Ancora sull’inganno del “popolo”

In quella che è la sua opera principale, La sociologia del partito politico, da poco ristampata in Italia per merito della Oaks Editrice (2022), il sociologo italo-tedesco Roberto Michels (1876-1936) così scrive:

Nella dura lotta (grandiosa e drammatica talvolta ma sovente combattuta anche in un modo sordo, non avvertibile per chi non vi presti attenzione) tra la nuova classe che ascende e la vecchia classe colpita da un periodo di decadenza, reale in parte ed in parte apparente, l’etica viene tirata sempre in ballo come elemento decorativo. Nell’epoca della democrazia, l’etica è un’arma di cui ciascuno può servirsi. Nell’ancien régime chi era in possesso del potere e chi aspirava a possederlo parlava solo dei suoi diritti, dei diritti della propria persona. La democrazia è più diplomatica, più prudente. Essa ha rifiutato simili teorie reputandole immorali. Tutti coloro che agiscono nella vita pubblica oggi parlano e si battono in nome del Popolo, della collettività.

Governi e ribelli, re e capi partito, tiranni per grazia di Dio e usurpatori, arrabbiati idealisti e ambiziosi oculati, tutti sono «il popolo» e affermano di voler eseguire con la loro opera solo la volontà del popolo (Michels, 2022, p. 45).

In epoca democratica, la nozione di “popolo” diviene una miniera retorica a cui appellarsi in ogni occasione, sicuri di fare effetto sulle masse. La volontà del popolo diviene la volontà sovrana, ma anche la strategia retorica per eccellenza per far breccia nel cuore degli elettori e persuaderli a votare per difendere i propri interessi.

In realtà, è evidente che la parola è ormai solo un paravento semanticamente saturato, adoperato per celare segreti indicibili e interessi innominabili; la password buona a tutto per celare nel file nascosto del computer dell’aspirante parlamentare i veri impulsi che lo spingono a candidarsi e a “servire il popolo”.

Ho deciso da tempo di non fidarmi più di coloro che si appellano al popolo e dichiarano di agire nel nome del popolo. In due post precedenti (questo e questo), ho esposto i motivi di questa mia avversione. Teniamone conto quando il 25 settembre prossimo andremo a votare.

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La “soddisfazione di essere la causa” di Karl Groos

Nel 1901, lo psicologo tedesco Karl Groos (1861-1946)  scoprii che i bambini piccoli esprimono una straordinaria felicità quando si rendono conto per la prima volta di poter provocare effetti prevedibili nella realtà circostante, abbastanza indipendentemente da quale fosse l’effetto e dal fatto di poterlo interpretare come benefico per loro.

Groos coniò al riguardo l’espressione “soddisfazione di essere la causa”, ipotizzando che sia questo il fondamento del gioco, che egli considerava l’esercizio di facoltà per il semplice piacere di esercitarle. In virtù di esso, i bambini arrivano a capire di esistere, di essere entità distinte dalla realtà attorno a loro, e comprendono che sono “loro” ad aver appena causato un avvenimento, e che possono farlo accadere di nuovo. Altro fatto cruciale, questa realizzazione è contrassegnata, sin dall’inizio, da una sorta di delizia che resta lo sfondo essenziale di ogni successiva esperienza umana.

Questa “soddisfazione di essere la causa” rimane il fondamento implicito del nostro essere. È solo quando sappiamo di essere la causa di qualcosa che possiamo trarne soddisfazione. Ecco perché, come ricorda l’antropologo David Graeber, svolgere un lavoro che ci fa sentire inutili o che sembra non avere alcuna conseguenza sul mondo esterno ci rende incapaci di esistere e può avere un effetto devastante sulle nostre vite.

Desideriamo esercitare i nostri poteri come fine in sé. Questo, secondo Groos è tutto ciò in cui consiste davvero la libertà. La libertà è la nostra capacità di inventare le cose per la sola ragione di essere in grado di farlo (Graeber, D., 2018, Bullshit jobs, Garzanti, Milano, p. 115).

Viviamo, però, in una società che ci invita a lavorare per amore del lavoro indipendentemente da che cosa facciamo. Questa feticizzazione assoluta del lavoro è talmente interiorizzata che la diamo per scontata. E se invece ci dedicassimo a svolgere un lavoro che ci fa sentire bene e che è davvero utile per la società? Non sarebbe una rivoluzione come mai se ne è avuta una?

Dovremmo liberarci dei bullshit jobs di cui parla Graeber e smetterla di idolatrare il lavoro in quanto lavoro. Il lavoro non nobilita davvero uomini e donne se non è un lavoro dotato di senso.

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Il misterioso (forse) fenomeno della scopaesthesia nell’articolo pionieristico di Edward Titchener

Mi interessa lo studio psicologico dell’uomo. Stamattina, a colazione, sono stato colto improvvisamente da quella vaga sensazione di disagio che si impone ad alcune persone quando sono osservate da vicino e, volgendo rapidamente lo sguardo in su, incrociai i suoi occhi fissi su di me con una intensità prossima alla ferocia, sebbene la loro espressione si addolcì  istantaneamente non appena egli fece un commento convenzionale sul tempo (Conan Doyle, 1884, J. Habakuk Jephson’s statement).

