Quando l’albero di Natale era estraneo alla nostra cultura

L’argomento – sostenuto monotonamente da sacerdoti e autorità religiose in questo periodo dell’anno – secondo cui Halloween non andrebbe festeggiato perché “non fa parte delle nostre tradizioni” o sarebbe addirittura una festa satanica, si scontra con alcune considerazioni legittime.

Come dicevo in un post di qualche anno fa, sebbene Halloween abbia origini “pagane” (non tutti, comunque, sono d’accordo), su di essa si sono innestati motivi cristiani, come quello della festa di Ognissanti, e più tardi commerciali, che rendono estremamente sincretistica questa festa. Il sincretismo, del resto, è proprio di tante altre feste, oggi definite cristiane tout court, delle quali si sono rimosse o dimenticate le origine pagane, a partire proprio dal Natale, che nessuno oggi accuserebbe di scarso tradizionalismo (anche per quest’ultima festività rimando a un mio post precedente).

Eppure, c’è stato un tempo in cui anche oggetti oggi considerati “innocui”, come l’albero di Natale, erano accusati di “non far parte delle nostre tradizioni”. Leggiamo questo breve brano tratto da La fabbrica del consenso di Philip Cannistraro, deedicato alla propaganda fascista. Durante il fascismo, il regime si propose di

scoraggiare numerosi simboli e usanze che riflettevano, a suo giudizio, modi di comportamento antiquati propri della società borghese. I fascisti cominciarono con l’attaccare varie celebrazioni e feste, anche radicatissime nel costume popolare, e particolarmente le festività politiche. All’inizio degli anni Trenta la campagna era ormai passata nelle mani dell’Ufficio stampa, che promosse l’abolizione della tradizionale celebrazione del Capodanno, con relativo cenone. Qualche tempo dopo il pubblico fu ammonito a non far uso degli alberi di Natale, giacché si trattava di un’usanza importata dall’estero, non radicata nella tradizione nazionale. Il regime auspicava la sostituzione di queste pratiche antiquate con rituali e simbolismi fascisti. II giorno anniversario della marcia su Roma divenne così il Capodanno fascista, celebrato con parate e adunate di massa a Roma e nelle province. La Giornata della Fede — il 28 ottobre   — era solennizzata da una mistica cerimonia dinanzi ad un antico altare, collocato presso la tomba del Milite Ignoto. In sostituzione delle tradizionali celebrazioni del 1° maggio, i fascisti proclamarono festa nazionale il 21 aprile (il «Natale di Roma»). Festività religiose tradizionali furono collegate al fascismo facendo di illustri santi italiani degli eroi nazionali, mentre nel 1934 il Pnf trasformava l’Epifania nella Befana fascista, in occasione della quale giocattoli e doni venivano distribuiti ai figli dei lavoratori (Cannistraro, P. V., 2022, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Edizioni Res Gestae, Milano, pp. 85-86).

L’accusa fatta ad Halloween di “non far parte delle nostre tradizioni” tradisce un malinteso di cui siamo poco consapevoli. Tutte le tradizioni nascono e si sviluppano nel corso della storia. Sono introdotte come novità per poi modificarsi o adattarsi nel tempo fino a cristallizzarsi in una forma che a noi pare eterna. Ma l’eternità è solo apparente. L’unica differenza tra Natale e Halloween è che il primo è divenuto tradizione da tempo, mentre il secondo è stato introdotto solo in tempi relativamente recenti.

Il tempo guarirà la miopia di sacerdoti e autorità religiose e verrà un giorno in cui nessuno metterà in dubbio che Halloween “fa parte delle nostre tradizioni”.

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Lapalissiano… per un errore di ortografia

E se il termine “lapalissiano” – che significa “ovvio”, “scontato”, “chiaro”, “evidente” – traesse origine dalla cattiva interpretazione della divertente strofa da cui è nato?

Quasi tutti sanno che il termine deriva dal nome di un personaggio realmente esistito: il maresciallo di Francia Jacques II de Chabannes, signore di La Palice, morto nel 1525, dopo essere stato fatto prigioniero in seguito a una battaglia combattuta nei pressi di Pavia tra le forze francesi di Francesco I e quelle imperiali di Carlo V. In quella battaglia fu imprigionato lo stesso re Francesco I e il signore di La Palice fu uno dei tanti che ebbe la sventura di condividere la sua sorte.

In ogni modo, dopo la sua uccisione, nacque, ad opera dei suoi soldati, una curiosa strofa, probabilmente per ricordarne la figura, che recitava, fra l’altro:

Hélas! la Palice est mort,

il est mort devant Pavie ;

Hélas! s’il n’estoit pas mort,

il seroit encore en vie.

[Ahimè! La Palice è morto,

è morto davanti a Pavia;

Ahimè! se non fosse morto,

sarebbe ancora in vita].

