Automobili: tenere la destra o la sinistra?

L’introduzione di una nuova invenzione nella società causa inizialmente scompiglio, disordine, incertezza. Non si sa come gestirne le conseguenze, non si è in grado di prevederne esattamente gli effetti, si sottovalutano aspetti che, poi, una volta normati, in seguito appaiono scontati.

Prendiamo il caso dell’automobile. Oggi, è per noi ovvio che chi guida deve farlo tenendo un lato della strada. Se tutti decidessero di occupare un lato in base al desiderio del momento ne scaturirebbero caos e incidenti in quantità. Non a caso, in Italia, guidiamo a destra e sorpassiamo a sinistra. Se qualcuno decidesse di guidare a sinistra e sorpassare a destra rischierebbe una forte multa, nel migliore dei casi, e sarebbe considerato addirittura un folle dagli altri automobilisti (a dimostrazione del fatto che la violazione di una norma sociale può generare una diagnosi di cattiva salute mentale).

Non in tutti i paesi, però, si guida a destra. In nazioni importanti come Giappone, Regno Unito e Australia, e in parecchi altri, si guida a sinistra (“al contrario”, per usare una frase dall’evidente contenuto etnocentrico). Resta il fatto che, in tutti i paesi del mondo contemporaneo, precisi regolamenti impongono di tenere la destra o la sinistra uniformemente.

Agli albori dell’introduzione dell’automobile, la situazione non era affatto lineare. Prendiamo l’Italia.

Alla fine dell’Ottocento

in tutte le città della Lombardia – con l’eccezione di Milano e Abbiategrasso – si è unanimi nel tenere la destra, e la stessa cosa accade nelle città venete e in quelle emiliane, dove solo Parma si differenzia e tiene la sinistra. Proprio come accade ad Alessandria che, in Piemonte, è l’unica città di provincia a tenere la sinistra, facendo eccezione, ovviamente, per Torino. Il capoluogo piemontese, al pari di tutte le grandi città dove è rilevante la circolazione dei tram, impone a carri, cicli e automobili di procedere a mancina e di sorpassare a destra. Il fatto che i tram, nell’intero Paese, tengano la manca deriva dall’aver mutuato, sin dal loro primo apparire, modalità in uso ai treni che in Europa, seguendo l’esempio delle prime sperimentazioni ferroviarie inglesi, procedono a mancina.

Però, per chi sta alla guida di mezzi che procedono su strade normali e non su vie ferrate, la situazione già non chiara si fa piuttosto complicata non appena dal settentrione si scende verso le regioni dell’Italia centrale.

Ad Arezzo si tiene la sinistra nella città e la destra nella campagna, però a Castiglione Fiorentino, Cortona e Montevarchi – che pure si considerano città e non contado – si tiene là destra.

A Fiesole la sinistra nel centro abitato e la destra in campagna, esattamente come succede a Firenze. Però, nei dintorni dì Firenze, a Campi Bisenzio, per esempio, si tiene la destra. Mentre poco distante, a Borgo San Lorenzo, la sinistra.

Se ci si sposta si scopre che a Lucca vige la destra come a Pistoia, Livorno, Carrara, Pisa, Montepulciano e Siena. A Grosseto, invece, nessuna norma del Regolamento comunale indica quale mano tenere e idee confuse in proposito si devono avere anche a Massa e a Volterra […]. Potenza e Matera una volta tanto sono concordi: si tiene la sinistra, ma a Melfi la pensano diversamente e viaggiano in senso opposto. […] In Sicilia uniformità per la destra con l’eccezione di Adernò, Biancavilla e Castiglione che, in provincia di Catania, tengono la sinistra, come ad Alcamo, in provincia di Trapani. […] In Sardegna viaggiano a destra a Cagliari e a Tempio Pausania mentre per quanto riguarda Sassari, Iglesias e Alghero non si» sa (Boatti, G., 2006, Bolidi. Quando gli italiani incontrarono le prime automobili, Mondadori, Milano, pp. 192-193).

Bisognerà attendere diversi anni perché la situazione sia normata in maniera efficace e diventi uniforme in tutto il paese.

Il Regolamento automobilistico giunge con l’inizio del nuovo secolo: il 10 gennaio 1901 il nuovo re, Vittorio Emanuele III, promulga il Regolamento per la circolazione degli automobili. Come spesso accade in Italia – dove la vaghezza o peggio la mancata ponderatezza delle norme è direttamente proporzionale al loro proliferare – il regolamento appena nato viene, nel giro di qualche settimana, cacciato in una sorta di limbo. Il ministro dei Lavori Pubblici Gerolamo Giusso si rende conto che quello che gli è stato consegnato dal suo predecessore, Ascanio Branca, è un testo nato male, redatto da alcuni funzionari che, quasi sicuramente, non avevano esperienza alcuna del nuovo mezzo. […].

