Guide turistiche e profezie che si autoavverano

Osserva Marco Aime in L’altro e l’altrove a proposito di una guida del Lonely Planet che, parlando di Quito, capitale dell’Ecuador, raccomanda per il pernottamento il “leggendario hotel Gran Casino” con le seguenti parole:

Non esiste un altro hotel come questo in nessun’altra capitale dell’America latina […]. È sempre piano di viaggiatori spartani ed è un ottimo posto per acquisire informazioni di viaggio aggiornate. Se avete viaggiato in Ecuador (o in America Latina) avrete certamente incontrato qualcuno che ha soggiornato qui. La sua popolarità è tale che è stato soprannominato Gran gringo.

«Si tratta, in realtà, di un vecchio hotel, che sorge nella parte alta della città: caratteristico, ma non troppo. La sua fama è dovuta più al fatto di comparire su una delle guide più diffuse che non sul suo reale fascino né sulla convenienza. Solitamente affollatissimo di turisti, è piuttosto anonimo e peraltro neppure particolarmente economico; nelle vie del centro si trovano hotel migliori, meno cari e assai più comodi per visitare la città o raggiungere le stazioni delle corriere. Lo strumento della citazione su una guida a grande diffusione, tuttavia, risulta essere l’innesco di un meccanismo tipico delle profezie autoavverantesi. Un luogo è definito ideale per il turista nel testo di una guida; in virtù del potere di indirizzo di tale segnalazione, il luogo diventa effettivamente (ancora più) frequentato dai turisti; essendo intensamente popolato di turisti, esso acquista una riconosciuta nomea e un’alta reputazione di “turisticità”, e per questo aumenta ulteriormente il proprio potere di attrazione» (Aime, M., Papotti, D., 2012, L’altro e l’altrove. Antropologia, geografia e turismo, Einaudi, Torino, pp. 94-95).

Il turismo è una macchina ineguagliabile di profezie che si autoavverano, anzi si basa sulla capacità di creare realtà selettive sfruttando immaginari esotici e luoghi comuni secolari. Tali luoghi comuni sono perpetuati da guide e altro materiale turistico, in cui il turista trova conferma delle proprie aspettative, verificandole al momento del suo arrivo alla meta di destinazione. Un circolo vizioso o virtuoso, secondo il punto di vista assunto, che fornisce un esempio del potere della immaginazione sulla realtà e dell’immagine sulla percezione.

Il turismo è una bolla in cui il turista sperimenta la stessa finzione che assorbe dai film. La realtà dei luoghi è continuamente mediata e distorta da prismi fantastici. L’esperienza turistica è filtrata come accade nella realtà virtuale, se non di più. Si viaggia solo per vedere ciò che già si conosce per come lo si conosce. Non è ammessa alcuna conoscenza nuova, dissonante rispetto al repertorio di immagini che già si possiede. Tutto è già dato. E se qualche elemento nuovo si impone ne avvertiamo fastidio. Ma così il turismo finisce con l’essere la valorizzazione commerciale dello stereotipo, promossa a furia di profezie autoavverantesi.

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Turismo e profezia che si autoavvera

L’allure di un qualsiasi luogo turistico è fondato su immagini, ossia sulle rappresentazioni che di quel luogo hanno i turisti.

Si va in un certo posto perché fotografie, filmati, depliant, documentari, siti web comunicano una determinata immagine di esso che, riprodotta incessantemente e ossessivamente, diventa l’immagine per antonomasia del posto.

Questa immagine, abitualmente, seleziona determinati aspetti del luogo – quelli considerati più “caratteristici” – scartandone altri e appare come un velo, a tratti opaco a tratti trasparente, che, sovrapponendosi alla realtà, ne consente una visione solo parcellizzata.

In questo processo interattivo tra luoghi, immagini e percezioni dei luoghi, si innesca frequentemente il meccanismo della profezia che si autoavvera. Si dice che un luogo presenta determinate caratteristiche e a esso viene associata una determinata immagine. Tanto più questa immagine si diffonde, più essa viene riconosciuta e diventa riconoscibile, sedimentandosi nell’immaginario turistico collettivo. E più diventa riconoscibile, più conviene utilizzarla con la conseguenza che il luogo si adatterà, per motivi economici, a quell’immagine, facendola propria e venendo incontro ai gusti dei suoi visitatori.