A chi di noi non è mai capitato di sentirsi osservato, fissato, scrutato da qualcuno? A chi non è mai capitato di voltarsi improvvisamente nella convinzione inquietante di essere oggetto dello sguardo altrui? Somebody’s Watching Me cantava negli anni Ottanta lo statunitense Rockwell, mostrando, nel video che accompagnava il motivo, l’ansia che può generare la credenza di essere bersaglio di occhi indagatori.

Gli inglesi chiamano questo fenomeno psychic staring effect, espressione che allude a una presunta condizione extrasensoriale. Altri, che ripongono la massima fiducia nel potere nobilitante del greco antico, preferiscono il termine scopaesthesia, che trasuda maggiore scientificità e obiettività.

Il fenomeno sembra ubiquitario. Secondo alcuni studi citati dal parapsicologo Rupert Sheldrake (2005), pare interessi una percentuale compresa tra il 70% e il 97% delle persone interrogate al riguardo, in maggioranza donne. La scopaesthesia è talmente affascinante che vi alludono scrittori come Tolstoy, Conan Doyle, Dostoyevsky, Anatole France, Victor Hugo, Aldous Huxley, D.H. Lawrence, John Cowper Powys, Thomas Mann, J.B. Priestley e molti altri. Ciononostante, sono relativamente pochi e recenti, seppure significativi, gli studi scientifici e sperimentali dedicati al fenomeno, che potremmo sommariamente suddividere in due categorie: quelli che riscontrano nello staring effect una qualche valenza paranormale, come, ad esempio, le ricerche del già citato Rupert Sheldrake, e quelli che vi individuano un fenomeno puramente umano, spiegabile senza ricorrere a spiegazioni paranormali.

Tra questi il brillante, per quanto breve, articolo dello psicologo britannico Edward Bradford Titchener, “The Feeling of Being Stared At” (1898), che potere trovare tradotto per la prima volta in italiano a questo link con una mia introduzione e una piccola bibliografia sul tema.

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Leonardo debunker

Leonardo da Vinci (1452-1519), artista, scienziato, rivoluzionario, genio riconosciuto, si occupò di pittura, scultura, aritmetica, geometria, astronomia, botanica, anatomia e tanto altro ancora. Meno note sono le sue posizioni sul paranormale, espresse nei suoi scritti letterari, qui sotto riportati, che, sebbene frammentari e disordinati, ci restituiscono un quadro abbastanza chiaro del suo pensiero in materia.

Per Leonardo, le cose al riguardo sono abbastanza semplici. Gli spiriti non possono parlare perché privi degli organi fonatori, non possono vedere perché sono privi di occhi, non possono toccare o spingere oggetti perché privi di muscoli, non possono occupare spazio perché privi di corpo, non possono provocare mutamenti atmosferici o effetti di altro genere, seppure temuti dal popolino, perché… semplicemente non possono farlo.

Insomma, «uno spirito non pò avere né voce, né forma, né forza» ed è inutile temerlo perché temerlo significa attribuirgli capacità e facoltà che non può, per natura, possedere.

Per Leonardo non esiste spirito senza corpo, anima senza organi, facoltà psichiche senza il substrato neurologico e fisico che le accompagna. Ne deriva che la negromanzia – l’arte di evocare i morti a scopo divinatorio – è semplicemente impossibile e non deve essere né praticata, perché praticarla significa eseguire qualcosa di insensato o truffaldino, né temuta perché da uno spirito privo di corpo, se pure esistesse davvero, non potrebbe derivarci alcun male.

Leonardo era, dunque, un fiero avversario della negromanzia, come pure dell’alchimia. Per ironia della sorte, però, al suo tempo non mancò chi lo accusò proprio di negromanzia per le sue attività di ricerca che potevano comportare la dissezione di cadaveri, pratica considerata sporca, immorale e irreligiosa.

Erano tempi complessi quelli di Leonardo: i confini tra scienza, religione e morale non erano ben definiti e chiunque osava sperimentare nuove vie era visto con sospetto.

Ecco perché sono tanto interessanti questi scritti contro la negromanzia che ci propongono un Leonardo debunker a cui non siamo abituati. Un’altra medaglia al valore per uno dei principali ingegni del Rinascimento italiano.

