama Bin Laden ad Abbottabad, nel Nord del Pakistan. I campioni sarebbero serviti a verificare se qualcuno dei piccoli fosse strettamente imparentato con il leader di Al Qaida, e quindi a confermare indirettamente che quell’edificio fosse effettivamente il suo nascondiglio, cosa che in quel momento era ancora incerta. Questo escamotage si è poi rivelato di fondamentale importanza nell’operazione che ha portato all’uccisione di Bin Laden, il 2 maggio 2011 (Collino, cap. 7).

Se escludiamo simili circostanze, che, come afferma ancora Collino, hanno «dato sostanza alle peggiori paure del mondo islamico verso le procedure mediche occidentali importate su suolo musulmano» (Collino, cap. 7), una osservazione merita di essere fatta.

È estremamente accattivante la tentazione di imputare le credenze riguardanti i vaccini rilevate in alcuni paesi dell’Africa e dell’Asia all’arretratezza culturale di tali paesi. In realtà, nel corso della recente crisi pandemica mondiale, è emerso che credenze simili, se non identiche, hanno caratterizzato anche il fronte degli antivaccinisti nostrani, convinti che i vari vaccini Pfizer, Moderna ecc. servissero a sterminare la popolazione, a renderla sterile o a inserire nei nostri corpi potentissimi microchip in grado di controllare il nostro comportamento.

Come non si stancano di ripetere gli antropologi culturali, l’idea di una superiorità culturale dell’Occidente rispetto agli altri paesi del mondo è spesso illusoria e tale illusorietà si manifesta proprio in occasione di crisi sanitarie, quando emergono timori che forse potremmo definire ancestrali, se questo termine non corresse il rischio di generare ulteriori pregiudizi negativi di una parte del mondo verso l’altra.

In conclusione, una delle lezioni che possiamo trarre da queste vicende è che uomini e donne sono uguali in tutto il pianeta. Soprattutto, quando hanno paura.

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Mary Poppins e la poliomielite

È probabile che atteggiamenti e comportamenti promossi nel corso della recente crisi pandemica – che non è terminata e che forse non terminerà mai, se con “terminata” intendiamo l’eradicazione definitiva del virus dal nostro pianeta – tenderanno a sedimentarsi nel nostro immaginario per molto tempo, fino a divenire una nuova normalità.

Ciò che in una società passa per “normale”, infatti, non è dato una volta per sempre, ma muta spesso senza che ce ne rendiamo nemmeno conto. Basti pensare alle tematiche LGBTQQIA+, fino a pochi decenni fa nemmeno pronunciabili in pubblico, e oggi entrate a pieno diritto nel dibattito collettivo.

Allo stesso modo, è probabile che il nostro atteggiamento nei confronti della mascherina – oggetto una volta confinato alle attività di alcune categorie professionali come medici o infermieri o alla vita quotidiana di popoli lontani come i cinesi, afflitti da livelli preoccupanti di inquinamento dell’aria – sia mutato definitivamente al punto che la copertura facciale è entrata perfino nel nostro immaginario più recente, come dimostrano le appropriazioni che dell’oggetto maschera sono state fatte dalla moda e dal mondo del consumo.

Ricordiamo anche i tamponi effettuati nei Drive-in, le vaccinazioni eseguite nelle caserme che hanno conferito nuovi significati a strutture prima associate, rispettivamente, alla visione di film e alla vita militare.

Già nel passato, il nostro immaginario ha introiettato oggetti, motivi e temi che hanno avuto origine da crisi virali. Un esempio quasi dimenticato è sufficiente a dimostrarlo.

Molti di noi ricordano ancora il celebre refrain della canzone che Mary Poppins cantava nell’omonimo film Disney del 1964: “Basta un poco di zucchero e la pillola va giù” (in inglese: «Just a spoonful of sugar helps the medicine go down»). Ebbene, tale “modalità di somministrazione” della pillola trae ispirazione dalle cosiddette Sabin Oral Sundays (le domeniche del vaccino orale di Sabin) che ebbero inizio il 24 aprile 1960.