Recitata in questo modo, la strofa esprime una verità… lapalissiana: è, infatti, evidente che un quarto d’ora prima di morire il maresciallo fosse ancora in vita. Secondo alcuni, tuttavia, la versione originale della strofa sarebbe stata la seguente:

Hélas! la Palice est mort,

il est mort devant Pavie ;

Hélas! s’il n’estoit pas mort,

il feroit encore envie.

[Ahimè! La Palice è morto,

è morto davanti a Pavia;

Ahimè! se non fosse morto,

farebbe ancora invidia].

Se dobbiamo prestare fede a quest’ultima versione, è possibile che un errore ortografico abbia trasformato la “f” originaria (il feroit encore envie, “farebbe ancora invidia”) in una “s” (il seroit encore en vie, “sarebbe ancora in vita”) e la parola envie (“invidia”) nell’espressione en vie (“in vita”).

Bazzecole, potrebbe commentare qualcuno. Ma la sostanza cambia decisamente. Nel primo caso, abbiamo il terreno di coltura del termine “lapalissiano”, nel secondo una strofetta qualsiasi, nemmeno degna di memoria.

Insomma, il signore di La Palice non sarebbe più ricordato oggi, se un errore ortografico non avesse reso così unica la sua memoria!

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Il gol di Turone era valido?

Sarà proiettato domani 23 ottobre alle 15:30 alla Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della musica nell’ambito della 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma e dal 24 al 27 ottobre al cinema, il documentario “Er gol de Turone era bono” per la regia di Francesco Miccichè e Lorenzo Rossi Espagnet.

Il documentario esamina da punti di vista diversi quando accadde il 10 maggio 1981, al Comunale di Torino. Durante un Juventus-Roma, importante per l’assegnazione dello scudetto, un gol di  Maurizio Turone della Roma viene annullato al 72° minuto, lasciando la partita sullo 0 a 0 e consentendo, in pratica, di assegnare lo scudetto alla Juve. Subito dopo l’incontro, polemiche e proteste divamparono, lasciando una eco che persiste ancora oggi.

Il gol di Turone era valido? Ad oggi nessuno lo sa. La moviola muoveva i suoi primi, incerti passi e nessuna tecnologia è riuscita a chiarire in maniera definitiva quale fosse la decisione giusta da prendere.

Il documentario mescola immagini di repertorio, dibatti d’epoca, nuove interviste e testimonianze, sensazioni e ricordi. Tra le interviste, anche un mio contributo in cui tento di fornire allo spettatore una spiegazione della psicologia del tifoso sulla base delle acquisizioni delle scienze umane.

Vi invito, dunque, a vedere il documentario di Miccichè e Rossi Espagnet, la cui originalità sta non solo nel privilegiare il punto di vista dei tifosi, ma anche nel sondare la prospettiva delle scienze umane che, negli ultimi anni, hanno prodotto numerose interessanti ricerche sui meccanismi psicosociali che determinano il modo in cui i tifosi vedono la partita.

A tal riguardo non posso che rimandare al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso (Meltemi Editore, 2020) per una disamina dettagliata di quell’affascinante campo di studi che è la mente del tifoso.

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Il paradosso di Simpson

I numeri non sempre parlano da soli. Le statistiche ancora meno. È necessario saperle maneggiare se non si vuole correre il rischio di trarre conclusioni sbagliate.

Uno dei paradossi statistici più ingannevoli è il cosiddetto “paradosso di Simpson” (dal nome dello statistico Edward Hugh Simpson autore nel 1952 di “The Interpretation of Interaction in Contingency Tables”). Esso afferma che, se analizziamo l’incidenza di una variabile all’interno di uno o più gruppi della popolazione complessiva, è talvolta possibile osservare una determinata tendenza, che però scompare o assume segno opposto quando osserviamo l’incidenza di quella variabile all’interno della popolazione nel suo complesso.

Un esempio classico del paradosso, frequentemente citato, è il seguente: negli anni Settanta del XX secolo furono esaminati alla Berkeley University i dati relativi alle ammissioni di maschi e femmine nei vari dipartimenti universitari. Si scoprì che, nel complesso, il tasso di ammissione delle femmine era sensibilmente inferiore a quello dei maschi. Un caso di discriminazione di genere? Non proprio. Analizzando i tassi di ammissione per ogni singolo dipartimento, infatti, si ottenevano risultati del tutto opposti nel senso che, nella maggior parte dei casi, le femmine riportavano un tasso di ammissione più elevato di quello dei maschi. Come si spiega l’arcano? Semplicemente con il fatto che le donne tendevano a fare domanda nei dipartimenti che ammettevano meno persone nel complesso, e questa variabile influenzava l’esito aggregato, invertendone la tendenza complessiva.