Poi, sul finire di maggio, a Bologna il Touring tiene il suo congresso nazionale e, con presa di posizione unanime, vota affinché il nuovo Regolamento decida una volta per tutte quale sia la mano da tenere sulle strade d’Italia e avanza la proposta che i veicoli «abbiano a essere obbligati a tenere la sinistra all’incontro d’altri veicoli e la destra nell’oltrepassarli».

Il modello al quale ci si ispira è quello inglese.

Poco tempo dopo, nel cuore dell’estate, il 28 luglio 1901, viene approvato con Decreto Regio un nuovo Regolamento stradale, al posto di quello varato pochi mesi prima e definitivamente cassato. Però sulla questione della mano da tenere, che dopotutto non è secondaria, si preferisce glissare.

Solo più avanti, nel 1905, viene a essere introdotta, in un nuovo Regolamento di polizia stradale in approvazione – nell’arco di dieci anni se ne produrranno quattro versioni: le due del 1901, quella del 1905 e un’ulteriore del 1909 – la norma per la quale i veicoli debbano tenere costantemente la destra e solo per oltrepassare altri veicoli la sinistra.

Però alle città che hanno più di 25.000 abitanti si riserva la facoltà di prescrivere che all’interno del loro abitato si possa tenere la sinistra purché, tuttavia, provvedano ad avvisare i forestieri che lì giungono della regola in vigore. A questo scopo all’ingresso di queste città dovranno essere innalzati cartelli con la scritta «Tenere la sinistra».

Questi cartelli «Tenere la sinistra» saranno abbattuti in tutta Italia poco dopo l’avvento al potere di Mussolini quando, con Regio Decreto del 31 dicembre 1923, verranno promulgate le Norme disciplinanti la circolazione sulle strade e aree pubbliche. In pratica, con i suoi 94 articoli, è il primo vero Codice della Strada a fare la sua comparsa in Italia e prevede che, entro sei mesi dalla sua entrata in vigore, tutte le località dove vige l’uso di tenere la sinistra si adeguino alla norma – l’articolo 7 – che impone, lo ha deciso una volta per tutte il Duce, di stare tutti a destra» (Boatti, G., 2006, Bolidi. Quando gli italiani incontrarono le prime automobili, Mondadori, Milano, pp. 195-197).

Prima di divenire ovvi, i comportamenti automobilistici hanno attraversato fasi di confusione, indecisione, non linearità, risolti a colpi di norme, prima inefficaci, poi rispettate e interiorizzate, infine divenute scontate. Il fatto è che, una volta che una condotta è divenuta scontata, tendiamo a pensare che sia sempre stata così. In realtà, scrostando la superficie dell’ovvio, appare quella della sedimentazione graduale, progressiva e non priva di ostacoli da cui è possibile apprendere una lezione: ogni prodotto storico-sociale è il frutto di una elaborazione che ha un inizio temporale e che potrebbe essere contestata, un giorno, fino a essere sostituita da un’altra elaborazione che, a sua volta, sedimentatasi e interiorizzata, apparirà scontata. Quando ciò accade, molte persone reagiscono come se la contestazione dell’ovvio fosse un attentato di lesa maestà.

Dovremmo imparare, come diceva Italo Calvino, a non aspettarci che le cose vadano sempre allo stesso modo. Del resto, la stessa vita, che diamo per scontata fino alla morte, testimonia di quanto sia effimera l’umanità e tutto ci che essa produce.

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Automobili e orrore del nuovo

In un post di qualche anno fa, avevo fatto notare come l’introduzione di una nuova invenzione susciti spesso timori di possibili utilizzi criminali, il che non è altro che una variante dell’atteggiamento misoneistico che colpisce irrefrenabilmente chiunque abbia timore di ciò che minaccia l’ordine delle cose ratificato dal tempo.

All’indomani dell’invenzione della bicicletta, ad esempio, il decano della criminologia italiana, Cesare Lombroso si diceva convinto che la bicicletta fosse il veicolo più rapido sulla strada della delinquenza perché “la passione del pedale trascina al furto, alla truffa e alla grassazione”. Per Lombroso, la bicicletta era sia causa che strumento del crimine e consentiva di tirar fuori l’anima “criminaloide” che giace in ognuno di noi. Farsi un giro in bicicletta era il modo migliore per acquisire una predisposizione al delitto e ogni tipo di vizio. Una convinzione che ogni nostro contemporaneo giudicherebbe incredibile, ma che testimonia di come, di fronte alle novità, gli scienziati spaccino spesso per sapere ciò che è solo una loro paura.