Albert Bruce Sabin (1906-1993) è lo scienziato a cui dobbiamo il vaccino attenuato orale contro la poliomielite che tante vite ha salvato nel corso del XX secolo da una delle più tremende malattie di origine virale.

I partecipanti alle “domeniche di Sabin” ricevevano il vaccino diluito in un cucchiaio di sciroppo dolce o su una zolletta di zucchero. Tale innovativa caratteristica attecchì a tal punto nell’immaginario da introdursi perfino in un film di successo che, ovviamente, ne perpetuò il significato e il ricordo, consegnandolo alle future generazioni.  

Attualmente. mascherine e virus sono già penetrati in film, romanzi e altri prodotti di consumo culturale contemporanei. Probabilmente rimarranno nella nostra mente a lungo prima di essere soppiantati o affiancati da altri oggetti di origine virale.

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Una strana argomentazione… aliena

Uno strano horror vacui sembra possedere i credenti nell’esistenza di civiltà aliene quando osservano nel cielo qualcosa di percettivamente ambiguo o privo di senso. Dal momento che non possono tollerare l’idea che quello che vedono è banale, incerto, ambiguo, “riempiono” la loro visione di un unico significato: gli UFO esistono. E se la natura rifugge il vuoto, come diceva Aristotele, la loro mente rifugge l’incertezza e l’ignoranza: non sapendo come riempire uno spazio ambiguo, gli assegna un significato alieno, anche se del tutto privo di fondamento.

Ma i cultori degli UFO non sono solo terrorizzati dal vuoto della banalità. Essi abbracciano con ogni forza possibile la vecchia fallacia dell’argumentum ad ignorantiam, fallacia logica che, come è noto, implica l’affermazione della falsità o verità di una proposizione, sulla base dell’ignoranza esistente sulla proposizione discussa (cioè una premessa è vera o falsa finché non è provato il contrario). Secondo questa fallacia, una proposizione è vera perché non si hanno prove del fatto che sia falsa, pur non esistendo, o non essendo queste chiare, delle prove che possano dimostrare la verità o la falsità di una affermazione.

Così, l’esistenza degli UFO è provata perché il credente non sa dire nulla di ciò che vede in lontananza. E, dal momento che non sa che cosa sia, si convince che debba essere qualcosa di alieno.

Il sillogismo funziona più o meno così: Ho visto un oggetto volante – non so che cosa possa essere – quindi deve essere una navicella spaziale guidata da uno o più alieni.

Come in molte altre occasioni della vita quotidiana in cui facciamo uso inconsapevole di questa fallacia, anche in questo caso traiamo un significato dalla nostra ignoranza.

La mia amata mi sorride – non so perché – quindi deve essere innamorata di me.

Non posso dimostrare che Dio non esiste, quindi esiste. La mancanza di prove è prova dell’esistenza.

Nel caso degli extraterrestri, il vuoto è riempito dagli UFO perché una lunga e ancora viva tradizione popular ci ha insegnato che da qualche parte gli UFO volano, anche se finora non è stata provata nemmeno l’esistenza di un solo essere alieno.

Non conoscendo, preferiamo la mitologia all’ignoranza, l’illusione alla delusione. E così facendo alimentiamo la leggenda dei marziani, preservando una memoria fondata sul nulla.

La credenza è preferibile all’inesistenza. Meglio, dunque, un UFO finto che un nulla inquietante. Parola di psicologo.

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E Bill Gates divenne il super cattivo

Perché Bill Gates, il celebre imprenditore americano fondatore di Microsoft Corporation, suo ex presidente, ex amministratore delegato ed ex maggiore azionista, fondatore, insieme alla moglie, della Fondazione Bill & Melinda Gates, forse la fondazione privata più grande al mondo, e uno dei più noti filantropi al mondo, compare sistematicamente al centro di tante teorie cospiratorie?