Un fenomeno simile si è ottenuto recentemente confrontando il numero dei decessi per Covid nei non vaccinati con quello dei vaccinati.

In Inghilterra, ad esempio, secondo quanto riferito da «L’Internazionale», nei rapporti sui decessi di persone positive alla variante delta del covid-19 si osserva che:

– Nella popolazione con meno di cinquant’anni, la percentuale di decessi è circa 1,8 volte più elevata tra i non vaccinati rispetto ai vaccinati;

– nella popolazione con più di cinquant’anni, la percentuale di decessi è circa 6,3 volte più elevata tra i non vaccinati rispetto ai vaccinati;

– invece, nella popolazione presa nel suo complesso, la percentuale di decessi è circa 1,3 volte meno elevata tra i non vaccinati rispetto ai vaccinati.

La spiegazione di questo risultato paradossale sta nel fatto che:

nel periodo preso in esame, la percentuale di persone vaccinate è molto diversa tra i maggiori di cinquant’anni (circa il 95 per cento secondo il servizio sanitario britannico) e i minori di cinquant’anni (circa il 50 per cento).

Di conseguenza una grande proporzione delle persone non vaccinate ha meno di cinquant’anni ed evidenzia un tasso di mortalità basso (a causa dell’età). Di contro, una grande proporzione delle persone vaccinate ha più di cinquant’anni ed evidenzia un tasso di mortalità più elevato (anche se fortemente ridotto dal vaccino). Questo spiega come mai, considerando la popolazione nel complesso, la percentuale di decessi tra i non vaccinati possa risultare inferiore a quella dei vaccinati.

Una lezione che possiamo ricavare da questo paradosso è che anche i dati possono essere soggetti all’effetto framing: in base al modo di presentare i numeri, si possono trarre risultati del tutto opposti, ma entrambi statisticamente corretti. Manipolatori, propagandisti e persuasori possono, dunque, avvalersi di questo effetto per offrire la versione dei fatti più confacente ai propri interessi o alla propria visione del mondo. Così, nel caso del tasso di vaccinazione appena citato, distorcere i dati in base alla selezione operata da un gruppo piuttosto che da un altro o dalla popolazione nel suo complesso può portare acqua alla causa dei vaccinisti o degli antivaccinisti.

Questo bias della selezione può generare situazioni che, se non interpretate correttamente, possono causare gravi errori diagnostici o di previsione.

Un esempio classico è quello dello statistico Abraham Wald, che durante la Seconda guerra mondiale, fu chiamato a osservare gli aerei tornati dai combattimenti per cercare di comprenderne i punti deboli. Egli notò che gli aerei che tornavano tendevano a essere colpiti in determinati punti. In modo controintuitivo, consigliò quindi di rafforzare le parti che erano state meno colpite dai proiettili. Questo perché quei punti erano le parti più critiche, perché quando venivano colpiti gli aerei avevano meno probabilità di ritornare dal combattimento.

Insomma, se selezionare informazioni e dati è praticamente inevitabile, cerchiamo di fare in modo che tale selezione conduca a esiti proficui e non venga adoperata per sostenere interessi di parte.

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L’interesse per il crimine

Perché le persone mostrano tanto interesse per il crimine? Perché amano vedere interminabili serie televisive dedicate a omicidi e rapine? Perché dedicano tanto tempo a notizie di cronaca nera che riguardano delitti efferati e raccapriccianti? Come mai ne parlano, sviluppano ipotesi, azzardano conclusioni? Potrebbe essere che i delitti svolgono una funzione sociale positiva?

Di questo avviso era, circa novanta anni fa, il celebre filosofo inglese Bertrand Russell (1872-1970), il quale, in un articolo scritto per un quotidiano americano il 21 dicembre 1932, proponeva le seguenti osservazioni:

Prendiamo il caso di un famoso assassino – un caso clamoroso – un uomo, diciamo, che dopo aver ucciso un avaro e solitario anziano l’ha sotterrato in giardino e che infine viene catturato per via di piccole particelle di argilla che gli sono rimaste attaccate alla suola delle scarpe. Ecco, un tal uomo renderà l’umanità più felice che la maggior parte dei filantropi del mondo. Non sto pensando solo agli eredi dell’avaro signore, né a quei poliziotti che otterranno una promozione per aver collegato il reato al suo autore; sto pensando piuttosto a tutte le milioni di cerchie familiari sparse nel mondo civilizzato che per un attimo dimenticheranno i loro litigi e la loro noia per l’emozione di un crimine clamoroso. Poche cose riescono infatti a infiammare allo stesso modo il cuore del pubblico.