È così che la Scozia è identificata con la cultura celtica, l’Australia con il paradiso degli appassionati di surf, l’Estremo Oriente con l’esotismo e la saggezza, Napoli con pizza e sfogliatelle ecc.

In questo modo, le nostre aspettative, credenze, rappresentazioni della realtà diventano quella realtà. Paradossalmente, tuttavia, il turista, una volta giunto alla sua meta, si illuderà di trovarsi di fronte  a una percezione autentica, del tutto indipendente dal “gioco” psicosociale della profezia che si autoavvera che, invece, ha costruito quel luogo.

Del resto, noi umani lo facciamo spesso. Creiamo il mondo e crediamo che esso sia così per meriti propri. È successo con il capitalismo, con la democrazia, con la religione. Perché, sì, anche dio è una nostra creazione. Figuriamoci il turismo.

P.S. Sulla profezia che si autoavvera rimando, come al solito, al mio Oracoli quotidiani.

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Sul “porno motivazionale”

È stato durante il Ted Talk del 2014, intitolato “I’m not your inspiration, thank you very much” e pronunciato poco prima della morte a soli 32 anni, che Stella Young, attivista australiana per i diritti dei disabili, scrittrice e comedian, ha pronunciato il termine inspirational porn, diffusosi da allora nel mondo della disabilità per indicare un atteggiamento che oltraggia la persona con disabilità come, e forse più, delle tradizionali offese che, da secoli, la bersagliano.

L’atteggiamento inspirational porn, (“porno motivazionale”, in italiano) è quello per cui se una persona con disabilità riesce a diplomarsi, a fare sport, ad avere una famiglia o a fare qualsiasi altra cosa che fa una persona normodotata è giudicata “speciale”, straordinaria, coraggiosa, un’eroe/eroina e fonte di ispirazione per altri.

Questa immagine superomistica delle persone con disabilità è particolarmente coltivata dai media che amano diffondere video e foto di persone con sindrome di down che si laureano, atleti senza gambe che vincono medaglie, persone autistiche che scrivono libri o svolgono complessi calcoli matematici per poi proporli come testimonial di consumi o di campagne prosociali.

Come dice Stella Young, avere una disabilità non è una cosa brutta, non è né una malattia né una patologia, è semplicemente una condizione. Al tempo stesso, non è nemmeno qualcosa che rende eccezionali, straordinari. È una condizione che impone alla persona con disabilità di far fronte alla vita secondo determinate modalità che non dipendono esclusivamente da lei, ma dalla società che la circonda. Dal modo in cui questa reagisce alla disabilità, può dipendere una vita vissuta in modo degno oppure no.

Il porno inspirational oggettifica la disabilità, convertendola in un’opportunità motivazionale, rivolta in particolare alle persone normodotate affinché possano, per confronto, trarre ispirazione da essa per avere successo nella vita. Il senso del messaggio pornografico è: «Se ce l’ha fatta lui/lei, posso farcela anch’io» oppure «Anche se le cose mi vanno male, c’è chi sta peggio di me!». Tutto questo genera un “effetto contrasto” che viene, consapevolmente o inconsapevolmente, adoperato dai normodotati per conferire un significato al proprio agire e per automotivarsi in vista del raggiungimento di determinati traguardi.

Il punto è che questo atteggiamento alimenta pietà e commiserazione nei confronti delle persone con disabilità, ridotte ad una sorta di sponda motivazionale per incoraggiare chi disabile non è. Un atteggiamento niente affatto dissimile da quello di chi offende le persone con disabilità e le taccia di inferiorità. L’inspirational porn tratta le persone con disabilità come persone utili alla causa dei normodotati e niente più. Inoltre, come osserva Iacopo Melio nel suo ultimo libro È facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo) (Erickson, Trento, 2022, p. 38), la “specialità” delle persone disabili «non fa altro che evidenziare ancora una volta la diversità, enfatizzando una positività discriminatoria».

L’inspirational porn è un atteggiamento vivo oggi più che mai, particolarmente inquietante perché condiviso da persone “ben intenzionate” che non credono di fare del male a nessuno se si rivolgono a una persona disabile etichettandola come “speciale” o “coraggiosa”. Di qui la necessità di un linguaggio realmente inclusivo che eviti la doppia trappola delle parole crassamente oltraggiose e dei discorsi che influenzano a spese degli altri. Si tratta di una forma insidiosa di discriminazione che probabilmente, se fatta rilevare, susciterebbe una reazione negativa nei benpensanti. Ma si sa che di buone intenzioni è lastricato l’inferno.