Secondo i complottisti di tutto il mondo, infatti, Bill Gates avrebbe come mira del suo “operato di filantropo”, la diminuzione della popolazione mondiale o la sua riduzione in schiavitù, il suo controllo attraverso potentissimi microchip e/o segretissime nanotecnologie, la diffusione letale di epidemie di ogni genere, puntualmente previste nemmeno fosse un profeta di morte, la sterilizzazione della popolazione del cosiddetto terzo mondo e tanto altro ancora di ineffabile e incomprensibile.

Secondo lo scettico Brian Dunning, Bill Gates assomma nella sua persona, in maniera quasi unica, tre caratteristiche fondamentali che fanno di lui il super-villain perfetto.

Innanzitutto, è ricco, maledettamente ricco, uno degli uomini più ricchi del pianeta, e in quanto tale attira i sospetti e le invidie di chi vede nella ricchezza la fonte di ogni male e corruzione.

In secondo luogo, ha fondato un impero basato su software e tecnologie informatiche, strumenti demoniaci, secondo alcuni complottisti, che, nelle mani sbagliate (ossia in quelle di Gates), possono condurre al controllo globale del mondo.

In terzo luogo, è sostenitore di varie cause filantropiche finanziate dalle sue immense ricchezze e ogni bravo complottista sa che dietro ogni bravo filantropo si nasconde un individuo cinico e meschino che usa il proprio amore del prossimo come paravento per fini innominabili.

Concentrate e amplificate in un solo uomo, queste tre caratteristiche fanno di Bill Gates il malvagio per eccellenza, dotato di potere, risorse ed energie, la cui distanza siderale dalla gente normale favorisce proiezioni maligne sulla sua persona al punto che, per molti, egli non sarebbe più nemmeno un essere umano, ma un lupo in veste di agnello, dotato perfino di facoltà profetiche celate sotto forma di moniti per l’umanità.

Così quando, nel 2015, durante un Ted Talk, Gates avvertì che il prossimo pericolo per l’umanità sarebbe giunto non da una guerra nucleare, ma da un virus in grado di sterminare buona parte della popolazione mondiale, le sue parole furono prese, alla luce della successiva emergenza planetaria provocata dalla diffusione del Covid-19, come una sorta di dichiarazione di guerra e un’assunzione di responsabilità. Con quelle parole, affermano convinti i complottisti, il fondatore di Microsoft non stava mettendo in guardia il mondo: stava annunciando il suo ruolo nella propagazione dell’epidemia.

Come convincere i cospirazionisti dell’assurdità delle loro convinzioni a proposito di Bill Gates? Il filantropo americano risponde che le pagine del sito della sua fondazione forniscono tutte le risposte alle domande dei più sospettosi sugli scopi della sua attività. È probabile che un cospirazionista risponderebbe che si tratta solo di una cortina di fumo: dietro tante belle parole, si nascondono progetti ripugnanti  e indicibili i cui effetti sono visibili a chiunque abbia “occhi per vedere”.

In questo modo, le asserzioni dei complottisti diventano inconfutabili e ogni “prova” in senso contrario un banale tentativo di depistare la gente perbene.

Non è facile convincere gli scettici della bontà delle cause in cui è impegnato Bill Gates e forse anch’io che sto scrivendo queste parole sono sul suo libro paga…

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Profezia che si autoavvera a Samarcanda

Può la celebre storia della morte a Samarcanda (o Teheran o Samarra o Isfahan, secondo le versioni) essere annoverata tra gli esempi letterari di profezia che si autoavvera, il  meccanismo, ricordiamolo, attraverso cui, secondo la celebre definizione di Watzlawick, “una supposizione o profezia per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità”? A mio parere sì, ma procediamo per gradi.

