Come dicono green pass all’estero

Come si dirà green pass al di fuori dell’Italia e, in particolare, nei paesi anglofoni?  Green pass, direte tutti in coro, considerando che la locuzione invalsa da noi contiene ben due termini inglesi. Eppure, la risposta non è affatto scontata e un approfondimento porterebbe a ritenere che si tratti addirittura di uno pseudoanglicismo.

Innanzitutto, nei documenti ufficiali italiani e nei green pass emessi in Italia, i termini adoperati sono altri.

Il decreto legge 22 aprile 2021, n. 52 “Misure urgenti per la graduale ripresa delle attività economiche e sociali nel rispetto delle esigenze di contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19” (poi convertito con modificazioni dalla L. 17 giugno 2021, n. 87), ad esempio, stabilisce all’art. 9 che: “Ai fini del presente articolo valgono le seguenti definizioni: a) certificazioni verdi COVID-19: le  certificazioni  comprovanti lo stato di avvenuta vaccinazione contro il SARS-CoV-2  o  guarigione dall’infezione da  SARS-CoV-2,  ovvero  l’effettuazione  di  un  test molecolare o  antigenico  rapido  con  risultato  negativo  al  virus SARS-CoV-2”. Niente green pass, dunque, ma “certificazione verde COVID-19”.

La stessa terminologia è rinvenibile nei documenti che abitualmente chiamiamo green pass e sui quali, come dovremmo sapere (ma non è affatto scontato: spesso non ricordiamo che cosa è scritto sulle banconote, sui documenti e sugli oggetti quotidiani che ci circondano), leggiamo invece “Certificazione verde COVID-19” (EU COVID Certificate). All’interno degli stessi troviamo poi locuzioni come: “Certificazione di vaccinazione” (Vaccination Certificate) o “Certificazione di guarigione” (Certificate of Recovery) che non hanno niente a che vedere con l’espressione da noi adoperata quotidianamente.

Da dove deriva allora la locuzione green pass? Come afferma Licia Corbolante nel suo blog:

Nei media le prime attestazioni del nome in riferimento alle vaccinazioni si trovano a partire da metà febbraio nelle notizie su Israele, dove in inglese è stata chiamata Green Pass l’attestazione digitale che consente a chi è vaccinato di avere accesso ad attività commerciali e uffici. Il nome fa riferimento al sistema di colori del semaforo: il verde segnala via libera.

Da allora i media italiani hanno usato il nome israeliano anche per le certificazioni italiane ed europee, senza verificare che corrispondesse effettivamente ai nomi usati dal Ministero della Salute e dalle istituzioni europee.

E nei paesi anglofoni? Qui l’espressione green pass non è affatto abituale. L’Accademia della Crusca riferisce al riguardo:

Nel mondo anglofono il green pass non sembra godere molta fortuna, assente anche nell’Oxford English Dictionary (OED) (on line), tanto da far sospettare la presenza di uno pseudo-anglicismo.

Utilizzando il metodo degli informatori, la Crusca ci informa che, in Inghilterra, prevale l’espressione vaccine passport, mentre negli Stati Uniti ad avere la meglio sono locuzioni come vaccine certificate, vaccination record, proof of vaccination (o semplicemente CDC (vaccination) card [CDC = Center for Disease Control]), “Covid 19 Vaccination Record Card”.

Detto del green pass israeliano, uscendo dai confini anglofoni, troviamo grüner pass in Germania, impfnachweis, impfzertifikat in Austria, covid-zertificat nella Svizzera tedesca, certificado covid digital in Spagna, passe sanitaire in Francia e così via.

Insomma, giunto a noi da Israele e convertitosi in espressione quotidiana, green pass non è affatto diffuso nel mondo anglosassone, ragione per cui si potrebbe parlare di pseudoanglicismo, ossia di una parola che ha l’aspetto di un anglicismo ma che nella lingua di origine ha un altro significato o non esiste.

Di pseudoanglicismi la nostra lingua è piena. Basti pensare a smoking (per il capo d’abbigliamento), reality (per reality show), spot (per la pubblicità). Ne abbiamo talmente tanti che si potrebbe definire l’Italia il paese degli pseudoanglicismi. E gli pseudoanglicismi non contribuiscono a una buona conoscenza della lingua inglese.

Pubblicato in errori di traduzione | Contrassegnato | Lascia un commento

Gravidanze di ieri e di oggi

Essere incinta è un fatto naturale e tendiamo a pensare che “naturale” stia per “eterno”. Se la natura agisce su di noi in qualche modo, crediamo che ciò avvenga da sempre e che anche le nostre reazioni al fatto siano da sempre le stesse.

Eppure, gli uomini e le donne hanno assunto nei confronti della gravidanza atteggiamenti non solo diversi, ma addirittura opposti nel corso del tempo. Ed è curioso che ciò non sia avvenuto nel passaggio da un millennio o da un secolo all’altro, ma nel giro di pochi decenni.

Lo ricorda Alessandra Piontelli in un libro insolito dedicato al feto e alle sue rappresentazioni: Il culto del feto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2020).

Negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, ad esempio,

alle donne in gravidanza venivano somministrate pillole per dormire, anfetamine per controllare il peso e la linea e per combattere la sonnolenza durante il giorno, pillole per ridurre l’appetito eccessivo e benzodiazepine per tenere a freno l’ansia. Si raccomandava loro di bere vino e superalcolici per rilassarsi, le si incoraggiava a consumare pinte di birra quale ottima fonte di selenio, potassio, magnesio, fosforo e complesso vitaminico B (nelle ultime settimane di gravidanza la birra era poi raccomandata per produrre latte in abbondanza e favorire così l’allattamento al seno). Il fumo veniva incoraggiato per rilassarsi e per abbassare di conseguenza la pressione […].

Bere latte non pastorizzato o mangiare formaggio anch’esso non pastorizzato erano considerate abitudini salutari e sane in gravidanza, mentre vengono oggi ritenute pericolose perché tali alimenti potrebbero contenere la listeria, un batterio che può causare aborti, nascite premature e persino mortalità alla nascita (o morte neonatale), oltre a gravi infezioni nel feto e nel neonato. Sgombri, sarde, sardine e aringhe erano tutti altamente consigliati, e in grandi quantità, quali preziose fonti quotidiane di ferro. Attualmente ci si limita al massimo a due piccole porzioni la settimana per il timore che possano contenere sostanze inquinanti come la diossina. I pesci in generale erano consigliati in quanto sorgente di fosforo per rafforzare le ossa e i denti della donna incinta e del feto, ma oggigiorno molti risultano da evitare perché potrebbero contenere mercurio, collegato a danni cerebrali e a ritardi nello sviluppo del feto.

La carne cruda, che era raccomandata per tenere a bada l’anemia, viene oggi proibita per il rischio di toxoplasmosi, Escherichia coli e salmonella; i salumi erano considerati una buona sorgente di proteine, che le donne incinte potevano consumare quando ne avevano voglia o quando non se la sentivano di cucinare, mentre oggi sono vietati perché possono causare la listeriosi. Le uova crude o poco cotte, e i cibi che le includono, come la crema pasticcerà, la maionese o i gelati, erano ritenuti ottimi alimenti in quanto altamente nutritivi, mentre oggi sono tutti vietati perché potrebbero contenere la salmonella. Il caffè era raccomandato senza alcuna restrizione per lottare contro la sonnolenza eccessiva e per quando ci si sentiva svenire o un po’ deboli, mentre oggi è entrato a far parte della lista nera per il rischio di aborti, innalzamento della pressione nella donna e tachicardia nel feto. Infine, le donne incinte che avevano gatti pulivano regolarmente le lettiere, pratica che è attualmente proibita per il rischio di contrarre la toxoplasmosi (pp. 9-10).

Insomma, un intero elenco di alimenti e comportamenti un tempo caldamente raccomandati alle donne incinte costituiscono oggi l’esatto opposto: un lungo elenco di alimenti e comportamenti da evitare a ogni costo se si vuole che il feto cresca sano e si sviluppi in un bambino forte. Un bel cambiamento a distanza di pochi decenni!

Non è tutto. Mentre un tempo la gravidanza era probabilmente vissuta con minore ansia o almeno con ansie diverse, oggi è circondata da una coorte infinita di timori e preoccupazioni che accompagna tutto il percorso della gestante dall’inizio alla fine in un crescendo costante di potenziali incubi e minacciosi rischi.

La storia delle reazioni sociali alla gravidanza ci mostra che anche un fatto apparentemente del tutto naturale come l’essere incinta è in realtà investito da un numero enorme di fattori sociali e psicosociali che possono trasformare lo stesso fenomeno in qualcosa di totalmente diverso secondo le epoche di riferimento. Si potrebbe parlare al riguardo di una vera e propria sociologia mutevole del feto, determinata dai progressi della medicina, della tecnologia (ecografie), dalle rappresentazioni sociali prevalenti della gravidanza, dalle diverse idee sull’uomo e sulla donna, sui rapporti tra i sessi, sul ruolo della donna nella società ecc.

Pubblicato in Sociologia | Contrassegnato | Lascia un commento

La stupidità è una cicatrice

Che cos’è la stupidità? Secondo l’efficace metafora mefistofelica di Horkheimer e Adorno, è una cicatrice: una cicatrice che si forma quando quella singolare antenna che, sin dalla nascita, proiettiamo nel mondo esterno e che prende i nomi di “curiosità”, “intelligenza”, “vivacità”, “speranza” viene ostacolata, impedita, violentata o addirittura recisa dalla società violenta, ossia da coloro – famiglia, coniugi, amici, compagni di studio, colleghi, politici, decisori, economisti – che, invece di consentirne la massima estensione, volontariamente o involontariamente, fanno di tutto per opporvisi.

Frustrazione, ostinazione, fanatismo, codardia, cattiveria sono solo alcune delle pessime abitudini che il mondo conosce e che adopera per atrofizzare la nostra delicata antenna e lasciare al suo posto un corpo calloso che Horkheimer e Adorno chiamano, appunto, stupidità.

La stupidità non è, dunque, una qualità innata, ma il risultato di un’interazione tra le nostre facoltà e il mondo esterno; non è una caratteristica intrinseca, ma il precipitato del nostro continuo dialogo con la società.

Horkheimer e Adorno adottano una prospettiva chiaramente interazionista e sociologica nel descrivere, seppure brevemente e in forma di appunto, la genesi della stupidità nel contesto di un’opera famosa, Dialettica dell’illuminismo, pubblicata per la prima volta nel 1947 ad Amsterdam, dopo una sconvolgente guerra mondiale e dopo il crollo di un ancora più sconvolgente regime nazista che, dell’attacco all’intelligenza, all’antenna mefistofelica, aveva fatto la sua bandiera.