Il discorso di Stella Young è visibile e ascoltabile qui su YouTube.

Qui è possibile leggere la traduzione sul sito di Fabrizio Acanfora.

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Quel cinico di Yeats

For Anne Gregory

“Never shall a young man,

Thrown into despair

By those great honey-coloured

Ramparts at your ear,

Love you for yourself alone

And not your yellow hair”.

“But I can get a hair-dye

And set such colour there,

Brown, or black, or carrot,

That young men in despair

May love me for myself alone

And not my yellow hair.”

“I heard an old religious man

But yesternight declare

That he had found a text to prove

That only God, my dear,

Could love you for yourself alone

And not your yellow hair”.

Scritta sotto forma di dialogo tra il poeta e una giovane donna, For Anne Gregory non è solo una poesia – una delle più citate dell’irlandese William Butler Yeats (1865-1939) – ma anche una riflessione attualissima su che cosa significhi amare “veramente” una persona.

Secondo uno dei luoghi comuni più diffusi in ambito sentimentale, il vero amore presuppone che l’altro/l’altra debba essere amato/amata per sé stesso/stessa, non per una caratteristica fisica o un altro elemento contingente e transeunte: per un ricciolo che ricade in un dato modo sulla fronte, per un sorriso perfettamente asimmetrico o completamente asimmetrico, per la grandezza degli occhi o la bellezza delle natiche.

Vi sarebbe un’essenza, unica in tutti noi, che solo il vero amore consentirebbe di cogliere; un’essenza irriducibile a un tratto fisico, ma anche a uno status professionale, a un’appartenenza di classe, ceto o gruppo sociale, a determinate caratteristiche cognitive e di personalità. Questa essenza rimarrebbe la medesima a dispetto di ogni cambiamento superficiale (e quindi anche fisico) e sarebbe immune al passare del tempo o a un mutamento interiore.

Questo pregiudizio genera spesso, tra amanti, una domanda, che finisce inevitabilmente con il suscitare imbarazzo e che raramente trova risposta, se non per convenienza. La domanda può assumere numerose forme: “Mi ameresti se diventassi gobba?”; “Mi amerai ancora quando sarò vecchio?”; “Mi ameresti ancora se diventassi brutto/povera/cieco/impotente?”.

Chi risponde tentenna, si chiede perché gli/le venga rivolta quella domanda. Al più, tenderà ad attribuirne l’origine alla insicurezza dell’altro/a. e, quindi, mentirà, assicurando l’eternità del proprio amore a dispetto di ogni avversità della vita.

La realtà, come dice Yeats, è che per amare – per amare davvero – abbiamo bisogno proprio di quel ricciolo, quel sorriso, quegli occhi, quelle natiche. Non esiste un’essenza che, trascendendo ogni contingenza e celandosi negli strati più profondi del nostro essere, sarebbe afferrabile solo dall’amore, l’amore vero.

Amare significa amare il contingente, l’effimero e assolutizzarlo, sublimarlo nell’eterno. L’amore è accidentalità eternata. Non esiste un sé assoluto, se non nella mitologia sull’amore che l’Occidente va elaborando da migliaia di anni.

Solo dio, conclude Yeats, potrebbe amarci per noi stessi e basta. Ma forse anche lui (o lei) avrebbe qualche difficoltà a farlo. Basti ricordare che amò Mosè solamente quando questi “alzava le mani”! (1).

(1) Il riferimento è a Esodo 17, 8-16

Allora Amalek venne a combattere contro Israele a Refidim. Mosè disse a Giosuè: «Scegli per noi alcuni uomini ed esci in battaglia contro Amalek. Domani io starò ritto sulla cima del colle con in mano il bastone di Dio». Giosuè eseguì quanto gli aveva ordinato Mosè per combattere contro Amalek, mentre Mosè, Aronne, e Cur salirono sulla cima del colle. Quando Mosè alzava le mani, Israele era il più forte, ma quando le lasciava cadere, era più forte Amalek. Poiché Mosè sentiva pesare le mani dalla stanchezza, presero una pietra, la collocarono sotto di lui ed egli vi sedette, mentre Aronne e Cur, uno da una parte e l’altro dall’altra, sostenevano le sue mani. Così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole. Giosuè sconfisse Amalek e il suo popolo passandoli poi a fil di spada. Allora il Signore disse a Mosè: «Scrivi questo per ricordo nel libro e mettilo negli orecchi di Giosuè: io cancellerò del tutto la memoria di Amalek sotto il cielo!». Allora Mosè costruì un altare, lo chiamò «Il Signore è il mio vessillo» e disse: «Una mano s’è levata sul trono del Signore: vi sarà guerra del Signore contro Amalek di generazione in generazione!.