La storia ha diverse versioni e le sue origini si perdono nella notte dei tempi, risalendo probabilmente al Talmud (qui e qui per una interessante ricostruzione letteraria).

Consideriamo la seguente variante che prelevo, per comodità, dalla trattazione che Lucius Etruscus e Danilo Arona ne hanno fatto sul sito di Carmilla nel 2013 nell’articolo intitolato La parabola della morte inevitabile:

C’era a Baghdad un mercante che mandò il suo servo al mercato per far provviste. E il servo ritornò ben presto, pallido e tremante, e disse: “Padrone, poco fa, mentre ero al mercato, fui urtato da una donna nella folla, e quando mi volsi mi accorsi che era stata la Morte a urtarmi. Mi guardò e fece un gesto minaccioso. Te ne supplico, prestami il tuo cavallo e io abbandonerò questa città per sfuggire al mio destino. E andrò a Samarra, dove la Morte non potrà trovarmi”. Il mercante gli prestò il suo cavallo, e il servo montò in sella e, spronando a sangue l’animale, partì al galoppo. Allora il mercante si recò alla piazza del mercato e mi scorse tra la folla. “Perché hai fatto un gesto minaccioso al mio servo, stamane?” mi chiese, avvicinandosi. “Il mio gesto non era di minaccia, bensì di sorpresa”, risposi. “Fui stupita di vederlo a Baghdad poiché avevo un appuntamento con lui questa notte a Samarra”.

La storia ha indubbiamente un suo fascino, dovuto a una certa ineluttabilità che accompagna l’idea di morte e alla nozione sottesa che il nostro destino sia già scritto a dispetto di ogni nostro possibile sforzo in senso contrario. Immagino che il testo eserciti una certa attrazione soprattutto su chi è incline al fatalismo. Questi, infatti, può trovare in esso una conferma delle proprie propensioni. Dal momento che in ognuno di noi si nasconde un fatalista, per quanto ci ostiniamo a negarlo, credo che tutti possano trarre un motivo di piacere dalla lettura del racconto. Del resto, il fatalismo è tentatore perché asseconda la convinzione “egosintonica” che quello che ci accade nella vita è indipendente dalla nostra volontà. Perché sforzarsi, dunque, se qualcuno ha già tessuto la trama della nostra esistenza? Perché studiare per quel concorso, darsi da fare per quella ragazza, andare alla ricerca di quel lavoro? Se il destino vuole…

Ma sto divagando.

Danilo Arona, nell’articolo citato, accenna ad alcune possibili interpretazioni della storia della morte a Samarcanda, che rimandano all’effetto nocebo e al concetto di “epiontica”. Leggete l’articolo per saperne di più perché ne vale la pena.

In questa sede, avanzo una ulteriore interpretazione. La storia della morte a Samarcanda può essere letta come una profezia che si autoavvera, seppure di un tipo particolare.

Qual è la profezia? La profezia che incombe, anche se inespressa, su ognuno di noi sin dal giorno della nascita, è: “Tutti dobbiamo morire”. È una verità che conosciamo bene, ma che ci sforziamo di negare a ogni costo. Si potrebbe quasi dire che ogni cosa che facciamo sin da quando nasciamo sia tentare di dimenticare o contrastare questa verità. Secondo una teoria, addirittura, ogni alta realizzazione umana – la letteratura, l’arte, la politica, la medicina ecc. – non è altro che un tentativo maldestro di annientare l’incombere della morte.

Allo stesso modo, il protagonista della storia, da bravo “essere umano”, posto dinanzi alla minaccia concreta di morire, si sforza di negarne la realtà, fuggendo lì dove pensa che la morte non ci sia (ma potrebbe compiere ogni sorta tipo di azione “salvifica”, almeno nelle intenzioni). Tale fuga si dimostra del tutto inutile, anzi contribuisce a fare avverare la profezia iniziale. Alla fine, il morituro, con il suo comportamento, cade proprio fra le braccia della “nera signora”. Il suo destino si compie ineluttabilmente.