In quel periodo, molti corpi erano rimasti paralizzati non solo fisicamente a causa della guerra materiale, ma anche intellettualmente perché la guerra è un attentato continuo alla riflessione e alla ragione; un tentativo incessante di recidere l’antenna e creare cicatrici esiziali o almeno destinate a rimanere per sempre; non dissimilmente dai numeri che i nazisti tatuavano sulle braccia delle loro vittime internate nei campi di concentramento a memoria perpetua, anche in caso di sopravvivenza, della loro condizione subumana e disumana.

La stupidità diviene, così, un cancro interno e sempiterno quasi impossibile da estirpare così come è impossibile che un’antenna recisa ricresca o sostituisca la cicatrice che ha preso il suo posto. E allora, se la stupidità è la lesione dello spirito paralizzato dal terrore, oggi la stupidità è la paralisi causata dall’eccesso di informazioni e di dati, dal traboccare di notizie indecifrabili o false, dalla disinformazione e dalla malinformazione, dall’overkill conoscitivo da cui siamo circondati che rende quasi impossibile orientare l’antenna nel verso giusto.

Stupidi per eccesso, non per deficienza, dunque. Nel nostro mondo, sembra che nulla ci sia vietato, interdetto, proibito, ma l’effetto è lo stesso riferito da Horkheimer e Adorno:la speranza si arresta, le nostre facoltà si pietrificano e tutti noi continuiamo, ancora una volta, a vivere sotto un bando.

Di seguito: Sulla genesi della stupidità di Horkheimer e Adorno

Il simbolo dell’intelligenza è l’antenna della chiocciola «dalla vista tastante» che, secondo Mefistofele, le serve anche per odorare. L’antenna si ritira subito, davanti all’ostacolo, nella custodia protettiva del corpo, torna a fare una sola cosa col tutto, e solo con estrema cautela si avventura di bel nuovo come organo indipendente. Se il pericolo è ancora presente, torna a sparire, e l’intervallo fino alla ripetizione del tentativo aumenta. La vita spirituale è, alle origini, infinitamente fragile e delicata. La sensibilità della chiocciola è affidata a un muscolo, e i muscoli si allentano quando il loro gioco è impedito. Il corpo è paralizzato dalla lesione fisica, lo spirito dal terrore. Questo e quella sono, all’origine, inseparabili.

Gli animali più sviluppati devono se stessi alla maggiore libertà, la loro esistenza è una prova che delle antenne furono allungate un tempo verso nuove direzioni, e non furono respinte. Ognuna delle loro specie è il monumento funebre di infinite altre, il cui tentativo di divenire è stato frustrato fin dall’inizio; che soggiacquero al terrore fin da quando un’antenna si mosse nel senso del loro divenire. Il soffocamento delle possibilità da parte della resistenza immediata della natura esterna continua all’interno con l’atrofizzarsi degli organi sotto l’azione del terrore. In ogni sguardo curioso di un animale albeggia una nuova forma di vita, che potrebbe emergere dalla specie determinata cui appartiene l’essere individuale. Non è solo la determinazione specifica a trattenerlo nella guaina del suo vecchio essere: la violenza che incontra quello sguardo è quella, antica di milioni di anni, che lo ha fissato da sempre al suo stadio e blocca, opponendosi sempre di nuovo, i primi passi per superarlo. Quel primo sguardo vacillante è sempre facile da spezzare; poiché ha dietro la buona volontà, la fragile speranza, un’energia costante. L’animale diventa, nella direzione da cui è stato definitivamente respinto, stupido e schivo.

La stupidità è una cicatrice. Essa può riferirsi a una capacità fra le altre, o a tutte le facoltà pratiche e intellettuali. Ogni stupidità parziale di un uomo segna un punto dove il gioco dei muscoli al risveglio è stato impedito anziché favorito. Con l’impedimento cominciava, in origine, la vana ripetizione dei tentativi inorganici e maldestri. Le domande senza fine del bambino sono già sempre il segno di un dolore segreto, di una prima domanda a cui non ha avuto risposta e che non sa porre nella forma giusta. La ripetizione ha qualcosa dell’ostinazione giocosa, come quando il cane salta senza fine davanti alla porta che non sa ancora aprire, e finisce per desistere se la maniglia è troppo alta, e qualcosa della coazione senza speranza, come quando il leone nella gabbia va infinitamente su e giù, e il nevrotico ripete la reazione di difesa che è già stata vana una volta. Quando le ripetizioni si spengono nel bambino, o se l’impedimento è stato troppo brutale, l’attenzione può rivolgersi altrove, il bambino è più ricco d’esperienza, come si dice, ma è facile che resti, nel punto in cui la voglia è stata colpita, una cicatrice impercettibile, una piccola callosità, dove la superficie è insensibile. Queste cicatrici danno luogo a deformazioni. Possono creare «caratteri» duri e capaci, possono rendere stupidi – nel senso della deficienza patologica, della cecità e dell’impotenza, quando si limitano a stagnare; nel senso della malvagità, dell’ostinazione e del fanatismo, quando sviluppano il cancro verso l’interno. La buona volontà diventa cattiva per la violenza subita. E non solo la domanda proibita, anche l’imitazione interdetta, il pianto o il gioco temerario vietati, possono produrre di queste cicatrici. Come le specie della serie animale, anche i livelli intellettuali entro il genere umano, e i punti ciechi in uno stesso individuo, segnano le stazioni a cui la speranza si è arrestata, che attestano nella loro pietrificazione, che tutto ciò che vive è sotto un bando (Horkheimer, M. Adorno, T. W., 1980, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, pp. 273-275).