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Ostentare stati d’animo privati

Tra i fenomeni più sconcertanti in cui è possibile imbattersi frequentando i cosiddetti Social c’è quello che definirei “ostentazione di sentimenti privati”. È il caso dell’uomo che scrive un post su Facebook per dichiarare o ribadire il proprio amore alla moglie con la quale sente di aver realizzato il sogno della propria vita o della donna che, su Twitter, cinguetta il proprio affetto alla madre, appena scomparsa, che ha fatto di lei la figlia più felice e grata del mondo.

In questi casi, e in tanti altri simili, ciò che sconcerta è il fatto che dichiarazioni o confessioni, una volta confinate alla sfera dei sentimenti privati, sono oggi esibite in pubblica piazza (virtuale) così che centinaia di persone possano leggerle.

Quali sono i motivi di tali ostentazioni? Il primo potrebbe essere il desiderio di mostrare al mondo quanto si è felici e fortunati, forse per suscitare invidia nel prossimo virtuale. Il secondo potrebbe essere il bisogno di trovare conferma dei propri sentimenti negli “amici” o “followers”, che immancabilmente commenteranno la loro approvazione condendola con emoji ed emoticon di ogni tipo (in questi casi ci si astiene, di solito, dall’esternare commenti malevoli). Il terzo potrebbe essere una sorta di egocentrismo sfrenato che annulla ogni confine tra privato e pubblico, illudendo che agli altri interessi conoscere la propria situazione sentimentale. Il quarto potrebbe essere una sorta di incompetenza digitale che induce a pubblicare dichiarazioni di stati d’animo che dovrebbero rimanere privati.

Qualsiasi sia il motivo, resta il disorientamento – e talvolta l’irritazione – che provocano simili dichiarazioni. Quando ci appaiono mentre scorriamo le pagine di un Social rimaniamo imbarazzati, confusi, turbati e ci domandiamo perché. Siamo tentati di contattare l’amico/amica e chiedere spiegazioni della sua decisione, rivolgergli una domanda, tentare di capire. Ci viene il dubbio che non abbia il coraggio di rivelare i suoi stati d’animo in privato, ma che abbia bisogno di un pubblico che gli/le garantisca sostegno.

Forse è solo uno dei tanti esempi di trasformazione antropologica che i Social producono in noi. Non ce ne accorgiamo, ma siamo spinti a mettere in vetrina ogni aspetto recondito del nostro essere, senza pensare che tale vetrinizzazione finisce con il violare quanto di più intimo e segreto è in noi.

Forse, un giorno, l’intimità non esisterà più. O forse esisterà solo nella sua forma esibita.

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Il link-boy: un mestiere che non esiste più

Quando non esisteva ancora l’illuminazione pubblica e il calar del sole coincideva con l’oscurità più assoluta, tentare di camminare in strada costituiva un’avventura non priva di rischi, sia per la difficoltà di vedere dove mettere i piedi sia per il pericolo rappresentato dalla presenza di possibili malintenzionati in agguato.

Una soluzione, almeno nella Londra premoderna, era rappresentata dai cosiddetti link-boys o torch-bearers (“portafiaccole”), ragazzi giovanissimi, antesignani dei taxi contemporanei, che, in cambio di denaro, conducevano i clienti in giro, illuminando le strade con le loro fiaccole portatili. I link-boys si accalcavano soprattutto intorno a taverne, teatri e ritrovi per giocatori d’azzardo, dove era più facile trovare persone interessate alla loro “merce”.

I link-boys compaiono frequentemente tra le pagine dei celebri diari di Samuel Pepys. Di loro parlano anche Shakespeare e Dickens. Come molti altri proletari, non ricevettero mai molta attenzione dalle classi più colte, anche se fanno talvolta capolino in questo o quell’autore. Alcuni poeti li paragonavano a lucciole notturne; alcuni pittori li ritraevano come cupidi.