Contro l’alchìmia e la negromanzia

Ma delli discorsi umani stoltissimo è da essere reputato quello il qual s’astende alla credulità della negromanzia, sorella della archimia, partoritrice delle cose semplice naturali; ma è tanto più degna di reprensione che l’archimia, quanto ella non partorisce alcuna cosa se non simili a sé, cioè bugie, il che non ne interviene nella archimia la quale è ministratrice de’ semplici prodotti dalla natura, il quale uffizio fatto esser non può da essa natura, perché in lei non è strumenti organici, colli quali essa possa operare quel che adopera l’omo mediante le mani, che in tale uffizio ha fatti e vetri ecc., ma essa negromanzia, stendardo ovver bandiera volante mossa dal vento, guidatrice della stolta moltitudine, la quale al continuo è testimonia, collo abbaiamento, d’infiniti effetti di tale arte, e n’hanno empiuti i libri, affermando che l’incanti e spiriti adoperino e sanza lingua parlino, e sanza strumenti organici, sanza i quali parlar non si pò, parlino e portino gravissimi pesi, faccino tempestare e piovere, e che li omini si convertino in gatte, lupi e altre bestie, benché in bestia prima entran quelli che tal cosa affermano. E certo se tale negromanzia fussi in essere, come dalli bassi ingegni è creduto, nessuna cosa è sopra la terra che al danno e servizio dell’omo fussi di tanta valitudine: perché se fussi vero che in tale arte si avessi potenzia di far turbare la tranquilla serenità dell’aria, convertendo quella in notturn’aspetto, e far le corruscazioni e venti con ispaventevoli toni e folgori, scorrenti in fra le tenebre, e con impetuosi venti ruinare li alti edifizi, e diradicare le selve, e con quelle percotere li eserciti, e quelli rompendo e atterrando, e oltra di questo le dannose tempeste, privando li cultori del premio delle lor fatiche, o! qual modo di guerra pò essere che con tanto danno possa offendere il suo nemico, aver potestà di privarlo delle sue ricolte? qual battaglia marittima pò essere che si assomigli a quella di colui che comanda alli venti, e fa le fortune ruvinose e sommergitrici di qualunche armata? Certo quel che comanda a tali impetuose potenzie sarà signore delli popoli, e nessuno umano ingegno potrà resistere alle sue dannose forze: li occulti tesori e gemme riposte nel corpo della terra, fieno a costu[i] tutti manifesti, nessun serrame o fortezze inespugnabili saran quelle che salvar possino alcuno, sanza la voglia di tal negromante. Questo si farà portare per l’aria dall’oriente all’occidente, e per tutti li oppositi aspetti dell’universo. Ma perché mi vo io più oltre astendendo? quale è quella cosa che, per [t]ale artefice, far non si possa? quasi nessuna, eccetto il levarsi la morte. Addunque è concluso, in parte, il danno e la utilità che in tale arte si contiene, essendo vera. E s’ella è vera, perché non è restata infra li omini che tan[to la] desiderano, non avendo riguardo a nessuna deità? E sol che infiniti ce n’è che per saddisfare a un suo appetito ruinerebbono Iddio con tutto l’universo. E s’ella non è rimasta infra li omini, essendo a lui tanto necessaria, essa non fu mai, né mai è per dovere essere, per la difinizion dello spirito, il quale è invisibile, incorporeo, e dentro alli elementi non è cose incorporee, perché, dove non è corpo, è vacuo, e il vacuo non si dà dentro alli elementi, perché subito sarebbe dall’elemento riempiuto.

Se lo spirito ha voce articulata, e se lo spirito pò essere uldito, e che cosa è uldire e vedere, e come l’onda de la voce va per l’aria e come le spezie delli obbietti vanno all’occhio.

 O matematici, fate lume a tale errore! Lo spirito non ha voce, perché dov’è voce è corpo, e do’ è corpo, è occupazion di loco, il quale impedisce all’occhio il vedere delle cose poste dopo tale loco: adunque tal corpo empie di sé tutta la circustante aria, cioè colle sua spezie.

Non pò essere voce, dove non è movimento e percussione d’aria, non pò essere percussione d’essa aria, dove non è strumento, non pò essere strumento incorporeo. Essendo così, uno spirito non pò avere né voce, né forma, né forza, e, se piglierà corpo, non potrà penetrare, né entrare dove li usci sono serrati. E se alcuno dicessi: «per aria congregata e ristretta insieme lo spirito piglia i corpi di varie forme, e per quello strumento parla e move con forza», a questa parte dico che, dove non è nervi e ossa, non può essere forza operata, in nessuno movimento, fatto dagl’imaginati spiriti. Fuggi e precetti di quelli speculatori che le loro ragioni non son confermate dalla isperienzia.

Delli spiriti. Abbiamo insin qui, dirieto a questa faccia, detto come la difinizion dello spirito è «una potenzia congiunta al corpo, perché per se medesimo reggere non si può, né pigliare alcuna sorte di moto locale». E se tu dirai che per sé si regga, questo essere non pò dentro alli elementi, perché se lo spirito è quantità incorporea, questa tal quantità è detta vacuo, e il vacuo non si dà in natura, e, dato che si dessi, subito sarebbe riempiuto dalla ruina di quello elemento, nel qual tal vacuo si generassi. Adunque, per la difinizion del peso, che dice: «la gravità è una potenzia accidentale, creata dall’uno elemento tirato o sospinto nell’altro», seguita che nessuno elemento non pesando nel medesimo elemen[to], e’ pesa nell’elemento superiore, ch’è più lieve di lui; come si vede la parte dell’acqua non ha gravità o levità nell’altra acqua, ma se tu la tirerai nell’aria, allora ella acquisterà gravezza, e se tu tirerai l’aria sotto l’acqua, allora l’acqua che si trova sopra tale aria acquista gravezza, la qual gravezza per sé sostener non si pò; onde l’è necessario la ruina, e così cade infra l’acqua, in quel loco ch’è vacuo d’essa acqua. Tale accaderebbe nello spirito, stando infra li elementi, che al continuo genererebbe vacuo in quel tale elemento dove lui si trovassi, per la qual cosa li sarebbe necessario la continua fuga inverso il cielo, insin che uscito fussi di tali elementi.