Pubblicato in Sociologia | Contrassegnato | Lascia un commento

Sorveglianza pandemica

Covid-19 ha favorito l’introduzione nel corpo sociale di nuove forme di sorveglianza tecnologica (tracker, app, termometri da remoto ecc.) a cui siamo stati costretti ad abituarci repentinamente, ma che rischiano, per inerzia, di installarsi definitivamente nelle nostre esistenze come dispostivi “normali” di controllo.

Il verbo della sorveglianza è diventato talmente capillare da essere interiorizzato rapidamente da tutti noi e da essere avvertito come “ovvio”, “scontato”. Questa forma di sorveglianza interiorizzata ha avuto, e ha, effetti evidenti sul nostro comportamento, come sottolinea il sociologo David Lyon, nel recente Gli occhi del virus. Pandemia e sorveglianza (Luiss University Press, Roma, 2022):

[…] noi, oggetti della sorveglianza, ne siamo anche i soggetti. Mentre le app, le telecamere, i dispositivi indossabili ci “osservano”, anche noi ci guardiamo furtivamente gli uni con gli altri, controllando se indossiamo la mascherina, se manteniamo la distanza di sicurezza sui marciapiedi, se i vicini si stiano vedendo con qualcuno che non appartiene al loro nucleo familiare. Inoltre, il modo in cui siamo classificati – “asintomatico”, “vaccinato”, “esposto a un caso positivo” – potrebbe influire sul modo in cui consideriamo noi stessi e vediamo, valutiamo e interagiamo con gli altri, perfino su come giudichiamo il nostro rapporto con loro. La ragione è che oggi elaboriamo nuove culture della sorveglianza, per cui si genere un “effetto loop” tra le classificazioni e le persone classificate. Queste ultime non sono classificano gli altri, ma possono modificare le loro attività a fronte della propria classificazione in termini di sorveglianza (Lyon, 2022, p. 19).

In questo modo, Big Brother non ha bisogno di essere rappresentato da un dispositivo o da un occhio elettronico. Esso penetra nei nostri occhi e li abitua a categorizzare il mondo in modi mai visti prima, che designano comportamenti un tempo considerati normali come sospetti, se non pericolosi.

Così, indossare la mascherina, fino a poco fa considerato condotta discutibile e losca, appare oggi come perfettamente normale, anzi raccomandabile, se non dovuta. Toccare uno sconosciuto per caso, prima una circostanza al più seccante, suscita ora apprensione, se non paura, perché non sappiamo chi è la persona in cui ci siamo imbattuti. Incrociare uno sconosciuto può generare nell’altro gesti di protezione o evitamento che possono farci sentire respinti o indesiderati. Una mascherina abbassata può indurre in noi frettolosi giudizi di riprovazione che trascendono facilmente in giudizi sulla personalità complessiva dell’altro. E così via.

La nuova cultura della sorveglianza porta con sé un eccesso di categorizzazioni e di sospetti che tracimano nella paranoia e nella diffidenza.

L’interiorizzazione di tali categorie interpretative del sospetto è ormai divenuto fatto normale. Quanto tempo ci vorrà affinché siano rimosse dal corpo sociale?

Pubblicato in Sociologia | Contrassegnato | Lascia un commento

Sociologia della fiducia

Possiamo fidarci delle persone intorno a noi? La nostra società individualistica e postdemocratica si regge ancora sulla fiducia o questa si è erosa a tal punto da essere diventata merce rara?

Da più parti si levano lamenti inconsolabili sulla scomparsa della fiducia nella contemporaneità. Al giorno d’oggi – sostengono alcuni – non possiamo più avere fiducia nel vicino di casa (“non ci sono più i vicini di un tempo”), nel coniuge (sempre pronto a tradirci al minimo attrito), nel collega di lavoro (sempre pronto a farci le scarpe), negli amministratori pubblici (che si fanno eleggere per il proprio tornaconto personale), nelle forze dell’ordine (che non ci sono mai quando ne abbiamo bisogno) e nello Stato (disponibile solo a imporre nuovi balzelli). Insomma, la sfiducia regnerebbe sovrana, come mai prima d’ora.

Eppure, da un punto di vista sociologico, sembra che le cose non stiano in questi termini e che, anzi, la fiducia sia quotidianamente e costantemente praticata da tutti noi. Essa rappresenta una risorsa talmente radicata nella vita contemporanea che spesso la diamo per scontata, anche se conferisce struttura e ordine a ogni nostra azione.