I link-boys erano spesso guardati con sospetto perché si temeva fossero in combutta con predoni di ogni genere; sospetto accresciuto dalla loro infima estrazione sociale. Non meraviglia, dunque, che i clienti fossero sempre in uno stato di tensione al momento del loro impiego.

Curiosamente, con l’introduzione dei lampioni in strada, la loro utilità non venne meno. A causa delle terribili nebbie a cui ancora oggi, in parte, è associata la città di Londra, essi continuarono a essere impiegati almeno fino alla fine dell’Ottocento, quando la più potente illuminazione elettrica rese obsoleta la loro opera.

Oggi, ci sembra strano che sia esistito per molto tempo un mestiere come quello del link-boy. Ricordarlo ci serve a recuperare le tracce di un mondo che non c’è più e forse a farci provare un po’ di nostalgia per una società in cui non vivremo mai e che sembra lontana secoli e secoli dalla nostra.

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Migrazioni e numeri ingannevoli

L’Italia dall’inizio del 2022 ha fatto entrare sul proprio territorio quasi 90.000 migranti. Di questi, secondo gli accordi internazionali, dovrebbero essere ricollocate circa 8.000 persone. Finora ne sono state ricollocate 117, di cui solo 38 in Francia.

Queste le parole pronunciate dal premier italiano Giorgia Meloni nel corso di una conferenza stampa in cui il primo ministro italiano ha commentato le reazioni francesi, a suo dire “spropositate”, sui recenti sviluppi della questione migranti.

In effetti, a giudicare dai numeri citati, sembrerebbe che l’Italia accolga, sfami e ospiti un numero di migranti nettamente superiore a quello di qualsiasi altra nazione europea. Ma le cose stanno davvero così?

L’edizione odierna di «Repubblica» fa chiarezza sull’argomento.

Se è vero che oltre 90.000 migranti sono approdati sulle coste italiane, solo il 12% sono arrivati su navi ONG, che invece, nella retorica comune, sembrano aver sostituito gli scafisti come mezzo di trasporto preferito dei disperati.

Se poi diamo un’occhiata a quanti degli approdati decidono di restare in Italia, al numero delle richieste di asilo e al numero di stranieri residenti in rapporto alla popolazione  complessiva, l’Italia figura decisamente dietro altri paesi europei.

Ad esempio, Germania, Francia e Spagna accolgono più migranti dell’Italia, circostanza che rende non credibile il mito, che circola da anni, dell’invasione del nostro paese da parte dei migranti.

Per quanto riguarda le richieste d’asilo, sia la Germania (190.545) sia la Francia (120.685) sia la Spagna (65.295) hanno avuto più richieste dell’Italia (53.610), stando a dati Eurostat, aggiornati ai primi cinque mesi del 2021.

Infine, l’incidenza della popolazione straniera sulla popolazione complessiva è superiore a quella italiana (8,7%) in Austria (17%), Germania (12,7%), Spagna (11,3%), Irlanda (13%), Belgio (12,6%) e Danimarca (9,2%). Dei 5,2 milioni di stranieri residenti in Italia, poi, quasi la metà sono europei e solo il 22% africani, a dispetto della percezione, alimentata da fonti improvvide, che siano tutti arrivati su barconi guidati da scafisti.

Insomma, i dati sulle migrazioni devono essere letti con giudizio e non sbandierati qua e là in base alle convenienze politiche di turno. La vicenda Italia-Francia insegna che, in base al numero o alla percentuale prescelti, si può sostenere, quasi impunemente, una percezione o quella opposta.

Ai media e ai cittadini l’onere di comprendere come questi dati debbano essere interpretati, senza lasciarsi ingannare dalle posizioni di partenza dei vari schieramenti politici.

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Sociologia del crimine

Hester, S., Eglin, P.