I timori misoneistici non riguardarono solo i criminologi, ma anche i medici. Il lessico medico è stato spesso utilizzato per trasmettere contenuti moralistici. Quando le automobili cominciarono a diffondersi all’inizio del Novecento, i medici misero in guardia gli automobilisti dal non superare i 40-60 chilometri orari. In caso contrario, avvertivano, il guidatore sarebbe stato sottoposto

a una tensione eccessiva, causata dalla attiva sorveglianza della strada, dalla ascoltazione dei rumori della vettura, dalla necessità di mantenere con mano ferma la direzione del veicolo, dalla tema di guasti e dal senso di responsabilità che egli ha verso i suoi compagni di viaggio. A tutto questo si aggiunga la sensazione fisica prodotta dalla velocità medesima, che non sempre è piacevole; il conducente sentendosi la testa in avanti, mantenendo sempre contratti i muscoli del collo; di più egli soffre di un senso intenso di oppressione all’addome e al torace prodotto dalla pressione dell’aria. A tali velocità per poco che insorga un ostacolo imprevisto sulla strada l’arresto della vettura diventa difficile, potendo un colpo di freno troppo brusco produrre un ribaltamento. Inoltre per errori di apprezzamento diventa difficile il calcolo del rallentamento nelle curve, dimodoché la vettura può venire facilmente sbalzata fuori dalla strada. A tale andatura è difficile poter leggere anche i cartelli indicatori ed è assolutamente impossibile al conducente poter scambiare parola coi compagni di viaggio. Tutto ciò produce in lui una grande tensione nervosa che in breve conduce alla spossatezza, la quale spesso è da ricercarsi quale causa prima di gravi accidenti automobilistici. Invece mantenendo una razionale velocità il turista può veramente godere delle grandi gioie che fornisce l’automobile (Boatti, G., 2006, Bolidi. Quando gli italiani incontrarono le prime automobili, Mondadori, Milano, p. 96).

Tensione nervosa, eccesso di stimoli, alterazioni delle sensazioni fisiche sono solo alcuni dei “sintomi” indotti dalla guida delle automobili. Il nuovo non poteva che generare patologie, deviazioni, bizzarrie del comportamento. Come del resto, avviene ancora oggi. Basti pensare ai ricorrenti avvertimenti allarmistici strillati da psichiatri ed esperti di ogni tipo nei confronti di ogni nuovo Social, soprattutto se le cronache, per qualche motivo, associano a uno di essi un fatto criminale.

Tutto è potenzialmente foriero di rischi, pericoli, catastrofi di ogni genere, purché sia sufficientemente nuovo e “inaudito”. Si tratta di un atteggiamento istintivo, spontaneo, evolutivo che, tuttavia, criminologi e medici dovrebbero riuscire a evitare. Purtroppo, riescono spesso solo a nasconderlo dietro una coltre di termini tecnici.

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Borges, Bioy Casares e il calcio di oggi

Quando nei primi anni del XVIII secolo, il vescovo irlandese George Berkeley (1685 – 1753) enunciava il suo celebre principio esse est percipi (“essere è essere percepito”) immaginava di stabilire un criterio epistemologico empirista, non di annunciare ciò che è accaduto ai nostri secoli contrassegnati da una doppia X.

È evidente che oggi l’essere è stato completamente fagocitato dall’essere percepito, ossia dall’apparire. La realtà esiste solo nella misura in cui può mostrarsi ai nostri occhi, per lo più attraverso la mediazione di un mezzo analogico o, sempre più, digitale. La realtà è diventata una pura funzione secondaria della percezione, tanto che non apparire viene spesso vissuto come un non essere.

La spettacolarizzazione sovrana dell’esistenza fa in modo che un dolore non sia tale se non viene avvertito in televisione; una guerra non sia vera se non viene proclamata in streaming; un qualsiasi luogo diventi degno di essere visto solo se lo si vede prima sui social. A nessuno importa, ormai, che la realtà disintermediata sia altra cosa, che l’esperienza diretta possa insegnarci altro. Ciò che appare è la verità.

Prendiamo il calcio, ad esempio. Il calcio televisivo sovrasta a tal punto quello a cui si assiste dagli spalti di uno stadio che, se non abbiamo modo di (ri)vedere in televisione un goal, ci sembra che non sia mai avvenuto. Non riusciamo nemmeno a giudicare una decisione arbitrale giusta o ingiusta, se non la dissezioniamo tramite la moviola o slow motion. Eppure, dovremmo sapere che la moviola allunga gli impatti e li accentua. Una mano che sfiora il viso diventa uno schiaffo; un piede che sfiora la gamba di un avversario diventa un calcio premeditato. La moviola mostra il mondo in maniera diversa. Ma pensiamo che questa diversità sia la realtà.