Un po’ come la storia di Edipo, anche in questo caso la profezia si avvera all’esito di un comportamento teso a evitarne la realizzazione. Ma più ci si sforza in tal senso, più la profezia si compie. Ancora una volta, il fragile essere umano non può nulla contro la potenza superiore della morte.

Il sentimento di non essere che una palla con la quale il fato gioca e il principio di non decidere il proprio destino spiegano perché siamo spesso solo preoccupati di sfuggire a qualcosa e temiamo ogni decisione.

In fondo, sembra insegnarci la storia della morte a Samarcanda, siamo tutti profeti del nostro destino, anche se non ne siamo consapevoli. Anzi, sono proprio i tentativi di deviare dal corso tracciato da altri per noi a farlo avverare.

Sulla profezia che si autoavvera rimando, come sempre, al mio Oracoli quotidiani. Cos’è e come funziona la profezia che si autoavvera.

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Una cultura aforistica

Viviamo nell’epoca degli aforismi. Anzi, viviamo in una cultura che, per certi versi, potremmo definire aforistica. Tutti amano gli aforismi, amano sentirli, recitarli, ripeterli, brandirli. Gli aforismi si pongono all’inizio e alla fine di conferenze, all’inizio, in mezzo e alla fine di scritti di ogni tipo, spopolano nei Social e sul Web, dove interi siti si peritano di raccoglierli e offrirli agli internauti in cerca di frasi ad effetto. Nella vita quotidiana, quando siamo sui Social, quando adoperiamo i nostri smartphone, propendiamo per forme estreme di concisione perché ci hanno insegnato che la vita è questa e che esagerare con i caratteri ti esclude dalla vita che conta. Brevitas rules, come direbbero Seneca e Shakespeare all’unisono.

Gli aforismi, gli apoftegmi, le massime, le citazioni stringate abbondano su Facebook, Twitter, capi di abbigliamento (t-shirt), involucri di cioccolatini. Gli aforismi sono adoperati per infiorare e abbellire i contenuti anche se non hanno nessuna attinenza con il contenuto del discorso o dello scritto. La nostra cultura ama le citazioni, gli slogan, gli eserghi, gli aforismi, le “frasi celebri”, rilanciati sui social, addossati l’uno all’altro nei libri, gridati da opinion leader, politici, cantanti e religiosi.

Perché? Potremmo domandarci. Una delle ragioni principali è che gli aforismi sanno essere ingannevolmente persuasivi: sono succinti, perentori, compendiosi, si ricordano facilmente, sono pieni di ovvietà e luoghi comuni, ma al tempo stesso sembrano offrire indimenticabili pillole di saggezza. Inoltre, a causa della loro concisione, non richiedono tante spiegazioni. Sono veri perché è così e basta; perché lo dicono loro. Ma lo dice anche la tradizione e l’effetto familiarità che si trascinano nel tempo (più li ascoltiamo o leggiamo e più ci sembrano veri).

In un’epoca in cui la nostra attenzione è invariabilmente suddivisa in mille rivoli – mariti, mogli, figli, amici, colleghi di lavoro, tablet, smartphone, iPod, iPad ecc. – una breve frase concisa e succulenta è quanto ci vuole per attirare l’attenzione. Essa avrà sicuramente più possibilità di essere notata di un lungo brano o addirittura di un intero articolo o di un pachidermico libro. A causa della sua concisione e perentorietà, l’aforisma è spesso abbracciato da chiunque “non abbia tempo da perdere”. Ma anche da chi ha bassa autostima ed è convinto di trovare la soluzione ai propri problemi in poche vocali e consonanti.

Il rischio è quello di liofilizzare la vita e ridurla a poche parole celebri e saccenti, spesso astratte da contesti più ampi e costrette a sostenere l’impalcatura di pensieri molto più ampi e complessi. È triste dirlo ma le persone confondono brevità e saggezza, compendiosità e sapienza: decantano la fugacità e ne fanno il proprio stile di vita.