Pensiamoci. Quando lasciamo i nostri figli a scuola, lo facciamo nel presupposto fiduciario che essi saranno accuditi e istruiti e che i loro insegnanti non si riveleranno dei mostri in cerca di giovani vite da sacrificare a una divinità assetata di sangue. Quando guidiamo, lo facciamo nel presupposto fiduciario che gli altri non invaderanno la nostra corsia, si fermeranno al rosso del semaforo e parcheggeranno solo in spazi predefiniti. Al tempo stesso, quando attraversiamo la strada sulle strisce pedonali siamo fiduciosi che gli automobilisti non ci investiranno e ci permetteranno di procedere in tranquillità. Quando acquistiamo un prodotto con la nostra carta di credito, lo facciamo nel presupposto fiduciario che il negoziante non ne approfitterà per truffarci, addebitandoci, ad esempio, una cifra superiore al dovuto. Quando depositiamo i nostri soldi in banca, lo facciamo nel presupposto fiduciario che bancari e banchieri non porteranno via i nostri risparmi per finanziare costose vacanze in luoghi esotici. Gli esempi potrebbero continuare.

La nostra società si fonda su una sottile, ma solida, struttura reticolare di rapporti fiduciari che costituisce l’essenza stessa della società contemporanea e che pure diamo per scontata. Si può dire, anzi, che nessuna società, prima della nostra, si sia fondata su un numero così alto di relazioni basate sulla fiducia e che, se la risorsa fiducia venisse improvvisamente a mancare, le nostre comunità crollerebbero rovinosamente.

La fiducia è, infatti, il collante che crea legami tra le persone, genera collaborazione e produce solidarietà. Ciò è talmente vero che se essa viene a mancare in una qualsiasi delle situazioni prima descritte, ci sentiamo traditi, violati, abusati. Non a caso molti reati si basano proprio sulla profanazione di quell’ordine fiduciario, sottile e invisibile, che informa le nostre esistenze. Gli inglesi, al riguardo, hanno coniato l’espressione “con man” (con sta per confidence, ossia fiducia) per designare il truffatore che mette a segno i suoi colpi, approfittando della fiducia altrui.

Nella nostra società, la fiducia è una risorsa importante anche perché informa di sé le miriadi di rapporti di dipendenza (amicale, sentimentale, lavorativa, informale) che strutturano la nostra vita. Noi dipendiamo da tante persone e tante persone dipendono da noi. Se questi rapporti di dipendenza non fossero lubrificati dalla fiducia, sarebbe impossibile vivere.

Naturalmente, questo non significa che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che possiamo fidarci di tutti indistintamente e ingenuamente. Significa semplicemente che la fiducia svolge un ruolo sociale molto più rilevante di quanto sospettiamo e che compromettere tale ruolo può minare l’ordine sociale in maniera catastrofica.

Pubblicato in Sociologia | Contrassegnato | Lascia un commento

Lutero e il placebo

Tradizionalmente, per placebo si intende ogni sostanza priva di elementi attivi somministrata a un paziente, i cui disturbi non siano di origine organica, per suggestionarlo facendogli credere che si tratta di una cura reale. Ma, placebo è anche ogni sostanza usata in sostituzione di un farmaco per misurarne l’azione farmacologica. Inoltre, l’effetto placebo può verificarsi anche con l’impiego di sostanze attive e anche in assenza di terapia farmacologica o di contesto medico. Ad esempio, il placebo può essere costituito da farmaci la cui azione è accresciuta dalla fiducia che il paziente e il medico nutrono nei loro confronti. Infine, si può avere un effetto placebo quando a somministrare un determinato farmaco è un determinato individuo piuttosto che un altro: ad esempio un medico in camice bianco piuttosto che un medico in borghese.

Di quest’ultimo tipo di effetto placebo, fece esperienza Martin Lutero nel 1532, secondo la testimonianza di un suo seguace Veit Dietrich, che così trascrisse un’osservazione del riformatore religioso:  

Io la penso cosi, che in tutte le gravi malattie ci sia l’opera del Diavolo: 1) perché egli è autore della morte; 2) così Pietro, negli Atti degli Apostoli, chiama gli oppressi dal Diavolo sanati da Cristo; Cristo d’altra parte curò non solo gli oppressi, ma anche i paralitici e i ciechi ecc. Ecco perché in generale ritengo che tutte le gravi malattie siano colpi del Diavolo. Egli tuttavia per far questo si serve degli strumenti della natura. Come il ladrone uccide con la spada, cosi Satana corrompe le qualità e gli umori. Cosi come Dio stesso si serve di mezzi quali il sonno, il cibo, il bere per conservare la salute, cosi anche il Diavolo nuoce con mezzi adatti. Quando la siepe si inclina un poco in avanti, lui allora la spinge a terra fino in fondo. Cosi il medico è il rattoppatore del nostro Signore Iddio nel corpo, come noi teologi lo siamo nello spirito, perché ripariamo le cose quando il Diavolo l’ha guastate. Cosi il medico dà la triaca, quando Satana dà il veleno. Con l’impiego della creatura, cura la natura. Infatti la medicina è rivelata divinamente, non deriva dai libri, come anche la scienza del diritto non viene attinta dai libri, ma dalla natura. È miracoloso poi, e questo lo so con certezza, che abbiano efficacia le medicine che i principi danno con le loro mani. Se le desse un medico, non avrebbero efficacia. Così tutti e due i duchi [Federico e Giovanni] posseggono un collirio che dà giovamento quando sono loro a darlo, sia la causa del morbo calda o fredda; un medico non può darlo. Lo stesso accade nella teologia. Filippo mi solleva dall’abbattimento con una parola; detta invece da Eck o da Zwingli, la stessa parola mi avrebbe afflitto ancora di più (Martin Lutero, 1969, Discorsi a tavola, Einaudi, Torino, p. 65).