Il delitto, dunque, per Russell suscita emozioni, eccita gli animi, distoglie dalla noia della vita quotidiana. Non solo. Il delitto consente, da un lato, di riscoprire la parte impulsiva, non civilizzata, della propria personalità, sotto forma di “caccia al delinquente” (n questo modo, si può spacciare per virtù quello che è un istinto antisociale represso). Dall’altro, il comportamento antisociale dell’assassino fornisce una soddisfazione sostitutiva al cittadino perbene, un surrogato emozionale che gli consente di superare le secche oscenamente noiose della vita di tutti i giorni.

Queste le sue parole:

La ragione dell’interesse universale per il crimine è abbastanza oscura. Credo si componga di due parti: la prima è il piacere della caccia; la seconda è il rilascio di fantasia nelle menti di coloro che vorrebbero commettere omicidi ma non osano farlo. […] Quando le persone rilasciano su un assassino i selvaggi impulsi del cacciatore di teste, non si sentono né selvaggi né cattivi; al contrario, credono di essere sostenitori della virtù e della buona cittadinanza. [Per quanto riguarda il secondo motivo] il comportamento dell’uomo civilizzato è più mite rispetto ai suoi impulsi, e il comportamento non civilizzato degli altri gli donerà una soddisfazione sostitutiva.

Da questo punto di vista i racconti polizieschi svolgono una funzione utile. Per l’immaginaria soddisfazione del comune cittadino rispettoso della legge, un omicidio in un libro sarà quasi come un vero omicidio (Bertrand Russell, “Interesse per il crimine” in Russell, B., 2017, Il trionfo della stupidità. Saggi americani 1931-1935, Piano B Edizioni, Prato, pp. 74-76).

Insomma, il delitto può svolgere una funzione positiva all’interno della società, anche se non siamo disposti ad ammetterlo. A questo argomento, ho dedicato un intero libro – Verso una criminologia enantiodromica. Appunti per un modo diverso di vedere il crimine (Aracne Editrice, 2015) – che mi auguro leggerete, anche perché offre un punto di vista decisamente eterodosso sulla criminalità e sulla devianza.

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Per una criminologia della notte

L’introduzione e la diffusione dell’illuminazione pubblica hanno rappresentato uno dei più grandi sistemi di controllo sociale della criminalità e della devianza. A partire dalla prima metà del XVIII secolo, le lampade ad olio prima e i lampioni a gas dopo, che sostituirono gradualmente le candele e anticiparono l’energia elettrica come mezzo di illuminazione destinato non solo alle mura domestiche, ma anche agli spazi pubblici, divennero un sistema molto efficace per contrastare il crimine. «Il gas», affermava Sidney Parker in Sanditon (1817), opera postuma della scrittrice Jane Austen, «si è dimostrato più utile alla causa della prevenzione del crimine dei tentativi di chiunque in Inghilterra dai tempi di Alfredo il Grande».

I contemporanei della Austen erano consapevoli del fatto che l’oscurità favorisce la commissione di crimini e altre azioni devianti tanto che in tutti i provvedimenti in cui si discuteva dell’introduzione di nuovi e migliori sistemi di illuminazione la prevenzione della criminalità costituiva la ragione principale per l’adozione della misura (con qualche eccezione: papa Gregorio XVI (1765-1846) si dichiarò contrario ai lampioni per timore che il popolo approfittasse della luce artificiale per promuovere rivolte) (Ekirch, 2005, pp. 330-337).

Ancora oggi tale consapevolezza è viva. Secondo alcune stime circa il 90% delle aggressioni criminali sono compiute in ore notturne o in cui regna l’oscurità, mentre, già negli anni Settanta del XX secolo, alcuni studi avevano dimostrato che il miglioramento dell’illuminazione degli spazi pubblici provocava una riduzione della criminalità tra il 33% e il 70% (Page, Moss, 1976, p. 126).

Ma perché l’oscurità notturna contribuisce a incoraggiare la criminalità? Secondo Richard A. Page e Martin K, Moss, autori di “Environmental Influences on Aggression: The Effects of Darkness and Proximity of Victims”, è possibile avanzare tre ipotesi al riguardo.

Secondo la prima, l’oscurità produce un incremento della sensazione di anonimato e un conseguente calo delle inibizioni. L’anonimato procurato dall’oscurità allenterebbe le restrizioni normative e genererebbe un rapido sviluppo delle relazioni intime sia in senso prosociale sia in senso antisociale. Nell’oscurità, dunque, un malintenzionato si sentirebbe meno condizionato da vincoli morali e più propenso a compiere azioni illecite.

La seconda ipotesi afferma che l’oscurità potrebbe condurre a un incremento dell’aggressività in quanto agirebbe da stimolo disinibente condizionato. L’oscurità domina, infatti, in luoghi di socializzazione come bar e locali notturni e verrebbe inconsapevolmente associata a un decremento delle inibizioni, che favorirebbe, a sua volta, l’esecuzione di condotte aggressive.