Delli muscoli che movan la lingua. Nessuno membro ha bisogno di tanto numero di muscoli, quanto la lingua; delli quali ce n’ è 24 noti, sanza li altri che io ho trovati ; e di tutti li membri che si movan per moto volontario, questa eccede tutti li altri nel numero delli movimenti. E se tu volessi dire ch’è l’ufizio dell’occhio, il quale è di ricevere tutte le spezie delle infinite figure e colore delli obbietti a lui antiposti, e l’odorato, nella infinita mistione delli odori, e l’orecchio de’ soni; noi direno che la lingua sente ancora lei 1’ infiniti sapori, semplici e composti; ma questo non è al proposito nostro, facendo noi professione di trattare sola mente del moto locale di ciascun membro. Considera bene come, mediante il moto della lingua, coll’aiuto delli labbri e denti, la pronunziazione di tutti i nomi delle cose ci son note, e li vocaboli semplici e composti d’un linguaggio pervengano alli nostri orecchi, mediante tale istrumento. Li quali, se tutti li effetti di natura avessino nome, s’astenderebbono inverso lo infinito, insieme colle infinite cose che sono in atto e che sono in potenzia di natura; e queste non isplemerrebbe in un solo linguaggio, anzi in moltissimi, li quali ancora lor s’astendano inverso lo infinito, perché al continuo si variano di secolo in seculo e di paese in paese, mediante le mistion de’ popoli che per guerre o altri accidenti al continuo si mistano; e li medesimi linguaggi son sottoposti alla obblivione, e son mortali come l’altre cose create; e se noi concedereno il nosto mondo essere etterno, noi diren tali linguaggi essere stati, e ancora dovere essere, d’infinita varietà, mediante l’infiniti secoli, che nello infinito tempo si contengano ecc. E questo non è in alcuno altro senso, perché sol s’astendano nelle cose che al continuo produce la natura, la qual non varia le ordinarie spezie delle cose da lei create, come si variano di tempo in tempo le cose create dall’omo, massimo strumento di natura, perché la natura sol s’astende alla produzion de’ semplici. Ma l’omo con tali semplici produce infiniti composti, ma non ha potestà di creare nessun semplice, se non un altro se medesimo, cioè li sua figlioli: e di questo mi saran testimoni li vecchi archimisti, li quali mai, o a caso o con volontaria sperienzia, s’abbattèro a creare la minima cosa che crear si possa da essa natura. E questa tal generazione merita infinite lalde, mediante la utilità delle cose da lor trovate a utilità delli omini, e più ne meriterebbono, se non fussino stati inventori di cose nocive, come veneni e altre simili ruine di vita o di mente, della quale lor non sono esenti, con ciò sia che con grande studio e esercitazione volendo creare, non la men nobile produzion di natura, ma la più eccellente, cioè l’oro, vero figliol del sole, perché più ch’a altra creatura a lui s’assomiglia, e nessuna cosa creata è più etterna d’esso oro. Questo è esente dalla destruzion del foco, la quale s’astende in tutte l’altre cose create, quelle riducendo in cenere o in vetro o in fumo. E se pur la stolta avarizia in tale errore t’invia, perché non vai alle miniere dove la natura genera tale oro e quivi ti fa’ suo discepolo, la qual fedelmente ti guarirà della tua stoltizia, mostrandoti come nessuna cosa da te operata nel foco, non sarà nessuna di quelle che natura adoperi al generare esso oro? Quivi non argento vivo, quivi non zolfo di nessuna sorte, quivi non foco, né altro caldo che quel di natura vivificatrice del nostro mondo, la qual ti mosterrà le ramificazione dell’oro sparse per il lapis ovvero azzurro oltramarino, il quale è colore esente dalla potestà del foco. E considera bene tale ramificazione dell’oro, e vederai nelli sua stremi, li quali co’ lento moto al continuo crescano, e’ convertano in oro quel che tocca essi stremi, e nota che quivi v’è un’anima vigitativa, la qua[l] non è in tua potestà di generare.

O speculatori del continuo moto, quanti vani disegni in simile cerca ave’ creati! Accompagnatevi colli cercator dell’oro!

Contra del moto perpetuo. Nessuna cosa insensibile si moverà per sé, onde, movendosi, fia mossa da disequale peso; e cessato il desiderio del primo motore, subito cesserà il secondo.

Se lo spirito tiene corpo infra li elementi. Abbiam provato, come lo spirito non può per sé stare infra li elementi sanza corpo, né per sé si pò movere per moto volontario, se none allo in su, ma al presente direno, come, pigliando corpo d’aria, che tale spirito è necessario che s’infonda infra essa aria, perché, s’elli stessi unito, e’ sarebbe separato, e cadrebbe alla generazion del vacuo, come di sopra è detto. Addunque è necessario che, a volere restare infra l’aria, che esso s’infonda ‘n una quantità d’aria, e, se si mista coll’aria, elli seguita due inconvenienti, cioè, che elli levifica quella quantità dell’aria dove esso si mista, per la qual cosa l’aria levificata per sé vola in alto, e non resta infra l’aria più grossa di lei; e oltre a di questo, tal virtù spirituale sparsa si disunisce e altera sua natura, per la qual cosa essa manca della prima virtù. Aggiugnecisi un terzo inconveniente, e questo è, che tal corpo d’aria preso dallo spirito, è sottoposto alla penetrazion de’ venti, li quali al continuo disuniscano e stracciano le parti unite dell’aria, quelle rivolgendo e raggirando infra l’altra aria. Adunque lo spirito in tale aria infuso, sarebbe ismembrato, ovvero sbranato e rotto, insieme collo sbranamento dell’aria, nella qual s’infuse.