Potrebbe sembrare curioso che, in questo caso, l’effetto placebo si verifichi quando il somministratore del rimedio non è un medico, ma un principe o un duca, ma dobbiamo considerare che, all’epoca, nel XVI secolo, la medicina non godeva dello status odierno, mentre a re e principi erano attribuiti poteri taumaturgici miracolosi, come testimonia il bel libro di Marc Bloch, I re taumaturghi (1924). Simbolicamente, dunque, l’efficacia placebica di un re era molto superiore a quella di un medico, così come l’efficacia placebica di un medico oggi è molto superiore a quella di un politico.  

Per Lutero, inoltre, ricevere un farmaco da un amico o da un teologo di vedute affini alle sue sortiva effetti molto più rassicuranti rispetto a ricevere lo stesso farmaco da un teologo di diversa fede.

Ciò significa che l’efficacia di un placebo dipende anche da configurazioni storiche e psicologiche mutevoli nel tempo e nello spazio e diverse da individuo a individuo. Nella configurazione attuale, ad esempio, è possibile che un farmaco somministrato da un celebre influencer risulti di maggiore efficacia placebica di un farmaco somministrato da un medico.

Ogni epoca ha la sua “struttura magica” di riferimento. Non dovremmo, dunque, sorprenderci del fatto che un influencer subentri a un nobile o a un principe come “persuasore placebico”. Così come non dovremmo sorprenderci se un farmaco somministrato a un bambino da qualcuno vestito da Topolino può risultare altrettanto efficace placebicamente di un farmaco somministrato a un adulto da un medico in camice bianco.

Pubblicato in profezia che si autoavvera, psicologia | Contrassegnato , | Lascia un commento

Crisi energetica, acqua e virus

Vivere in epoche attraversate da crisi comporta la necessità di adattarsi rapidamente a prospettive mutevoli, se non contraddittorie, senza cadere nella schizofrenia. Crisi diverse, seppure contigue temporalmente, implicano, infatti, atteggiamenti diversi nei confronti della realtà al punto che ciò che oggi appare importante non lo è più domani – letteralmente domani – e viceversa.

Consideriamo, ad esempio, il modo in cui è cambiata la nostra postura nei confronti dell’acqua. Fino a pochi mesi fa, ma ancora oggi in realtà, l’imperativo, causa pandemia, era lavarsi le mani e il corpo – e bene – più volte al giorno con tanto di lezioni, anche televisive e social, su come eseguire le abluzioni nel migliore dei modi. Nessun millimetro della nostra pelle doveva sfuggire al salvifico flusso acqueo di docce e rubinetti, senza lesinare in quantità. La salute, prima di tutto.

Poi, mentre l’amuchina prendeva gradualmente il posto dell’acqua nel nostro immaginario tutelare, qualcosa è cambiato. Complice la crisi energetica innescata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la prospettiva è bruscamente mutata. Il consumo di acqua – soprattutto di acqua calda – ci dicono gli opinion leaders o presunti tali, andrebbe, se non razionato, almeno ridotto, tanto che il ministro dell’economia tedesca Robert Habeck ha addirittura consigliato, pochi giorni fa, di limitare le docce a cinque o due minuti.

Lavarsi di meno, dunque, per ridurre il consumo di energia elettrica, una issue, quest’ultima, che sembra improvvisamente essere divenuta più urgente e pressante di quello che, pochi mesi fa, era il problema principale: salvarsi la vita dal virus attraverso lavaggi corretti. E non importa che il virus circoli ancora nelle sue mutevoli varianti. Si tratta, ormai, di una background issue, una questione da relegare nello sfondo delle nostre vite quotidiane e ormai sopravanzata da questioni ben più rilevanti.

Il rischio di fronte a tanta rapidità di cambiamenti è, come detto, quello della schizofrenia sociale. In alternativa, dovremmo imparare a modificare celermente le nostre priorità in accordo con lo zeitgeist del momento; che non dura più generazioni intere, come un tempo, ma l’istante di un battito di ciglia.

Pubblicato in storia | Contrassegnato | Lascia un commento

Nuovi tempi, nuovi furti

Nella nostra società turbocapitalistica, l’automobile è ormai una estensione del sé per cui qualsiasi cosa venga fatta a essa è come se fosse fatta alla propria persona. Un graffio alla vettura viene percepito come una cicatrice sul volto; una parte mancante o derubata come un arto amputato.

Ecco perché il furto d’auto o di parti dell’auto non viene mai percepito solamente come una sottrazione di un oggetto indeterminato, ma quasi come un delitto contro la persona, un affronto all’onore (termine peraltro in disuso), un vulnus in grado di scatenare una sorta di sindrome post-traumatica da stress.

Tradizionalmente, erano temuti i furti di autoradio o di pneumatici, di cui, nei decenni precedenti, si è fatto strame. Oggigiorno, le componenti preziose dell’auto sono mutate e sembrano concentrarsi in una parte prima trascurata: la marmitta catalitica o catalizzatore. Da qualche tempo, infatti, le cronache non solo nazionali, ma internazionali (ad esempio da Londra o dagli Stati Uniti), ci raccontano di strani furti in cui a essere asportata è appunto la marmitta catalitica, un dispositivo che ha il compito di trasformare chimicamente le sostanze nocive alla salute e all’ambiente presenti nei gas di scarico in elementi o composti innocui o comunque con un impatto negativo minore. Serve, inoltre, a ridurre la rumorosità dell’auto.