Infine, l’oscurità genererebbe un aumento dell’aggressività in quanto consentirebbe di isolare l’aggressore dalla sua vittima. Rendendo meno visibile la vittima e impendendo all’aggressore di coglierne le reazioni, l’oscurità favorirebbe un’attenuazione delle reazioni di empatia nei confronti della vittima, che sarebbe più facilmente bersaglio di condotte antisociali.

Per mettere alla prova le tre ipotesi, Page e Moss condussero un esperimento su 48 soggetti maschi di età compresa tra i 18 e i 23 anni, iscritti a un corso di psicologia universitario. I soggetti furono incaricati di somministrare una serie di scariche a una vittima designata in condizioni di illuminazione variabile. I risultati dell’esperimento confermerebbero, in linea di massima, le ipotesi di partenza, ma Page e Moss richiamarono l’attenzione sulla necessità di ulteriori studi.

Potremmo dire, al riguardo, che sarebbe interessante e necessario elaborare una criminologia della notte che desse il giusto rilievo a una variabile che sin dall’inizio dei tempi condiziona l’agire umano in maniera, forse, insospettabile.

Fonti:

Ekirch, A. R., 2005, At Day’s Close. A History of Nighttime, Phoenix, Londra

Page, R. A., Moss, M. K., 1976, “Environmental Influences on Aggression: The Effects of Darkness and Proximity of Victims”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 6, n. 2, pp. 126-133.

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Perché la gente dorme in chiesa?

Pubblicato postumo nel 1776, A Sermon upon sleeping in church di Jonathan Swift (1667-1745), a cui ho già dedicato un post, affronta un argomento “di costume” a prima vista marginale, ma estremamente attuale anche nella nostra epoca scristianizzata. Perché il sermone (come dicono i protestanti) o l’omelia (come dicono i cattolici) della domenica sono proverbialmente avvertiti come soporiferi? Perché i devoti percepiscono quello che dovrebbe essere il momento forse più importante della celebrazione religiosa come una noia mortale? Perché hanno difficoltà a prestare attenzione alle parole del loro parroco o presbitero al punto da stentare a tenere gli occhi aperti?

A questi interrogativi, Swift offre risposte brevi, ma varie, sulle quali non è il caso di soffermarci per intero. Colpisce, comunque, che non chiami in causa quello che è oggi un dogma comunicativo ripetuto talmente tante volte da essere diventato noioso come una predica (appunto!): ogni discorso va formulato in funzione della platea degli interlocutori e deve tener conto delle caratteristiche generali di questi. Preti e presbiteri dell’epoca di Swift (e, in parte, anche della nostra) non conoscevano questo fondamentale principio comunicativo e sproloquiavano indifferenti anche per trenta minuti (oggi perfino papa Francesco ha ammesso che il tempo massimo dell’omelia deve essere di otto minuti!), condannando alla noia la ricezione delle proprie parole.

Tra le risposte offerte da Swift, tuttavia, ce ne sono due che, a mio avviso, rimandano a stati e meccanismi psicologici analizzati dalle scienze della mente dell’ultimo secolo. Leggiamo un brano del sermone di Swift per intero:

Molti vengono in chiesa per  salvare o guadagnare una reputazione; oppure perché non vogliono apparire diversi, ma semplicemente adeguarsi alle consuetudini, anche se portano il peso e la colpa dei loro antichi peccati. Essi non si aspettano di ascoltare nient’altro che terrori e minacce, la denuncia molto realistica dei loro peccati e una prospettiva di eterna condanna come conseguenza. Niente di strano, quindi, che si turino le orecchie, volgano altrove i propri pensieri e cerchino qualsiasi diversivo piuttosto che lasciare attizzare l’inferno dentro di loro.

Un’altra causa, contro questa indifferenza verso la predicazione, sta nell’animo rivolto alle cose terrene. Le persone che, durante tutta la settimana, hanno la mente schiavizzata da tali questioni non possono sciogliere o rompere improvvisamente la catena dei loro pensieri per poter prestare attenzione a un discorso del tutto estraneo a ciò che sta loro più a cuore. Parlate a un usuraio di carità, di compassione e di restituzione, e parlerete a un sordo: il suo cuore, la sua anima e tutti i suoi sensi sono imprigionati tra i suoi sacchetti pieni di denaro, o dorme pesantemente e sogna un’ipoteca. Dite a un uomo d’affari che le preoccupazioni mondane soffocano il «buon seme», che non dobbiamo esagerare e che la salvezza della sua anima è la sola cosa necessaria: voi vedrete, certamente, la figura di un uomo davanti a voi, ma la sua mente se n’è andata lontano, fra clienti e documenti, a pensare come difendere una cattiva causa o trovare difetti in una buona, oppure passerà il tempo in sonnolenti cenni di approvazione (Swift, J., 2016, Predica sul dormire in chiesa, EDB, Bologna, pp. 38-40).