(a cura di Enrico Caniglia e Cirus Rinaldi, traduzione di Romolo Giovanni Capuano)

Sociologia del crimine. Le prospettive costruzioniste

PM Edizioni, Varazze (SV),

pp. 532, 2022

Questo libro è un classico della letteratura socio-criminologica di stampo costruzionista. Attraverso esempi e analisi dettagliate, esso mostra come il crimine sia il prodotto di processi di criminalizzazione costituiti attraverso l’interazione sociale e la prassi linguistica. Questa nuova edizione da me tradotta per la prima volta in lingua italiana permette un approccio critico ampliando le applicazioni ad ambiti come il genere, la razza e la classe sociale. Corredato di utili sezioni che comprendono domande di verifica, esercizi, esempi applicati al contesto globale e ulteriori riferimenti bibliografici, il volume si configura come uno dei testi più aggiornati per lo studio del crimine e della devianza. Arricchito da schede di approfondimento e illustrato da una scrittura intrigante, a tratti informale, il volume si offre come una guida affascinante per chi voglia avventurarsi nelle nuove prospettive di analisi sui sempre più incerti confini tra devianza e normalità.

Dal primo capitolo:

L’idea fondamentale che pervade l’approccio da noi adottato in questo testo nei confronti della sociologia e del crimine è che i membri della società sono sociologi per il semplice fatto di essere membri della società. Per dirla in altre parole, fare sociologia è parte dell’essere membri della società. Possiamo dire che i membri della società fanno ricerca sociologica nel momento stesso in cui svolgono le loro faccende quotidiane e come condizione del loro agire competente. Si fa ricerca sociologica ogni volta che si sceglie come vestirsi la mattina, ci si dirige a scuola o al lavoro in automobile o a piedi, si parla o si manda un messaggio a un amico per telefono, si organizzano le attività del giorno, si chiacchiera con i compagni di classe o con i colleghi di lavoro, si conversa con i genitori a pranzo e così via). Non siate sconcertati. Siamo abituati a ritenere che la sociologia sia solo il nome di una scienza sociale, una disciplina, insegnata a scuola, al college e all’università nell’ambito di corsi di studio formali, una materia da apprendere dagli insegnanti in classe o online, da manuali e articoli di riviste o da altri testi di studio scritti da specialisti, di solito professori, e acquisendo e adoperando metodi di ricerca specialistici. D’accordo. Chiamiamola “sociologia professionale” realizzata da “sociologi professionisti” come gli autori di questo libro. Ma, seguendo le idee del sociologo professionista Harold Garfinkel, potremmo parlare di “metodi di ricerca sociologica dei membri della società”). Che cosa significa?

La vita ordinaria, quotidiana che viviamo con e tra gli altri ha un carattere non solo “sociale”, ma fondamentalmente sociologico. In altre parole, la sociologia non è semplicemente il nome dell’apparato concettuale e metodologico specializzato che i professionisti di una disciplina accademica di nome sociologia adoperano per analizzare la vita sociale, ma un insieme di pratiche che tutti i membri della società utilizzano come condizione della vita quotidiana che essi vivono. «Lo studio della conoscenza di senso comune e delle attività di senso comune consiste nel considerare fenomeni problematici i metodi grazie ai quali i membri della società, che fanno sociologia profana o professionale, rendono osservabile le strutture sociali delle attività quotidiane» (Garfinkel). Con “vita quotidiana” o “attività quotidiane” si intende tutta la vita sociale vissuta sotto l’egida di ciò che i fenomenologi definiscono “atteggiamento naturale” o “atteggiamento della vita quotidiana”, indipendentemente dal fatto che i contesti siano quotidiani o specializzati. Inoltre, la sociologia professionale è sorretta dalla sociologia profana.

Questo approccio sottende la tesi che, lungi dall’essere prive degli schemi teorici formali che spiegano l’azione sociale, propri della sociologia professionale, le azioni degli individui possono essere routinariamente viste come intellegibili nei termini delle circostanze pratiche in cui hanno luogo. Inoltre, nella misura in cui «il linguaggio è inteso come azione pratica» (Lynch), «sulla scia di Wittgenstein, gli usi concreti degli individui sono usi razionali in un dato “gioco linguistico”. A quale gioco giocano?» (Garfinkel). Garfinkel avrebbe potuto chiedersi anche: «Che gioco è?» perché «un gioco linguistico è qualsiasi ordine di attività umane entro cui è incassato l’uso del linguaggio». Di conseguenza nessun gioco linguistico costituisce «una “proprietà” individuale» (Coulter).

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Chi sono le persone scomparse?