Per quello che ne sappiamo, il calcio giocato potrebbe essere stato sostituito totalmente da quello trasmesso dalla televisione. Potrebbe non esistere più. Esse est percipi. Come profetizzava un piccolo racconto del 1967 di Borges e Bioy Casares, Esse est percipi appunto (in Cronache di Bustos Domecq, Einaudi, 1975): «Non esiste punteggio, né formazioni, né partite, gli stadi cadono tutti a pezzi. Oggi le cose succedono solo alla televisione o alla radio; l’ultima partita di calcio è stata giocata il 24 giugno 1937. Da quella data il calcio, come tutta la vasta gamma degli sport, è un genere drammatico, orchestrato da un uomo solo in uno studio o interpretato da attori in divisa da gioco davanti al cameraman».

Se vi assale il dubbio che le cose possano essere davvero in questi termini, e che forse la vostra passione sportiva possa essere solo una illusione oleografica, leggete il racconto intero dei due scrittori argentini e auguratevi un buon 2023…se vi riesce.

Esse est percipi

di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares

Vecchio frequentatore delle parti di Nuñez e dintorni, non mancai di notare che mancava dal suo posto di sempre il monumentale stadio del River. Costernato, consultai al riguardo il mio amico dottor Gervasio Montenegro, membro effettivo dell’Accademia Argentina delle Lettere. In lui trovai quella spinta capace di indirizzarmi. A quei tempi la sua penna compilava una sorta di Storia panoramica del giornalismo nazionale, opera altamente meritevole, nella quale si affannava la sua segretaria. La relativa documentazione lo aveva casualmente condotto a subodorare il busillis. Poco prima di addormentarsi completamente, mi mandò da un comune amico, Tulio Savastano, presidente del club Abasto Juniors, alla cui sede, situata nel Palazzo Amianto, di avenida Corrientes e Pasteur, mi recai. Il dirigente, nonostante il regime di doppia dieta a cui lo sottoponeva il suo medico e vicino dottor Narbondo, si mostrava ancora agile e scattante. Alquanto inorgoglito per l’ultimo trionfo della sua squadra contro la compagine canarina, si lasciò andare a confidarmi, tra un mate e l’altro, ghiotti particolari inerenti alla questione sul tappeto. Benché io mi ripetessi che Savastano era stato un tempo il mio compagno di ragazzate di Agüero angolo Humahuaca, l’importanza del suo incarico mi intimoriva e, per allentare la tensione, mi congratulai per lo svolgimento dell’azione dell’ultimo goal che, nonostante l’intervento di Zarlenga e Parodi, il centro mediano Renovales aveva realizzato, grazie allo storico passaggio di Musante.

Sensibile alla mia adesione all’undici di Abasto, il grand’uomo diede un ultimo tiro alla cannuccia esaurita del mate, dicendo filosoficamente, come chi sogna ad alta voce:

– E pensare che sono stato io ad inventare questi nomi.

– Vale a dire? – domandai gemendo – Musante non si chiama Musante? Renovales non è Renovales? Limardo non è il vero nome dell’idolo acclamato dalla tifoseria?

La risposta mi fiaccò nelle membra.

– Come? Lei crede ancora nella tifoseria e negli idoli? Ma dove ha vissuto, don Domecq?

In quella entrò un fattorino che sembrava un pompiere e mormorò che Ferrabás voleva parlare con lui.

– Ferrabás, il cronista dalla voce pastosa? – esclamai – L’animatore dei cordiali dopopranzo delle 13 e 15 del sapone Profumo? Questi miei occhi lo vedranno così com’è? Davvero si chiama Ferrabás?

– Che aspetti! – ordinò il signor Savastano.

– Che aspetti? Non sarebbe più prudente che io mi sacrifichi e me ne vada? – aggiunsi con sincera abnegazione.

– Neanche per idea – rispose Savastano –. Arturo, dica a Ferrabás che entri. Fa nulla…

Ferrabás entrò con naturalezza. Stavo per cedergli la mia poltrona, ma Arturo, il pompiere, mi dissuase con una di quelle occhiatine che sono come uno sbuffo di aria polare. La voce presidenziale sentenziò:

– Ferrabás, ho già parlato con De Filipo e Camargo. Nella prossima giornata l’Abasto perde, per due a uno. Il gioco sarà duro, ma non ricada, se lo ricordi bene, nel passaggio di Musante a Renovales, che la gente conosce a memoria. Io esigo immaginazione, immaginazione. Capito? Può andare.

Raccolsi le forze per azzardare la domanda:

– Devo dedurre che il risultato è scritto a tavolino?

Savastano, letteralmente, mi gettò nella polvere.