Riguardo al primo punto, la psicologia della comunicazione ha rivelato da tempo che terrorizzare la propria audience in modo estremo, mettendo in risalto le conseguenze negative, se non mortali, di una condotta (si pensi al fumo), non sortisce spesso alcun effetto in termini persuasivi, anzi induce una sorta di reattanza o reazione di sfida che spinge ad adottare quel comportamento ancora più saldamente. Similmente, soffermarsi macabramente sulle conseguenze ultraterrene della nostra condotta mondana può indurre un atteggiamento diversivo, come afferma Swift, che allontana il pensiero dalle terribili punizioni che ci riserverà l’inferno.

Anche il secondo punto è degno di interesse psicologico. Il sacerdote o presbitero pretende dall’individuo comune un’astrazione quasi radicale dalle proprie vicende terrene e un’attenzione massima riservata ad aspetti profondamente spirituali e religiosi, non facilmente attingibili. Ma, come ricorda Swift, per uomini e donne comuni, ciò non è semplice. È, anzi, più facile che il pensiero torni alle preoccupazioni quotidiane, agli affari di ogni giorno, in cui è immerso in maniera prepotente.

In questo senso, il sacerdote commette quello che si chiama “errore dell’esperto”, vale a dire presume che i propri fedeli siano in grado di dedicarsi agevolmente ad alti temi spirituali e religiosi come fa egli stesso ogni giorno “per mestiere”. Il trascendente è, tuttavia, spesso ostico per la mente comune al punto da essere a tratti inavvicinabile.

Insomma, c’è tutta una psicologia della predica di cui, ancora oggi, i protagonisti delle funzioni religiose sono inconsapevoli, ma a cui sarebbe interessante dedicare uno studio accurato.

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Filomena, santa per un anagramma

Che non ci sia bisogno che la divinità esista, ma semplicemente che sia creduta vera, affinché vi siano devoti pronti a venerarla, lo dimostra la storia di santa Filomena, la santa inesistente.

Nel 1802, nelle Catacombe di S. Priscilla a Roma, furono rinvenute le spoglie di un essere umano a cui fu attribuita l’identità di una martire, identificata, tramite un’iscrizione anagrammata, in una certa Filomena. L’iscrizione su tre tegole riportava le parole “LUMENA PAX TE CUM FI” che, opportunamente mescolate, si tramutarono in “PAX TECUM FILUMENA” (“la pace sia con te, Filomena”). Nei pressi del ritrovamento furono rinvenuti anche un’ampolla contenente quello che si pensò fosse il sangue di Filomena, e alcuni simboli (una palma, un’ancora, una freccia).

Una volta “inventata” l’esistenza della martire, il suo culto venne promosso da diversi pontefici. Ad esempio, da Pio IX che accordò persino una messa e una funzione tutta particolare alla santa donna. Alla metà del secolo, Jean-Baptiste Marie Vianney, il famoso curato di Ars, ne favorì la diffusione e la canonizzazione.

Quando la reliquia fu trasferita a Mugnano del Cardinale (AV) nel 1805 dal sacerdote nolano Francesco de Lucia furono testimoniati molti miracoli o almeno così si disse. A tal punto che Filomena fu popolarmente ritenuta una santa. La sua fama si diffuse enormemente, le monache ne presero il nome.

In ultimo, però, e precisamente nel 1961, il Vaticano stabilì clamorosamente che la santa non era mai esistita (James Bentley, 1985, Ossa senza pace, Sugarco Edizioni, Milano, p. 188).

Le conclusioni cui pervenne la Sacra congregazione dei riti si basavano sul fatto che non era dato vedere alcun segno di martirio nell’epigrafe; che pax tecum non ricorre mai nelle epigrafi dei martiri, che già possiedono la pace; che i laterizi con l’iscrizione, in quanto riutilizzati, non davano garanzia circa l’identità della giovane. Infine, l’ampolla non conteneva sangue umano, bensì semplici aromi, utilizzati nelle sepolture dei cristiani.

Di recente, comunque, in un libro di Don Giovanni Braschi, rettore del Santuario di Santa Filomena, dal titolo La Tomba di Filomena tra scienze e fede, si arriva a conclusioni diametralmente opposte. Grazie all’aiuto di tre centri scientifici, l’Opificio delle Pietre Dure e Laboratorio di Restauro di Firenze, il Centro Universitario degli Studi di Milano-Bicocca, il Consorzio Interuniversitario per lo Sviluppo dei Sistemi a Grande Interfase, a cui sono stati affidati i reperti archeologici della tomba di Santa Filomena, sembra che sia stata accertata la reale esistenza della santa. Secondo Don Braschi, la tomba di Santa Filomena, collocata nelle catacombe di Priscilla a Roma, sarebbe risalente al periodo delle persecuzioni (150 – 250 d.C); i tre laterizi che sigillavano la tomba, disposti in maniera errata, non sarebbero mai stati riutilizzati; infine, l’ampolla trovata nella tomba avrebbe contenuto del sangue e non dei semplici aromi. 