Quello delle persone scomparse è un tema tanto tragico quanto affascinante da un punto di vista criminologico. Il fatto che di una persona cara non si sappia improvvisamente più nulla è sufficiente a deprimere perfino il più cinico degli esseri umani. Si tratta di un’esperienza terribile dalla quale spesso non è facile riaversi. Al tempo stesso, il fatto che, nella nostra epoca di sorveglianza capillare e totale, ci siano ancora persone che fanno perdere le proprie tracce, volontariamente o no, suscita numerosi interrogativi. Non aiuta certamente a sbrogliare la matassa una lettura superficiale dei periodici rapporti governativi in materia. Prendiamo il caso dell’ultimo rapporto del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, che copre i primi sei mesi del 2022.

Secondo questo, le denunce di persone scomparse presentate dal 1° gennaio al 30 giugno 2022, sono state in tutto 9.599, pari ad una media di 53 al giorno; in lieve diminuzione rispetto al semestre precedente (60), ma in leggero aumento rispetto al primo semestre del 2021 (45), anno che ha fatto registrare 19.269 denunce.

A queste scomparse corrispondono 5.054 ritrovamenti (pari al 52,34%) e 4.575 denunce ancora attive (pari al 47,66%), riferiti alle sole denunce di scomparsa presentate nello stesso primo semestre. Dei 5.054 ritrovamenti, 76 hanno riguardato persone decedute, pari all’1,5%.

Quasi i due terzi delle scomparse riguardano minori, prevalentemente stranieri, e persone con disturbi psichici e con deficit cognitivi, soprattutto anziani.

Limitarsi a una lettura superficiale di questi dati sarebbe ingannevole. Dai numeri sembrerebbe che centinaia e centinaia di persone varchino un invisibile cancello dal quale quasi la metà non torna, forse vittima di chissà quali nefandi delitti. Non a caso i rapporti del Commissario di Governo suscitano spesso allarme sociale da parte di chi teme che soprattutto i minori stranieri finiscano nelle grinfie di trafficanti di organi, trafficanti di esseri umani, organizzazioni di pedofili sadici, clan dediti alla prostituzione minorile e così via.

In realtà, esaminando le denunce di scomparsa distinte per motivazione, emerge come «delle 9.599 denunce complessive, ben 7.895, pari all’82,25%, riguardano casi registrati come allontanamento volontario. Seguono i casi di scomparsa non determinata, pari all’8,41%, quelli riferiti a possibili disturbi psicologici, pari a 5.06%, ad allontanamento da istituto o comunità, pari al 3,86%, a sottrazione da coniuge o altro congiunto, pari allo 0,23% e a persona scomparsa possibile vittima di reato, pari allo 0,19%».

Se, dunque, la maggior parte degli scomparsi si allontana volontariamente, le possibili vittime di reato sono solo lo 0,19% (n=18) dei 9.599 casi complessivi, di cui, comunque, 10 sono già stati ritrovati. Numeri infimi che dovrebbero far riflettere chi scrive periodicamente che, ogni anno in Italia, migliaia di persone “svaniscono nel nulla”, preda di crimini indicibili e misteriose organizzazioni.

È necessario imparare ad analizzare i dati in maniera scientifica e soprattutto non cedere alla fallacia dell’argumentum ad ignorantiam, consistente nel trarre una conclusione su un tema a partire da ciò che NON sappiamo di esso (“Non so perché il bambino è scomparso, QUINDI è vittima di un’organizzazione di pedofili, trafficanti d’organo, satanisti ecc.) o alla pressione della tentazione emotiva.

Naturalmente, è vero che, tra tutti i casi segnalati, si celano storie orrende e ineffabili. È anche vero che, considerate le nostre conoscenze, i casi di questo tipo sono relativamente pochi, sebbene i pochi che conosciamo ricevano un trattamento mediatico anomalo.

In conclusione, non confondiamo l’eccezionale con l’ordinario, il sensazionale con il normale, lo “scomparso” con la “vittima di reato”.

Non tutti gli scomparsi subiscono una sorte tragica. Non tutti quelli che subiscono una sorte tragica scompaiono.

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La propaganda delle voci e delle superstizioni

Voci e superstizioni, lungi dall’essere semplice chiacchiericcio, sono stati spesso utilizzati a scopo propagandistico in tempo di guerra. Nel 1950 la US Air Force diede incarico alla Rand Corporation di valutare il valore militare delle idee superstiziose. Fu pubblicato un rapporto a cura di Jean Hungerford, dal titolo The Exploitation of Superstitions for Purposes of Psychological Warfare (reperibile qui), che comprendeva anche documenti presi ai servizi segreti nazisti. Come osservò l’autrice del rapporto, nel periodo di guerra il dipartimento per la propaganda fece sporadici tentativi di “sfruttare le credenze irrazionali del nemico”.