La vita, però, è complessa, articolata, difficile, irriducibile a compendi eidetici.

Perché l’aforisma blocca il pensiero, lo condensa in poche parole famose che danno l’illusione di sintetizzare i più complessi problemi dell’umanità, parole altamente riduttive, in apparenza profonde e definitive, facili da ricordare e memorizzare e ripetere, ieratiche, che sembrano sfidare ogni analisi critica e ideologica, e fanno contenti i cretini che pensano di essere colti perché sanno citare a memoria queste frasi.

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Mascherine e mutandine

Antropologicamente, viviamo in un’epoca di transizione. L’uomo mascherato, affermatosi, normalizzatosi e interiorizzato negli ultimi due anni sta per essere sostituito dall’antiquato uomo desnudo, privo di mascherine e angosce virali, libero di mostrare incautamente, e senza senso di colpa, naso e bocca.

Le transizioni non sono mai cosa semplice. Trascinano con sé sedimenti, abitudini, vezzi inconsulti di cui è arduo affrancarsi da un giorno all’altro. A tali residui sono poi associati sentimenti, sensazioni, reazioni istintive su cui bisogna esercitare uno sforzo emancipatorio notevole. Lo ripeto: le transizioni non sono mai semplici.

Il modello antropologico dell’uomo mascherato non cederà, dunque, facilmente il testimone alla sua versione precedente. In particolare, si avverte che la mascherina – l’orpello sineddochico per eccellenza di questa pandemia – non ha svolto sinora una mera funzione protettiva, tutelare, preventiva, profilattica, ma ha creato una nuova forma di pudore che traspare prepotentemente quando ci abbassiamo la mascherina in pubblico, sebbene questo gesto sia oggi ufficialmente autorizzato, anzi, nonostante, in molti luoghi, sia ora possibile fare totalmente a meno del salvifico tessuto.

L’abbassamento della mascherina suscita visibilmente reazioni negative, come se la “rivelazione” di naso e bocca fosse divenuta un atto osceno, affine a quello di mostrare seno e pudenda a collettività morali. Si può dire, anzi, almeno per ora, che naso e bocca sono le nuove pudenda: come il seno, il sesso e l’ano, esse comunicano immediatamente intimità e come il seno, il sesso e l’ano possono essere facilmente contagiabili e contagianti: si viene a creare così una contiguità del contagio potenziale che genera inaspettate consonanze.

Lo starnuto, ad esempio, ha ormai acquisito la valenza letale delle escrezioni provenienti da organi considerati, a torto, meno nobili. Espettorazioni ed eiaculazioni, deiezioni rettali e nasali, tumefazioni sessuali e linguali: le contiguità linguistiche e metaforiche tendono sempre più a tracimare l’una nell’altra, a far percepire sovrapposizioni e identificazioni prima inimmaginabili, a suscitare reazioni primordiali prima associate solo a determinate parti del corpo.

A essere sconci, dunque, non sono solo peni e vagine, ma anche nasi e bocche. Questa nuova geografia dell’oscenità ci porta a guardare con fastidio, se non con disgusto, zone del corpo precedentemente ritenute anodine o quasi, ma, al tempo stesso, come accade con il sesso, a provare una nuova forma di eccitazione che probabilmente si intreccerà a nuove forme di perversione e tralignamento morale. Temeremo gli effluvi salivali, ma al tempo stesso li desidereremo. Avremo disgusto di ciò che fuoriuscirà dalle narici, ma al tempo stesso ne saremo incuriositi. Forse, non succederà nulla del genere. Forse, ci attende una rivoluzione del pudore.

Resta il fatto che, a seguito della pandemia, il nostro senso del pudore è mutato. Quale forma assumerà è difficile prevederlo. Sicuramente, non guarderemo più una bocca come un organo innocente.