– Non c’è risultato, né formazioni, né partite. Gli stadi sono già demolendi che cadono a pezzi. Oggi tutto passa per la televisione e la radio. La falsa eccitazione dei commentatori, non le è mai venuto il sospetto che fosse tutto un imbroglio? L’ultima partita di calcio si è giocata qui nella capitale il 24 giugno del ’37. Da quel preciso momento, il calcio, proprio come tutta la vasta gamma degli sport, è un genere drammatico, a carico di un solo uomo in una cabina o di attori in maglietta davanti ad un cameraman.

– Signore, ma chi ha inventato tutto ciò? Riuscii a domandare.

– Nessuno lo sa. Tanto varrebbe cercare di scoprire a chi è venuta per primo l’idea della inaugurazione delle scuole o delle visite fastose di teste coronate. Sono cose che non esistono fuori degli studi di registrazione e delle redazioni. Si convinca, Domecq, la propaganda di massa è il marchio dei tempi moderni.

– E la conquista dello spazio? – gemetti.

– E’ un programma straniero, una coproduzione russo-americana. Un lodevole passo avanti, non neghiamocelo, dello spettacolo scientista.

– Presidente, lei mi mette paura – farfugliai, senza rispettare la via gerarchica -. Quindi al mondo… non succede nulla?

– Ben poco – rispose con la sua flemma inglese -. Ciò che non afferro è la sua paura. Il genere umano se ne sta in casa, spaparanzato, attento allo schermo o al commentatore, se non alla stampa scandalistica. Cosa vuole di più, Domecq? E’ il cammino gigantesco dei secoli, il ritmo del progresso che si impone.

– E se si rompe l’illusione? – dissi con un filo di voce.

– Ma cosa deve rompersi … – mi tranquillizzò.

– E se anche fosse, sarei una tomba – gli promisi -. Lo giuro per la mia passione personale, per la mia lealtà alla squadra, per lei, per Limardo, per Renovales.

– Dica quello che le pare, nessuno le crederebbe.

Squillò il telefono. Il presidente portò la cornetta all’orecchio, e con la mano libera mi indicò l’uscita.

* Dalle Cronache di Bustos Domecq (1967)

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La Sindrome del Grinch come desiderio di libertà

Nella frenesia onomatopoietica che caratterizza i nostri tempi e che spinge a coniare etichette per qualsiasi condizione umorale ci affligga, per quanto effimera, non poteva mancare la “sindrome del Grinch” (dal nome del personaggio verde e dispettoso dei fumetti e dell’omonimo film che odia il Natale e che fa di tutto per sabotarlo), a indicare quel complesso di malinconia, noia, fastidio, tristezza e irritazione che colpisce molte persone in occasione di festività periodiche e istituzionali come il Natale.

Gli psicologi, sempre entusiasti di apportare il loro contributo decisivo a “disagi” che essi stessi creano costruendo categorie nosologiche colme di sintomi dal suono preoccupante, imputano tale sindrome al contrasto tra i pervasivi e ripetuti messaggi di felicità e di armonia che riceviamo nel periodo di Natale (“A Natale siamo tutti più buoni!”) e lo stato d’animo negativo che avvertiamo a causa di situazioni di malessere che possono riguardare la fine di una relazione sentimentale, una difficoltà economica a seguito di un licenziamento, la morte di una persona cara, l’ansia per un futuro incerto. Si tratterebbe di situazioni vissute come un’ingiustizia, che scatenerebbero sensazioni di insofferenza nei confronti di chi non è afflitto dagli stessi problemi. Sarebbe, dunque, il contrasto tra come ci sentiamo e come la società richiede che ci dovremmo sentire a provocare la sindrome del Grinch. Se non vivessimo fasi di vita negative – sembra di capire – ci sentiremmo tutti felici in linea con i diktat del periodo in questione.

Sebbene tale spiegazione sia plausibile, credo non sia l’unica possibile. Per quanto mi riguarda, l’avversione che provo nei confronti del Natale è una forma di reattanza a uno stato d’animo non spontaneo che viene imposto massicciamente dall’esterno per ragioni consumistico-religiose, indipendentemente da eventuali situazioni di sofferenza sentimentale, lavorativa o esistenziale. In altre parole, non è necessario essere infelici per sentirsi come un Grinch.

È stato lo psicologo Jack Brehm ad elaborare il concetto di reattanza psicologica per spiegare la risposta degli esseri umani alla perdita della libertà d’azione. La maggior parte dei nostri atteggiamenti è eminentemente stabile, a dispetto degli sforzi di persuasione impiegati per modificarli. Quando una persona sente che la sua capacità di scelta è minacciata, è sottoposta a una motivazione di reattanza, motivazione che tende a ristabilire la sua libertà di scelta. Così, il Natale, imponendo un sentimento prevalente, può innescare in noi il desiderio del sentimento opposto o, comunque, di altri modi di sentire. Il bisogno di mantenere la propria libertà di scelta spinge ad apprezzare stati d’animo che abitualmente non hanno particolare salienza. Come censurare un film ha spesso l’effetto di aumentare il desiderio di vederlo, così censurare le alternative umorali o sentimentali che non coincidono con la gioia e la felicità accresce il desiderio di avversione al Natale.