Se lo spirito, avendo preso corpo d’aria, si pò per sé movere o no. Impossibile è che lo spirito infuso ‘n una quantità d’aria, possa movere essa aria, e questo si manifesta per la passata dove dice: «lo spirito levifica quella quantità dell’aria, nella quale esso s’infonde». Adunque tale aria si leverà in alto sopra l’altra aria, e sarà moto fatto dall’aria per la sua levità, e non per moto volontario dello spirito: e, se tale aria si scontra nel vento, per la terza di questo essa aria sarà mossa dal vento e non dallo spirito, in lei infuso.

Se lo spirito pò parlare o no. Volendo mostrare se lo spirito può parlare o no, è necessario in prima definire che cosa è voce, e come si genera. E direno in questo modo: «la voce è movimento d’aria confregata in corpo denso, o ‘l corpo denso confregato nell’aria, che è il medesimo; la qual confregazion di denso con raro condensa il raro, e fassi resistente; e ancora il veloce raro nel tardo raro si condensano l’uno e l’altro ne’ contatti, e fanno sono o grandissimo strepito. È il sono, ovver mormorio, fatto dal raro che si move nel raro con mediocre movimento, come la gran fiamma, generatrice di sono infra l’aria; e ‘l grandissimo strepito fatto di raro con raro è quando il veloce raro penetra lo immobile raro, come la fiamma del foco uscita della bombarda e percossa infra l’aria, e ancora la fiamma uscita del nugolo, e percote l’aria nella generazion delle saette». Addunque direno, che lo spirito non possa generar voce sanza movimento d’aria, e aria in lui non è, né la può cacciare da sé se elli non l’ha; e se vol movere quella nella quale lui è infuso, egli è necessario che lo spirito multiplichi, e multiplicar non può, se lui non ha quantità, e per la quarta che dice: «nessuno raro si move se non ha loco stabile donde lui pigli il movimento», e massimamente avendosi a movere lo elemento nello elemento, il qual non si move da sé, se non per vaporazione uniforme al centro della cosa vaporata, come accade nella spugna ristretta in nella mano, che sta sotto l’acqua, della qual l’acqua fugge per qualunche verso con equal movimento per le fessure interposte infra le dita della man che dentro a sé la strigne.

Le cose mentali che non son passate per il senso, son vane e nulla verità partoriscano se non dannosa, e perché tal discorsi nascan da povertà d’ingegno, poveri son sempre tali discorsori, e se saran nati ricchi, e’ moriran poveri nella lor vecchiezza, perché pare che la natura si vendichi con quelli che voglian far miraculi, abbin men che li altri omini più quieti, e quelli che vo[g]liano arricchire ‘n un dì, vivino lungo tempo in gran povertà, come interviene e interverrà in eterno alli archimisti, cercatori di creare oro e argento, e all’ingegneri che voglian che l’acqua morta dia vita motiva a se medesima con continuo moto, e al sommo stolto, negromante e incantatore.

I bugiardi interpriti di natura affermano lo argento vivo essere comune semenza a tutti i metalli non si ricordando che la natura varia le semenze secondo la diversità delle cose che essa vole produrre al mondo.

 

 

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Linguistiche ferroviarie

Chi viaggia abitualmente in treno per lavoro è esposto quotidianamente in stazione a formule linguistiche ripetute in maniera esasperante che talvolta presentano contenuti curiosi, paradossali, stranianti, cacofonici a cui il pendolare non presta nemmeno attenzione, essendo, come detto, ripetute in continuazione, ma su cui è interessante fare qualche considerazione.

Una delle formule più frequenti presenta la seguente costruzione: “Il treno regionale n… di Trenitalia diretto a… è in partenza dal binario X”. Un individuo appena giunto da un altro pianeta e con una buona conoscenza della nostra lingua dedurrebbe da questo annuncio che la partenza del treno è imminente. In realtà, come sanno bene i pendolari, possono trascorrere anche dieci minuti e più prima che il treno parta davvero e questo non perché è in ritardo, ma perché l’annuncio precede di diversi minuti la partenza effettiva. L’espressione “è in partenza” risulta, così, decisamente straniante e rimanda a quella che potrebbe sembrare una concezione diversa del tempo a cui chi viaggia deve presto fare l’abitudine.

Altre volte, gli annunci presentano una struttura decisamente cacofonica, come nel seguente caso: “L’autobus sostitutivo del treno regionale n. diretto a … è previsto in partenza dal punto di fermata previsto. Non sono previste fermate intermedie”. Qui la ripetizione frequente del termine “previsto” rende l’intera frase disarmonica e ridicola, impressione comunque cancellata proprio dalla ripetizione costante della frase.

Potrebbe scriversi un intero manuale di linguistica ferroviaria per studiare gli aspetti stilistici, simbolici, semantici del gergo ferroviario che, però, a mia conoscenza è ancora abbastanza trascurato.