I fedeli, dal canto loro, non hanno atteso il responso della scienza e dal secolo scorso continuano a venerare santa Filomena e ad attribuirle miracoli di ogni sorta. Del resto, la fede è soprattutto una questione psicologica più che teologica. Se si crede che qualcosa sia vero, si agirà nei suoi confronti in maniera coerente, mettendo in moto comportamenti, atteggiamenti, percezioni che finiscono con il confermare la credenza iniziale, secondo la classica formulazione della cosiddetta “profezia che si autoavvera”.

I miracoli avvengono dove c’è fede, ossia credenza, ovvero uno stato psicologico favorevole ad essi. Lo dice anche l’evangelista Matteo: «E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità» (Mt 13, 58).

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Miracolo a causa di un errore cognitivo

Tra gli errori cognitivi che maggiormente affliggono la mente umana quello sintetizzato dalla formula post hoc ergo propter hoc è sicuramente uno dei più diffusi. Esso indica la tendenza a pensare che due eventi siano causalmente correlati perché uno accade dopo l’altro. Ad esempio, si ha una situazione di post hoc ergo propter hoc quando si recita una formula magica e ci si sente improvvisamente bene (in realtà, i due fenomeni non sono correlati e l’improvviso benessere potrebbe essere dovuto a una causa non considerata); oppure quando, in seguito a un’ondata di immigrazione, aumentano l’inflazione e la criminalità e si pensa che siano state causate dagli immigrati (quando le cause potrebbero essere altre). Già il filosofo inglese Hume faceva notare che la mente umana ha la forte tendenza a porre in rapporto causale fenomeni che si verificano l’uno dopo l’altro e che spesso i rapporti causali hanno a che vedere più con le nostre aspettative che con la logica. Parte della fallacia deriva dal fatto che un evento può essere preceduto da molti eventi che potrebbero essere, singolarmente o complessivamente, le vere cause dell’evento.

Un esempio in tema di post hoc ergo propter hoc è dato da un episodio narrato e interpretato in senso miracolistico da James Bentley, autore di Ossa senza pace, interessante testo di qualche decennio fa dedicato alla storia delle reliquie, religiose e non. In prossimità della basilica di San Giovanni in Laterano, a Roma, si trova la cosiddetta scala sancta, ventotto gradini di marmo che, secondo la tradizione, appartennero un tempo al palazzo di Ponzio Pilato a Gerusalemme e che furono percorsi da Gesù stesso. Sempre secondo la tradizione, fu sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino, a farla trasportare a Roma nel 326 d. C. Afferma Bentley:

Spinti da questa credenza, i cristiani invocano una benedizione o un miracolo mentre seguono con devozione i passi del loro Redentore, salendo umilmente in ginocchio la Scala Sancta. Gli stessi papi non hanno mai cessato di manifestare il loro rispetto per il potere spirituale di simili reliquie e per la loro utilità pratica nei momenti di bisogno. Così, nel settembre del 1870, quando Vittorio Emanuele II si apprestava a invadere Roma per portare a compimento l’unità d’Italia, papa Pio IX, all’età di settantotto anni, andò subito alla Scala Sancta e risalì in ginocchio i ventotto gradini. Anche gli scettici devono riconoscere che in seguito il Vaticano sfuggì all’incorporazione nell’Italia unificata (Bentley, J., 1985, Ossa senza pace, SugarCo Edizioni, Milano, pp. 58-59).

Bentley pone in diretta relazione causale l’ascesa in ginocchio della scala sancta da parte di Pio IX con la mancata annessione del Vaticano all’Italia. Ma è dubbio che un evento come la fine del potere temporale della Chiesa a seguito degli avvenimenti del 1859-1860 e la perdita dei territori dello stato pontificio, tranne Roma e il Lazio, seguita, nel 1870, dalla cosiddetta breccia di Porta Pia, che sancì l’annessione di Roma al Regno d’Italia, possa essere interpretato come un aiuto divino alla causa del papato, che, anzi, proprio in quell’occasione, subì uno scacco tremendo. Solo uno sguardo assai selettivo può assegnare al gesto di Pio IX un ruolo fondamentale in una vicenda che ha segnato il tramonto definitivo dello Stato pontificio per come era noto all’epoca.