L’inclinazione britannica per l’astrologia fu notata da Goebbels, ad esempio, che scrisse sul suo diario il 28 aprile 1942: «Dobbiamo riprendere il prima possibile la nostra propaganda basata sull’astrologia. Mi aspetto un bel po’ da questa attività, soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna». Goebbels tentò di sfruttare anche il fascino delle centurie di Nostradamus.

Mentre, nel novembre del 1939, proibiva le pubblicazioni di chiromanzia e profezie nel Reich, ordinava di stampare e diffondere un pamphlet in lingua francese sulle interpretazioni di Nostradamus. All’inizio della battaglia per la Gran Bretagna interferì inoltre con le trasmissioni radio inglesi spiegando che Nostradamus aveva profetizzato la distruzione di Londra nel 1940. Rinnovò la sua strategia un paio d’anni dopo, scrivendo nel suo diario il 19 maggio 1942: «Stiamo assoldando al nostro servizio tutti i migliori testimoni della filosofia occulta. Nostradamus si deve rassegnare di nuovo a essere citato».

Agli inizi del 1942 il British War Cabinet Defence Committee prese in considerazione l’influenza sul pubblico degli astrologi e dell’astrologia dei giornali e istituì una sottocommissione per studiare la questione. Questa riferì che «circa quattro persone su dieci provano un qualche interesse o credono nell’astrologia. È molto difficile misurare la profondità di questa fiducia, ma ci sono fondati motivi di credere che, nella grande maggioranza dei casi, sia estremamente superficiale».

Fu escogitato un “piano globale” per seminare l’idea che esperimenti di scienze occulte avessero predetto la caduta di Hitler per quell’anno. Si era deciso di puntare sulla voce che un messaggio scritto da uno spirito su una tavoletta durante una seduta avesse preannunciato questo evento. Il primo maggio il Segretario di stato approvò il progetto e, come il governatore di Hong Kong, Geoffry Northcote, spiegò in un telegramma al Colonial Office:

messaggio su tavoletta proveniente, a quanto pare, dal Tempio cinese di Macao. Progetto necessiterà essere parzialmente rivelato confidenzialmente a gentiluomo cinese di comprovate lealtà e discrezione durante boicottaggio del 1925, e probabilmente in un secondo tempo a corrispondente locale Reuters molto discreto. Operazione sarà fatta partire il 18 maggio a meno ordini contrari. Spero far arrivare storia in Germania via Tokio tramite Domei, ma suggerisco Ambasciata non debba replicare, non essere informata.

In una fase successiva della guerra anche l’American Office of Strategic Services, precursore della CIA, adottò un modesto piano, chiamato Operazione eremita, per minare il morale del nemico nell’Estremo oriente diffondendo via radio rapporti negativi astrologici, divinatori e frenologici sui governanti-fantoccio giapponesi della regione. Una trasmissione sulla lettura della mano spiegò come le linee del palmo del primo ministro giapponese, Hideki Tōjō, confermavano che i giorni dell’Impero erano contati. Un’altra, basata sulla numerologia, annunciava che un disastro catastrofico si sarebbe abbattuto sul Giappone durante la prima settimana di agosto 1945. Come è noto, quest’ultima predizione si verificò quando una bomba atomica venne sganciata su Hiroshima il 6 agosto dello stesso anno.

Voci e superstizioni sono ancora sfruttate dalla propaganda di guerra al giorno d’oggi. Grazie al potente contributo delle tecnologie informatiche, esse sono disseminate rapidamente in tutto il globo e vengono utilizzate per favorire questo o quel contendente in un vortice di falsità che preferiamo chiamare fake news.

Come è noto da tempo alle scienze umane, in tempo di guerra, la parte irrazionale della nostra mente tende ad avere la meglio su quella razionale e a far riemergere credenze e convinzioni che pensavano di avere ormai sepolto in un terreno lontanissimo.

Fonte: Davies, O., 2021, Una guerra soprannaturale. Magia, divinazioni e fede nella Prima guerra mondiale, Unicopli, Milano, pp. 343-345.

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