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Quelle leggi che discriminavano i brutti

Bruttezza e deformità possono essere bandite per legge dalla società? Negli Stati Uniti del XIX secolo, varie norme approvate in più stati e passate alla storia con il nome di Ugly Laws proibirono alle persone disabili e “indegne” di apparire in pubblico, bandendole di fatto dalla società civile.

Questa giurisprudenza discriminatoria susciterebbe oggi enorme scandalo. Alla fine del XIX secolo, tuttavia, questi provvedimenti vennero approvati senza eccessive opposizioni, anche perché rispondevano a un particolare ethos del tempo, ancora oggi presente in parte nel nostro immaginario.

Lo scopo delle Ugly Laws, infatti, era quello di liberare le strade pubbliche dal “deplorevole spettacolo” di mendicanti e accattoni che “intasavano” le strade in cerca di elemosina e che esibivano le proprie “deformità” per attirare la generosità dei passanti. Alcuni di essi erano anche accusati di esagerare le proprie deformità o di infliggersi ferite ripugnanti pur di far breccia nel cuore delle persone. Altra convinzione dell’epoca era che la vista di individui deformi costituisse un serio pericolo per la salute delle “signore di costituzione delicata”.

Le Ugly Laws non prendevano di mira ogni categoria di disabili, ma solo chi non disponeva di un lavoro e non si impegnava a trovare un’occupazione regolare. Più che le deformità fisiche, quindi, questi provvedimenti sanzionavano lo status sociale ed economico di poveri e indigenti affetti da disabilità. Nel XIX secolo, infatti, era molto comune subire un infortunio menomante o una mutilazione durante la guerra. Anzi, talvolta, un dito in meno, a causa di un incidente sul lavoro, poteva essere il segno di un’apprezzata esperienza lavorativa. Allo stesso modo, una menomazione conseguita in guerra era il segno più evidente che chi ne era afflitto meritava di beneficiare di misure di previdenza sociale, tra cui la pensione di invalidità, a differenza dei cosiddetti “unworthy poor”.

In definitiva, si possono definire le Ugly Laws del XIX secolo come dei provvedimenti classisti più che ostili alla disabilità in quanto tale.

Paradossalmente, l’epoca delle Ugly Laws fu anche l’epoca dei Freak Show, le esibizioni spettacolari di “scherzi della natura” di cui erano pieni i circhi del tempo; ulteriore conferma del fatto che la disabilità “socialmente produttiva” non era avversata, ma incoraggiata.

Potremmo pensare che le leggi “contro i brutti” siano una cosa del passato. In realtà, a Chicago, ad esempio, esse sono rimaste in vigore fino al 1973 e anche in Italia non possiamo non ricordare le decine di ordinanze sindacali che di recente hanno colpito mendicanti e senzatetto e che, per un certo periodo, hanno rappresentato il fiore all’occhiello delle politiche di molti amministratori locali.

Parallelamente, i criteri estetici della nostra società occidentale sono diventati sempre più esigenti. È raro che uno di noi sia davvero “brutto”. In compenso, aumentano i casi di body shaming per “difetti fisici” che un tempo non sarebbero stati concepiti come tali. Come è evidente, le idee di bellezza e bruttezza cambiano da un’epoca all’altra. Ciò che non sembra cambiare è l’odio che alcuni esseri umani amano esibire per l’aspetto fisico di altri esseri umani.

Risorsa:

DISEASED, MAIMED, MUTILATED: CATEGORIZATIONS OF DISABILITY AND AN UGLY LAW IN LATE NINETEENTH-CENTURY CHICAGO

Adrienne Phelps Coco

Journal of Social History, Vol. 44, No. 1 (agosto 2010), pp. 23-37

Oxford University Press

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Istanza=Insistenza

Tra i termini più usati in ambito amministrativo, quello di “istanza”, inteso come “richiesta rivolta a un’autorità pubblica perché compia un atto che le compete” è uno dei più rivelatori da un punto di vista etimologico, tanto che è interessante proporre alcune riflessioni al riguardo.

Come è noto, almeno a chi lavora all’interno di una pubblica amministrazione, un’istanza può essere di parte, se è avanzata da un normale cittadino; d’ufficio, se avviata su iniziativa della pubblica amministrazione stessa. Qui mi soffermerò sul primo caso, ossia sulla richiesta avanzata da un cittadino a una amministrazione. Ebbene, come sappiamo, i rapporti tra cittadini e Comuni, Regioni ecc. non sono sempre lineari. Nonostante l’esistenza di una legge – la L. 241/1990 – che stabilisce, fra l’altro, i tempi entro cui le amministrazioni devono rispondere alle richieste dei cittadini, tali tempi non sempre sono rispettati e il cittadino deve spesso insistere, dotandosi di santa pazienza e a rischio di risultare petulante e insolente, per vedere i propri diritti riconosciuti.

Ciò che è curioso è che la necessità di una insistenza collegata all’avvio di una istanza sembra essere riconosciuta dalla stessa etimologia della parola. Essa deriva, infatti, dal latino instantia “imminenza, assiduità, insistenza”, da instare “stare addosso, incalzare”, derivato di stare con prefisso in-. Già in origine, dunque, nel termine istanza è presente una connotazione di insistenza incalzante che tutti noi sperimentiamo quotidianamente nei nostri rapporti con le pubbliche amministrazioni.