La tristezza, l’irritazione e la rabbia che proviamo a Natale potrebbero essere, dunque, una modalità di esprimere il nostro desiderio di libertà in un periodo che vorrebbe imporci un modo di sentire unico. Il Grinch in ognuno di noi potrebbe essere solo un individuo che desidera sentirsi libero di sentirsi come gli pare, indipendentemente da perdite del lavoro, mogli o mariti traditori e parenti defunti.

Smettere di augurare “buone feste” non sarebbe, allora, un atto di scortesia causato da un disagio momentaneo, ma il tentativo di riappropriarsi di una sensazione di libertà in un mondo che, per qualche settimana, vorrebbe rinchiuderci tra mura psicologiche insormontabili.

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Unzione degli infermi e profezia che si autoavvera

L’Estrema unzione, o più correttamente, Unzione degli infermi, è un sacramento della Chiesa cattolica, dedicato ai malati e agli anziani non necessariamente in fin di vita. Come ha precisato il Concilio Vaticano II, e come ribadisce il catechismo, «non è il sacramento soltanto di coloro che sono in fin di vita. Perciò il tempo opportuno per riceverla si ha certamente già quando il fedele, per malattia o per vecchiaia, incomincia ad essere in pericolo di morte».

La celebrazione del sacramento comprende principalmente i seguenti elementi: l’imposizione delle mani ai malati; la preghiera sui malati nella fede della Chiesa: l’unzione con l’olio, benedetto, possibilmente, dal Vescovo. Il sacerdote unge la fronte e le mani del malato, accompagnando il gesto con una breve preghiera intesa, se necessario, a ottenere il perdono dei peccati commessi.

L’origine del sacramento rimanda a un passo della lettera di Giacomo (5,14-15) che dice: “Chi è malato, chiami presso di sé i presbiteri della Chiesa ed essi preghino su di lui dopo averlo unto con olio nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo solleverà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati”.

Nell’VIII secolo, l’Unzione degli infermi incontrò non poche resistenze. I fedeli credevano, infatti, che, ricevendo l’unzione, avrebbero dovuto impegnarsi a condurre una vita monastica (continenza sessuale, digiuni, astinenza e mortificazioni) per il resto della loro vita. Meglio, dunque, rifuggire il prete e rivolgersi agli indovini, meno affidabili, forse, ma meno esigenti.

Dal canto loro, i preti erano convinti che l’unzione avrebbe guarito gli ammalati e che quindi avesse una valenza terapeutica. Di fronte alla scarsa efficacia reale del sacramento, argomentavano che essa guarisce il malato a patto che la guarigione del corpo fosse utile alla guarigione dell’anima. L’inefficacia era così giustificata dalla mancata guarigione spirituale dell’infermo, secondo una strategia retorica che riversava il fallimento terapeutico sul malato: se non guarisci, non è perché il sacramento non funziona, ma perché la tua anima è corrotta. Oppure, detto in altre parole: se guarisci, il merito è di Dio; se non guarisci, il demerito è tuo!

Una delle più grandi resistenze all’Estrema unzione sta, tuttavia, in un fatto psicologico: per quanto la Chiesa cattolica abbia chiarito che l’Unzione degli infermi non riguarda soltanto coloro che sono in fin di vita, ma, in genere, tutti coloro che, per malattia o per vecchiaia, anche in senso lato, incominciano a essere in pericolo di morte, è evidente che l’associazione tra questo sacramento e il trapasso è piuttosto robusta. Ciò induce il fedele a scorgere nella somministrazione dell’Estrema unzione una sorta di preannuncio della propria imminente dipartita con conseguente, forte scoramento e rassegnazione nei confronti della vita.

La psicologia contemporanea ci insegna oggi che, effettivamente, un atteggiamento di demoralizzazione può incidere sulle condizioni di salute del malato, pregiudicandone l’esito. Si innesca, in altre parole, un meccanismo circolare in base al quale la convinzione che l’Unzione degli infermi annunci la propria morte agisce da profezia della stessa, accelerando il decadimento delle funzioni del corpo e facendo avverare il timore iniziale.

Per un’estrema unzione si può, allora, morire? Verosimile. Ciò era noto già ai tempi di Ippocrate che raccomandava di non diagnosticare l’inguaribilità della malattia per evitare di compromettere lo stato d’animo del paziente nel processo di guarigione.

È per questo motivo che i medici sono da sempre restii a chiamare il sacerdote al capezzale del malato, come testimonia molta letteratura già dal Medioevo. Ed è per lo stesso motivo che medici e sacerdoti sono da sempre in conflitto tra loro. Del resto, si sa. La morte, come le malattie, non è solo una faccenda fisica, ma anche psichica.