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Tutti i tic di Rafael Nadal

Così si intitola il breve video che trovate qui sopra, che mostra alcuni dei comportamenti superstiziosi a cui si abbandona il celebre tennista spagnolo poco prima di servire la palla.

In realtà, non si tratta di tic, ovvero di gesti involontari, ma di movimenti intenzionali dotati, secondo il tennista, di una valenza propiziatoria, vale a dire superstiziosa.

Ma perché i gesti scaramantici sono così diffusi tra gli sportivi? Parafrasando quanto dico nel mio Aloni, stregoni e superstizioni

Sarebbe facile ridere di tutti questi complessi quanto bizzarri rituali. In realtà, è necessario considerare che gli sportivi professionisti svolgono un lavoro particolarmente esposto a rischi di ogni tipo. C’è il rischio di perdere la gara importante per la quale si è sudato per tutta una stagione; il rischio di subire una umiliazione da parte degli avversari; il rischio di infortunarsi e mettere a repentaglio la propria carriera.

Tali rischi possono essere connessi a eventi puramente fortuiti, come una palla che rimbalza male, un goal sbagliato per un centimetro, una carambola maledetta che favorisce l’avversario. A tutto questo, va aggiunto che le esibizioni degli sportivi hanno luogo davanti a migliaia (talvolta, milioni) di spettatori; circostanza che incrementa la pressione psicologica sulla propria prestazione perché non c’è modo di nascondere un errore.

La superstizione fornisce, dunque, una sorta di sostegno alle incertezze e ai rischi del gioco.

Ci sono altre funzioni svolte dal comportamento scaramantico in relazione allo sport?

La risposta è sì. Ad esempio, la superstizione incrementa l’illusione di controllo, l’idea, cioè, di poter dominare eventi indipendenti dalle nostre azioni e spesso determinati da eventi puramente casuali. Potrei continuare.

Se vi interessa sapere di più sul perché noi tutti – non solo gli sportivi – ma proprio tutti noi ci abbandoniamo nelle più svariate occasioni a condotte scaramantiche, vi rimando ovviamente al mio Aloni, stregoni e superstizioni.

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C’è davvero una porta su Marte?

Periodicamente, il rover Curiosity, in missione spaziale dal 2012, scatta foto intriganti relative alla superficie del pianeta Marte. E sistematicamente, qualcuno ritiene che tali scatti comprovino, al di là di ogni dubbio, l’esistenza di forme di vita aliena sul pianeta rosso.

Il 7 maggio, è toccato a questa foto, diffusa dalla Nasa, l’“onore” di provocare un ulteriore fraintendimento. Secondo i soliti ben informati, che inevitabilmente hanno contribuito alla circolazione virale dell’immagine, la foto ritrarrebbe addirittura una porta che condurrebbe chissà dove, probabilmente nell’interno di una abitazione marziana. Ashwin Vasavada, scienziato del progetto Mars Science Laboratory, ha provato a ricondurre lo scatto a più miti pretese, etichettando la misteriosa porta come un semplice spazio (peraltro di appena trenta centimetri) tra due fenditure rocciose, ma invano.

Simili “fenomeni” geologici sono abbastanza frequenti su Marte. Tuttavia, è sufficiente una somiglianza, per quanto ambigua, con artefatti a noi noti per scatenare la fantasia dei più accesi credenti nell’esistenza dei marziani.

È strano che solo in pochi abbiano chiamato in causa quell’illusione percettiva conosciuta come “pareidolia”, di cui mi sono abbondantemente occupato nel mio libro Bizzarre illusioni. È evidente che la volontà di credere, per dirla con lo psicologo William James, o semplicemente la credulità, sia più forte di ogni pensiero critico.