Tutti noi, infatti, sappiamo che, quando chiediamo qualcosa a un ente amministrativo pubblico, dobbiamo “stare addosso” al funzionario o al dirigente di turno per vedere la nostra richiesta soddisfatta. In assenza, potremmo attendere per giorni e giorni senza esito.

Si tratta di uno dei (non so quanto frequenti) casi in cui l’etimologia di un termine rivela una connotazione vischiosa ancora associata al termine stesso nell’attualità quotidiana. Un esempio estremamente interessante della surrealtà che circonda l’agire burocratico.

Come concludono efficacemente gli autori del portale Una parola al giorno, chiarendo l’etimologia del termine “istanza”:

«Insistenza ostinata, veemente. Non tanto lusinghiera, come espressione che indichi in modo neutro la domanda all’autorità. Ma dopotutto anche la querela è per etimologia la lagnanza: il potere è sempre scocciato di dover ascoltare».

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Pareidolie micaeliche

Dopo lo scontro tra i sipontini e i beneventani alleati con i napoletani, vinto dai primi grazie all’intervento dell’arcangelo Michele, «i vincitori, tornati a casa, offrivano preghiere e doni di ringraziamento a Dio onnipotente nel tempio dell’Arcangelo; e al mattino scorgono presso la porta situata a nord […] vicino alla piccola entrata, un’impronta come di un piede umano impressa nel marmo: capirono così che l’Arcangelo e capo delle schiere angeliche Michele volle mostrare questo segno della sua venuta» (Aulisa, I., 2021, Apparizioni di San Michele. Monte Gargano, Mont-Saint-Michel, Sacra in Val di Susa, Andrea Pacilli Editore, Manfredonia (FG), p. 119).

Il precedente è un brano tratto dall’Apparizione e miracolo del capo delle schiere angeliche Michele sul monte denominato Gargano, uno dei testi di fondazione della leggenda delle apparizioni dell’arcangelo Michele sul monte Gargano, dove ancora oggi ha sede l’omonima basilica santuario, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO dal giugno 2011 e meta prediletta di migliaia di pellegrini.

Secondo la leggenda, san Michele apparve per ben tre volte a un vescovo locale nel giro di pochi anni per poi apparire una quarta volta, a distanza di molti secoli. È interessante notare che, in base a una prima fonte latina, la Apparitio Sancti Michaelis in monte Gargano, Michele “appare in visione al vescovo”, lasciando intendere che il prelato se lo sia trovato davanti in stato di veglia. In base alla seconda (greca), già citata, invece, “l’Arcangelo del Signore appare in sogno al santissimo vescovo”, il che fa pensare a una apparizione durante il sonno. Due eventi completamente diversi, in quanto il primo rimanda a un evento soprannaturale e inspiegabile; il secondo a un banale e umanissimo sogno.

Altra incongruenza tra le due fonti è che, sebbene entrambe citino una battaglia con protagonisti sipontini, beneventani e napoletani, nella prima sipontini e beneventani sono alleati contro i beneventani, nella seconda i sipontini combattono contro beneventani e napoletani.

Al di là di queste e di tante altre incongruenze, abbastanza frequenti, quando si consultano fonti letterarie leggendarie, la circostanza più interessante, narrata solo nella fonte greca, è che san Michele avrebbe lasciato un’impronta del proprio piede sulla pietra del monte Gargano, impronta ancora oggi oggetto di speculazioni e ipotesi.

L’impronta dovrebbe essere visibile al visitatore, accedendo alla prima cripta. In realtà, quello che si vede è molto deludente e, al più, è passibile di interpretazioni diverse. Sono visibili, invece, altre impronte e scritte lasciate dai vari pellegrini nel corso del tempo.

Allora, perché l’Apparizione e miracolo parla di “un’impronta come di un piede umano”? Una possibile spiegazione è in chiave pareidolica. I protagonisti del testo, sedotti dalla credenza nella presenza miracolosa dell’arcangelo, potrebbero aver “visto” in qualche incisione nella roccia la forma di un piede, attribuendola a san Michele. Questa “visione” avrebbe poi ulteriormente avallato la soprannaturalità del luogo, contribuendo alla sua reputazione sacra. L’ipotesi trae conferma dal fatto che nel testo non si parla dell’impronta di un piede, ma dell’impronta “come” di un piede.

In questo caso, come accade in tanti altri esempi di pareidolia religiosa, la similitudine viene cancellata nell’immaginario collettivo tramutandosi in identità. “È simile” diviene “è” attraverso un gioco retorico tipico del sacro miracoloso.

Si tratta naturalmente solo di un’ipotesi, ma è probabile che siano state credenze e convinzioni religiose a conferire una forma podalica a una figura vaga incisa nel marmo.

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Turpiloquio apotropaico neonatale


Donna Borana. Foto di Rod Waddingtonfrom Kergunyah, Australia

È noto che, da tempi antichissimi, l’evento della nascita è circondato da uno stuolo di timori, ansie, superstizioni che ancora oggi sopravvivono, almeno in parte, nel mondo occidentale e che significano l’assoluta rilevanza di questo evento nella nostra cultura come pure nelle culture diverse dalla nostra.