Fonte: Minois, G., 2016, Il prete e il medico. Fra religione, scienza e coscienza, Edizioni Dedalo, Bari, pp. 261-263, pp. 51-52; 95-97.

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Siamo tutti areligiosi in cerca di sacro

Come afferma Mircea Eliade nelle pagine finali del suo Il sacro e il profano (Bollati Boringhieri, Torino, pp. 129-132), l’uomo profano o areligioso porta ancora in sé le tracce del comportamento devoto a cui ci ha abituato la tradizione, depurate dei significati religiosi. Anzi, sembra essere ossessionato dalla religiosità che sconfessa. Egli esibisce ancora condotte che rimandano al sacro di cui non è pienamente consapevole, ma che possiedono una struttura e un’origine magico-religiosa indubitabili. Come, ad esempio, gli innumerevoli riti e miti che continuamente crea e dissolve. Pensiamo ai festeggiamenti che accompagnano il nuovo anno, l’entrata in una nuova casa, l’acquisto di una nuova automobile, la nascita o il compleanno di un bambino, il conseguimento di un nuovo lavoro, una promozione.

L’uomo areligioso sostituisce ai miti religiosi nuovi miti che gareggiano con i primi quanto a motivi fantastici in essi contenuti. Si pensi al cinema, alla letteratura, alla musica che presentano continuamente lotte tra eroi e mostri, combattimenti e prove iniziatiche, figure esemplari (la “fanciulla” l’“eroe”, il “paradiso”, l’“inferno”) che proiettano lo spettatore/lettore/ascoltatore in universi “sacri”, seppure di un sacro diverso da quello religioso. Un mondo dominato dalla finzione come, e forse più, della religione.

Pensiamo, poi, a quella miriade di credenze, superstizioni, culti che affliggono la società contemporanea e che non hanno nulla da invidiare alle credenze e alle superstizioni di un tempo: mi riferisco al culto del “bio” e del “naturale” a ogni costo; alle convinzioni sulla bellezza e sull’estetica che facciamo nostre senza neppure sapere perché; alla venerazione degli animali, in particolare dei pets, che ha elevato questi al rango di umani con tanto di cappottino invernale e punti vendita dedicati; ai rituali del cibo officiati da sacerdoti con cappello bianco che si fanno chiamare chef.

Se la confessione è stata sostituita dalla psicoterapia, il digiuno religioso dal digiuno salutistico, il cilicio salvifico dal running salubre, la preghiera comunitaria dal pilates, l’eucarestia dalla dieta macrobiotica, il pellegrinaggio dal turismo di massa, la morale dogmatica da quella del politically correct, il religioso emerge anche in campi insospettabili.

Oggi, termini come mission, redemption, vision, vocazione, community, fidelizzazione (loyalty), customer loyalty, fidelity card/programs, follower (seguace), ricompensa (reward), valori e conversione vengono adoperati quasi esclusivamente nel marketing. Il calcio, si sa, è questione di “fede” per gli ultras e il tifo è paragonabile a una sorta di fanatismo religioso con tanto di rito ad hoc, non limitato più alla domenica. Il tifo divide il mondo in buoni e cattivi: è buono chi tifa per la mia squadra, cattivo chi parteggia per altri. È raro trovare un campo morale in cui tale suddivisione assuma tratti così manichei. A parte quello della religione, ovviamente. Il calcio è uno sport in cui i portieri “fanno miracoli”, le squadre “lottano per la salvezza” e “provano sofferenza” e se precipitano in serie B, “risorgono”. I calciatori più celebri sono “predestinati” da giovani, “idolatrati” o “divinizzati” secondo precise liturgie, in seguito. Per non parlare delle “stelle” del cinema, delle costellazione astrali delle band musicali, delle influencer dotate di milioni di follower.

Insomma, l’uomo areligioso di Eliade ha lo stesso bisogno di sacro dell’uomo religioso a cui si oppone perché il sacro, pur desacralizzato e reso oggetto di consumo, serve a conferire un senso alla propria vita. Come dire: meglio un senso qualsiasi che nessun senso.

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Quella sospetta traduzione sui tre Magi

Gesù nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: «Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele». Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: «Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo». Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese (Matteo 2, 1-12).

Come è noto, il brano del Vangelo di Matteo è l’unico dei vangeli canonici a riferire dei Magi giunti dall’Oriente per adorare Gesù. Il testo, di per sé, è estremamente laconico. Non ci dice con precisione chi fossero i Magi, che cosa rappresentavano, da dove venivano, quanti erano, come si chiamavano, che cosa significavano i loro doni, quando si erano messi in viaggio, quanto era durata la loro avventura, come avevano viaggiato, quali strade avevano percorso, che aspetto avevano, come erano vestiti e che cos’era la “stella” che avevano seguito.