Il catalizzatore è stato introdotto in tempi relativamente recenti e si trova nelle auto come le Euro 4, le Euro 5 e le Euro 6, concepite per osservare gli standard ambientali e antiinquinamento imposti ormai in tutto il mondo.

Perché tali furti sono “strani”? Perché i catalizzatori vengono razziati non per le loro funzioni intrinseche, non per essere rivenduti e installati su altre auto – come succedeva all’autoradio e agli penumatici – ma perché contengono metalli nobili come il palladio, il rodio e il platino, particolarmente appetiti dal mercato. Tra le tante vetture in circolazione sembra che il target prediletto dai ladri sia costituito dai Suv (perché la loro altezza da terra facilita il furto), dalle Smart (perché la marmitta catalitica è facilmente estraibile dopo aver smontato il paraurti posteriore) e dalle Panda (come è capitato a me).

Si tratta, dunque, di un furto eminentemente contemporaneo in quanto presuppone auto prodotte negli ultimi anni (anche se con qualche anno alle spalle: l’età, infatti, sembra aumentare il valore dei metalli preziosi) per rispondere a standard contemporanei di ecocompatibilità. Il problema è che sostituire un catalizzatore può costare davvero tanto (mille euro e oltre), anche perché i ladri, nella fretta dell’esecuzione del gesto illecito, strappano il catalizzatore con particolare brutalità, causando danni anche ad altre parti dell’auto (potremmo definirli ipocritamente “danni collaterali”). In alcuni casi, la vettura viene addirittura sollevata su un lato prima di procedere alla rimozione dell’oggetto con gravi conseguenze alla carrozzeria.

Sembra, infine, che rubare marmitte catalitiche non sia semplice come si crede. Alcuni ladri sono morti durante l’esecuzione del delitto perché, dopo aver sollevato la vettura con un cric ed essersi infilati sotto la stessa, questa è ricaduta improvvisamente su di loro, uccidendoli. Una sorta di nemesi automobilistica che farebbe ridere se non fosse una cosa tragica.

Il furto del catalizzatore è ormai diffuso a macchia d’olio. E dovremmo sentirci tutti a rischio per questo. Se, però, psicologicamente, la sottrazione della marmitta catalitica arreca un danno al nostro io amputandolo di una sua parte, al tempo stesso lo rafforza e lo impreziosisce: quanti di noi, in effetti, sanno di portare in giro palladio, rodio e platino quando guidano, come i re Magi conducevano oro, incenso e mirra quando si recarono a trovare un bambino misterioso?

Dopotutto, sembrano dirci i ladri, noi valiamo molto di più di quanto crediamo. Ed è per questo, forse, che ci derubano.

Pubblicato in criminologia | Contrassegnato | Lascia un commento

Il sonno come fatto culturale

Oggigiorno, dormire sette o otto ore di seguito a notte è considerato da tutti gli esperti come il modo migliore di assicurare al nostro organismo un benessere psicofisico ottimale, in grado di farci affrontare la giornata in totale serenità. Questa raccomandazione è diventata talmente routinaria che, per noi, ogni altro stile di sonno sarebbe considerato improprio, se non nocivo. Non a caso l’insonnia è uno dei nemici quotidiani di noi contemporanei, così come ogni interruzione involontaria del sonno durante la notte.

Può dunque destare meraviglia il fatto che, nell’Europa premoderna, le persone osservavano uno stile segmentato o bifasico di sonno che oggi troveremmo strano, se non patologico. In quei tempi, infatti, si andava a dormire poco dopo il tramonto per circa quattro ore, ci si svegliava intorno alla mezzanotte, rimanendo svegli per una o due ore, per poi ripiombare nel sonno poco dopo.

Lo storico Roger Ekirch, autore del libro At Day’s Close: Night in Times Past (2006), menziona al riguardo l’esistenza di un “primo sonno” e di un “secondo sonno” come caratteristiche precipue del sonno medievale. L’intervallo tra il primo sonno e il secondo, chiamato dorveille, era riempito andando “in bagno” (anche se all’epoca andare in bagno significava qualcosa di diverso da oggi), rimanendo presso il focolare, svolgendo le faccende domestiche, facendo sesso, visitando i vicini o pregando.

Del resto, il sonno in epoca preindustriale non poteva certamente essere considerato ideale. La criminalità notturna, il rischio sempre incombente di morte, i frequenti incendi, il calore insopportabile, il freddo pungente, la presenza di pulci e pidocchi, l’assenza di una vera privacy erano tutti fattori non certamente congeniali a un sonno di otto ore ininterrotto.

Le cose cambiarono completamente a partire dal Settecento. La rivoluzione industriale, l’invenzione della luce artificiale, l’assunzione frequente di caffeina, la diffusione degli orologi, i nuovi ritmi di lavoro stravolsero gli abituali cicli sonno-veglia, introducendo l’idea di sonno uniforme e ininterrotto, più funzionale alle cadenze imposte dalle nuove forme di lavoro capitalistiche, basate sull’ossessione della produttività e sulla equivalenza frankliniana tra tempo e denaro.