Una delle usanze più curiose al riguardo proviene dall’Africa e ci viene raccontata dalla psichiatra Alessandra Piontelli. In alcune regioni africane, ad esempio tra i Borana in Kenya, la nascita di un bambino è accompagnata da pesanti ingiurie rivolte al nascituro per tenere lontani gli spiriti del male.

Scrive la Piontelli:

Quando poi il bambino è nato, alcune iniziano a gridargli insulti a volte ripugnanti come: “Piccolo pezzo di merda puzzolente!” o “Schifoso essere! Fai proprio schifo!” […]. Lo fanno per allontanare o dissuadere gli spiriti malvagi dall’avvicinarsi e fondamentalmente dal portar via il bambino per ricondurlo al regno delle tenebre. La paura della morte neonatale è fortemente (e non senza giustificazione) radicata in tutte (Piontelli, A., 2020, Il culto del feto. Come è cambiata l’immagine della maternità, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 239-240).

Si tratta di un rilevante esempio di turpiloquio apotropaico, di cui ho già parlato in un post precedente, oltre che nel mio libro Turpia. Sociologia del turpiloquio e della bestemmia (2007), che dimostra come parolacce e bestemmie non vengano adoperate solo per fini di ingiuria, offesa, esclusione, ma anche per favorire, seppure in modi apparentemente bizzarri, scopi positivi e di solidarietà sociale.

Un altro esempio ci viene dal Friuli dell’età moderna. Nel 1600, alcune pratiche magiche popolari prevedevano il turpiloquio per tenere lontano il male. Ad esempio, la formula “Fui, fui, ruie et il mio con ti mangiuie” (Fuggi, fuggi, bruco e la mia vagina ti mangiucchia) veniva recitata per tenere lontani i bruchi che  mangiavano i raccolti. La formula “Nul, nul, fa tant mal, cu’ po’ fa chist cul” (Nuvolo, nuvolo, fa tanto male quanto può fare questo culo), invece, veniva recitata per allontanare la grandine (Del Col, A., 2009, L’inquisizione in Italia. Dal XII al XXI secolo, Mondadori, Milano, p. 575).

Insomma, per quanto siamo abituati a giudicarlo da un punto di vista morale e moralistico, il turpiloquio è un fenomeno estremamente complesso, suscettibile di interpretazioni diversissime per le quali rimando, ovviamente, alla lettura del mio libro.

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La spettacolarizzazione del feto

Il recente, rinnovato vigore con cui si discute del diritto all’aborto, specialmente dopo la decisione della Corte suprema statunitense che ha abolito la celebre sentenza Roe v. Wade con cui nel 1973 la stessa Corte aveva legalizzato l’aborto negli Usa, non è alimentato, a mio avviso, esclusivamente da considerazioni e riflessioni di natura etica, giuridica e politica, ma anche, seppure se ne parli di meno, dai progressi tecnologici degli ultimi decenni, che hanno dato all’embrione e al feto una nuova forma di rappresentabilità.

Mi riferisco in particolare all’onnipresenza dell’ecografia, che, da tecnica medico-diagnostica per monitorare lo stato di salute e lo sviluppo del nascituro, è diventata ormai uno strumento che conferisce visibilità a un soggetto di cui, in precedenza, si era soliti parlare in abstracto.

L’ecografia è, a tutti gli effetti, responsabile della spettacolarizzazione del feto, sulla cui immagine antropomorfa i genitori possono facilmente proiettare qualsiasi aspettativa, credenza, convinzione, ben prima della nascita reale. L’ecografia è lo schermo su cui convergono le attese di ogni genitore, il “cielo stellato” a cui assegnare significati di ogni tipo, il vettore che consente di concepire il feto come titolare di diritti soggettivi in virtù della sua iconicità, rappresentabilità, identificabilità immediata. Tutto ciò ha rilevanti conseguenze giuridiche e politiche, evidenti dalle reazioni degli ultimi decenni a un diritto – quello all’aborto – che sembrava essere stato stabilito in Occidente una volta per sempre.

Mentre, dunque, un tempo, prima dell’avvento dell’ultrasound (come gli americani definiscono l’ecografia), il feto era una entità amorfa e inimmaginabile destinata, comunque, a svilupparsi in un essere umano, oggi esso è “già vivo prima di nascere”, già “investibile” in termini emotivi e psicologici, già riconducibile alla propria storia familiare pregressa e rapportabile alla propria vita futura.

Così, come succede con tutto ciò che è rappresentabile visivamente e condivisibile, il feto promuove e amplifica emozioni, riflessioni, discussioni. In altre parole, grazie alla sonography (altro termine anglofono), nessuno di noi può essere indifferente all’esistenza del feto e al fatto che tale esistenza implica, almeno potenzialmente, la titolarità di un diritto.

È per questo motivo, che, a mio avviso, nei prossimi anni le discussioni sul diritto all’aborto diventeranno sempre più accese e, al contempo, le sorti della battaglia verteranno sulla maggiore o minore forza iconica dell’immagine del feto rispetto a quella della madre: un conflitto di sembianze, figure, apparenze in un mondo in cui sembianze, figure e apparenze contano sempre più.

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