E, in effetti, l’errore cognitivo del post hoc ergo propter hoc è spesso accompagnato da un altro fenomeno altrettanto frequente, quello della percezione (ma anche della memoria) selettiva. In altre parole, tendiamo a percepire (e ricordare) soprattutto gli eventi, i fenomeni, le circostanze che più concordano o corrispondono alle nostre aspettative, credenze, convinzioni. Così, se crediamo nell’esistenza dei miracoli, prestiamo attenzione soprattutto agli elementi della narrazione che sembrano avallare l’interpretazione miracolistica, a scapito degli altri. Così, nel racconto di Bentley, la selezione di particolari avvenimenti – la salita in ginocchio della Scala sancta da parte di Pio IX e la mancata incorporazione del Vaticano nello stato italiano – viene letta come il verificarsi di un evento straordinario di natura divina, quando, invece, gli anni del papato di Pio IX furono tra i più disastrosi per le sorti temporali dello stato pontificio. Così facendo, anche un disastro storico può tramutarsi in una vittoria favorita dalla divinità. Basta selezionare i fatti giusti.

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“Uccideteli tutti. Il Signore conosce infatti quelli che sono suoi”

Il 22 luglio 1209, la città di Béziers fu saccheggiata e i suoi abitanti trucidati. Fu la prima tappa della cosiddetta crociata contro gli albigesi, un movimento ereticale diffuso in diverse zone d’Europa, tra cui la Linguadoca in Francia, a cui la Chiesa cattolica diede guerra spietata, anticipando i misfatti dell’Inquisizione.

Sul massacro di Béziers si diffusero presto una serie di notizie false. Ad esempio, alcune fonti riferirono che i morti durante il saccheggio furono 60.000. All’epoca Béziers aveva circa 15.000 abitanti ed è legittimo supporre che i morti siano stati in realtà cinque o seimila, compresi i combattenti crociati. I numeri gonfiati servirono a certe narrazioni sia per enfatizzare la potenza dello schieramento crociato sia per sottolinearne la crudeltà.

Al massacro di Béziers è associato anche uno degli episodi più celebri della crociata contro i catari, così narrato dal monaco cistercense Cesario di Heisterbach:

Quando scoprirono, dalle ammissioni di alcuni di loro, che c’erano cattolici mescolati con gli eretici, dissero all’abate [Arnaldo Amauri, legato del papa Innocenzo III, da cui ricevette l’incarico di reprimere l’eresia catara]: «Signore, cosa dobbiamo fare, poiché non possiamo distinguere tra i fedeli e gli eretici?». L’abate, come gli altri, temeva che molti, per paura della morte, si spacciassero per cattolici e, dopo la loro partenza, tornassero alla loro eresia, e si dice che abbia risposto «Caedite eos. Novit enim Dominus qui sunt eius», «Uccideteli tutti. Il Signore conosce infatti quelli che sono suoi» (frase che riprende 2 Tim 2. 19) e così innumerevoli in quella città furono uccisi.

Quanta verosimiglianza c’è in questo celebre episodio? Stando agli storici, è improbabile che ciò sia avvenuto davvero. Come spiega Ernest Fornairon:

Non solo è assolutamente inverosimile, infatti, che dei soldatacci, ai quali era stata data la consegna di non concedere quartiere al nemico, abbiano avuto lo scrupolo e la delicatezza d’animo di voler distinguere tra colpevoli ed innocenti; ma è stato inoltre stabilito, senz’ombra di dubbio, che il legato pontificio durante i combattimenti si teneva sempre lontano dalla mischia, restandosene appartato assieme a tutti gli altri dignitari della Chiesa. A maggior ragione, quindi, egli dovette comportarsi in tal modo quel tragico 22 luglio del 1209, per non correre il rischio di venirsi a trovar mischiato con la masnada degli sgozzatori, formata quasi unicamente dalla feccia delle forze crociate. L’immaginazione spinta all’eccesso costituisce talvolta una qualità essenziale del romanziere, ma lo storico deve guardarsene nel modo più assoluto (Fornairon, E., 2012, Lo sterminio dei catari. 1207-1244: il mistero di una crociata nel sud della Francia, PGreco, Milano, p. 142).

Bisogna, inoltre, considerare che la frase dell’abate è citata solo da pochi storiografi e non nelle cronache di autori locali; fatto che corrobora ulteriormente l’idea che essa non abbia alcun fondamento storico.

È probabile che questa storia sia sopravvissuta fino ad oggi più per meriti “estetici” che per la sua natura fattuale. Si tratta, in altre parole, di una narrazione ad hoc, “troppo bella per non essere vera”. Tuttavia, come confermerebbe qualsiasi storico contemporaneo, la verità storica non corrisponde necessariamente alla sua appropriatezza estetica. “Bello” non significa “vero”, nella storia come nella vita. Anche se spesso abbiamo l’irresistibile tentazione di crederlo.

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