Tale stravolgimento divenne con il tempo senso comune al punto che oggi un sonno prolungato e ininterrotto è diventato il modo normale e ideale di dormire, un’abitudine naturale ogni deviazione dalla quale desta serie preoccupazioni.

Non dobbiamo, tuttavia, pensare a una netta contrapposizione tra un modello premoderno e uno moderno di sonno. In realtà, anche nel Medioevo, come attestano vari documenti, si dormiva in maniera piuttosto varia e non esisteva un modello universalmente accettato da tutti, a riprova del fatto che la vita (e il sonno) era molto più diversificata di quanto siamo propensi a ritenere oggi.

Certo, nella nostra società si dorme meglio che in qualsiasi altra società finora esistita. Su questo pochi sarebbero oggi in disaccordo. Conoscere le condizioni di sonno dei nostri antenati contribuisce, però, a mettere in prospettiva quest’aspetto per noi scontato dell’esistenza e forse a consolarci se qualche nostra notte si rivela insonne.

Pubblicato in storia | Contrassegnato | Lascia un commento

Ave Maria piena di grazia?

Tito Signorelli (1875 –1958), pastore della Chiesa metodista episcopale e sovraintendente della Chiesa Evangelica Metodista d’Italia, è oggi poco conosciuto, se non dimenticato. In vita fu molto attivo, non solo sul fronte religioso. Durante la Prima guerra mondiale, tenne una lunga serie di sermoni e conferenze in cui si scagliò più volte contro il militarismo e la violenza dilagante e si dedicò al miglioramento delle condizioni sociali ed economiche della sua comunità di riferimento.  

Dotato di un carattere forte ed energico, fu esponente di spicco della massoneria nonché scrittore prolifico, autore di libelli dissacranti contro vere e proprie istituzioni del cattolicesimo come la sacra sindone e il rosario.

Nel 1932, pubblicò Il Rosario. Studio storico-critico presso la Tipografia La Speranza di Roma in cui attaccò polemicamente e violentemente la “pia” tradizione del salterio di Maria che vuole che esso sia stato consegnato bell’e fatto nelle mani di san Domenico di Guzmam (1170-1221) direttamente dalla Beata Vergine.

L’attacco, condotto sulla base di precisi documenti storici e di una lettura non agiografica di quello che l’autore definisce un “oggetto papista”, costituisce ancora oggi una delle critiche più feroci alla Chiesa cattolica, seppure scagliata da parte del rappresentante di un movimento religioso – quello dei valdesi – che non conserva un buon ricordo dell’istituzione del rosario: sempre secondo la “pia tradizione”, infatti, il rosario fu adoperato dal fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori per sconfiggere gli eretici valdesi e albigesi. Signorelli, dunque, non era esattamente imparziale nella scrittura del suo studio storico-critico.

Nel suo libello, tuttavia, Signorelli evidenzia quello che, a suo avviso, è un importante errore di traduzione che avrebbe incoraggiato il mito di “Maria piena di grazie”, ancora oggi alla base del modo in cui i cattolici interpretano le “facoltà” della madre di Gesù.

Seguiamo il suo discorso:

È biblico quel «gratia plena», secondo la traduzione papista, con cui l’angelo Gabriele rivolse a Maria il proprio saluto nel dì dell’annunciazione?

No, non è biblico; è antibiblico, perciò eretico.

Il «gratia plena» è uno sproposito di s. Girolamo, con cui egli ha ritenuto di aver fedelmente tradotto la corrispondente voce verbale «checaritomène» del verbo greco «charizòmai» usata dall’evangelista Luca, nel suo Vangelo (I, 28).

Ora la parola «checaritomène» deve tradursi in latino «gratis dilecta», come traduce Teodoro Beza; e in italiano: «ricevuta in grazia», cioè «favorita», secondo la fedele traduzione del Diodati.

E così, invero, s. Girolamo nella «Vulgata» traduce in latino con «gratificavit» la stessa voce verbale greca «checaritomène» di cui si serve Paolo nella sua Epistola agli Efesi (I, 6) per insegnare agli Efesini e a noi che Cristo con la sua grazia ci ha resi «graziosi» a sé.

Dunque su di uno svarione di traduzione la chiesa papista incardina e ad un tempo detrae con arbitraria e quindi erronea esegesi, la leggenda di Maria piena di grazie da lei continuamente profuse con inesauribile generosità, in pioggia di rose – la Madonna delle rose – su tutti i veneratori e adoratori (pp. 49-50).

La beata Vergine, dunque, non sarebbe affatto “piena di grazia” e non potrebbe, perciò, intercedere a favore dei cristiani i quali, secondo la migliore tradizione protestante, non hanno il diritto di chiedere né a lei né ai santi di pregare per loro. Se pensiamo che il motivo dell’intercessione è alla base del culto della Madonna, ancora oggi vivissimo, e rappresenta l’essenza della preghiera del rosario, comprendiamo quanto la rivelazione di Signorelli sia distruttiva nei confronti del comune canone cattolico.

Gli specialisti del settore avranno modo di controbattere. Nel frattempo, non possiamo non rimanere esterrefatti dalle conseguenze che l’interpretazione apparentemente banale di una parola può avere su tutti noi. E pensare che c’è chi dice che le parole… sono solo parole.

Pubblicato in errori di traduzione | Contrassegnato | Lascia un commento