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La comunicazione facilitata che non lo è

Il fatto che alcune persone non siano in grado di comunicare o comunichino in modo diverso dalla norma condivisa – come nel caso di alcune forme di autismo – ha spesso indotto aspettative miracolistiche nei confronti di alcune tecniche che promettevano e promettono di far comunicare chi non è in grado di farlo. Una delle più celebri è la cosiddetta “comunicazione facilitata” (Facilitated Communication in inglese). Purtroppo, è anche una delle meno affidabili e screditate.

In cosa consiste la comunicazione facilitata? Una persona, detta “facilitatore”, siede accanto a una persona con autismo, tiene o guida la sua mano e la “aiuta” a scrivere con il supporto di una tastiera di un computer o di un tablet. L’idea sottostante questa pratica è che la persona con autismo abbia bisogno di un piccolo sostegno per riuscire a esprimersi in maniera più o meno fluida. Una volta “sostenuta”, la persona con disabilità sarebbe in grado di esprimersi più o meno come i cosiddetti normali. Tutto molto bello e auspicabile, se non fosse che i “successi” comunicativi dell’assistito sono dovuti ad altro.

Molti test hanno provato, al di là di ogni dubbio, che, in realtà, la comunicazione proviene dal facilitatore stesso. In altre parole, è il facilitatore, in maniera più o meno consapevole, a guidare la mano del facilitato e a fargli dire quello che dice. La dimostrazione che le cose vadano in questo modo è piuttosto semplice. Se si pone alla persona con autismo una domanda di cui conosce la risposta a differenza del facilitatore, la tecnica non funziona più. Questo risultato estremamente critico è emerso ogni volta che la comunicazione facilitata è stata messa seriamente alla prova. Detto più radicalmente, non esistono prove scientifiche di alcun tipo a sostegno della tecnica in questione.

Un altro meccanismo esplicativo chiama in causa la nozione di “azione ideomotoria”. Con questo termine, coniato dal fisiologo inglese William B. Carpenter (1813-1885) nel 1852, si fa riferimento a un insieme di movimenti involontari e inconsapevoli del corpo, compiuti sotto l’influenza di determinate aspettative. Per esprimerci con Carpenter, «l’attesa di un dato risultato è lo stimolo che, direttamente e involontariamente, induce i movimenti muscolari che lo producono». Così, nel caso della comunicazione facilitata, il facilitatore guida inconsapevolmente la persona con disabilità  attraverso movimenti  che danno l’illusione di una comunicazione tra essa e mondo esterno; comunicazione che però è frutto di una interpretazione profondamente errata della realtà. Qui è possibile trovare la mia traduzione, con introduzione, dell’importante testo di Carpenter sull’azione ideomotoria.

Perché diverse persone continuano a credere nell’efficacia della comunicazione facilitata, allora? La risposta è una sola: la speranza. Figli, genitori, parenti e amici della persona con disabilità sperano con tutto il cuore che essa sia vera. E la speranza, che, come dice il proverbio, è l’ultima a morire, fa credere che la comunicazione provenga “realmente” dal facilitato piuttosto che dal facilitatore. È ciò che accade, mutatis mutandis, nelle sedute spiritiche, negli incontri con i sensitivi e in molte altre situazioni in cui è coinvolto il paranormale. In queste circostanze, è la “fede” nel potere del paranormale che determina i suoi successi. A volte, infatti, pur in assenza di miglioramenti effettivi, la forte convinzione nell’efficacia della comunicazione facilitata può generare nel “credente” l’illusione che essa funzioni. Naturalmente, una sensazione illusoria di successo non è la stessa cosa di un reale successo.

Insomma, è il noto meccanismo del wishful thinking: pensiamo che sia vero ciò che desideriamo. Peccato che le cose, nella maggior parte dei casi, non stiano esattamente così!

Questo post è stato ispirato dalla lettura di Dunning, B. “Facilitated Communication Isn’t”, Skeptoid Podcast. Skeptoid Media, 10 maggio 2022, a cui rinvio anche per gli interessanti link inseriti nell’articolo.

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