In nostro soccorso vengono alcuni vangeli apocrifi, come il cosiddetto Protovangelo di Giacomo e il Vangelo arabo-siriaco dell’Infanzia, e altri testi succedutisi nel tempo, che hanno consentito il deposito graduale di una serie di nozioni, che oggi diamo per scontate, in base alle quali crediamo di sapere che il loro numero fosse di tre, che i loro nomi fossero Melchiorre, Baldassarre e Gaspare, che uno di essi avesse la pelle scura, che la stella che li guidava fosse una cometa ecc.

In realtà, questo è uno dei casi in cui possiamo dire che la mitizzazione abbia fagocitato completamente la realtà, se mai questa è esistita. Come per molti altri oggetti e personaggi biblici, ciò che si è depositato nel senso comune è distante anni luce dalla storia.

Ad esempio, quanti erano i magi? Secondo alcuni, erano tre come i loro doni, secondo altri dodici come le tribù di Israele o quattro o dieci. Che cosa erano? Asceti? Detentori di un sapere misterioso di tipo soprannaturale? Maghi? Sacerdoti di religioni pagane? Sciamani? Aderenti al mazdaismo? Zoroastriani? Astrologi? Divinatori? Incantatori? Sapienti? Ciarlatani? Uomini di stirpe regale e con un seguito di milleduecento uomini? O un misto di tutto questo? Si trattasse di principi, persone regali, maghi, impostori o truffatori, comunque, per scongiurare ogni associazione con la magia, la tradizione ha proposto riguardo ai nostri personaggi una singolare creazione: «La resistenza ad ammettere l’identità dei magi del vangelo con i maghi è tale che, nella forma singolare, si è creato un improbabile “magio” per indicare la figura evangelica che si è reticenti a chiamare “mago”» (Cardini, 2022, p. 61).

E che cos’era la stella che li guidava? Un corpo celeste? Un angelo? Una cometa, come crediamo noi? Ma le comete non sono considerate dalla tradizione un segno funesto? E poi la scienza ci dice che negli anni intorno la nascita di Gesù non vi fu nessuna cometa. Fu allora una particolare congiunzione astrale?

Fatto sta che, come ci dice il medievalista Franco Cardini:

A partire dal III secolo d.C. in poi, i magi divennero oggetto comune della meditazione esegetica degli apologisti prima, dei Padri della Chiesa poi. Frattanto la loro presenza si affermava sempre più anche nella celebrazione liturgica, connessa nelle Chiese orientali con la solennità del Natale che veniva festeggiato il 6 gennaio e coincideva con l’Epifania. Fu solo a metà del IV secolo che a Roma si affermò l’uso di far coincidere con il 25 dicembre, festa solstiziale del Sol Comes Invictus, la ricorrenza del Natale; in questo modo gennaio rimase nella tradizione romana l’incontrastata festa della regalità del Fanciullo, e quindi dei magi (Cardini, 2022, p. 44).

Più sicura sembra l’identificazione dei tre doni offerti a Gesù: oro, incenso e mirra, come conferma Matteo. In realtà, almeno riguardo all’oro, potremmo essere dinanzi a un clamoroso errore di traduzione. Ancora Cardini:

È fondamentale nella direzione della filologia neotestamentaria, […], l’osservazione secondo la quale, a quanto potrebbe sembrare, gli antichi traduttori del testo di Matteo dall’aramaico al greco avrebbero preso un abbaglio, traducendo come «oro» un termine che designava invece una sostanza vegetale, una spezia al pari dell’incenso e della mirra. È in altri termini possibile che, nel testo aramaico di Matteo che non ci è pervenuto, i doni dei magi fossero tre diversi tipi di spezie: ma per la tradizione che qui ci riguarda tutto ciò non serve, dal momento che il lavoro esegetico si è sempre esercitato sul testo di Matteo quale lo conosciamo. Né l’associazione dell’oro agli aromata e agli odores era d’altro canto gratuita: difatti non solo riscontriamo la presenza del prezioso metallo nelle profezie testamentarie delle quali la pagina evangelica dei magi viene considerata compimento, ma soprattutto c’imbattiamo in essa nella liturgia ebraica relativa al Tempio, il che ci fa intendere come il discorso di Matteo sulla divinità del Cristo attraverso la menzione dei tre doni fosse anche in origine più densamente e robustamente costruito di quanto non sia apparso in certe sue riduttive letture. Coperta d’oro era infatti l’ara dei profumi costruita in legno d’acacia posta dinanzi al Velo del Tempio; la si ungeva con un crisma in parte composto di pura mirra e su di essa si bruciava un profumo a base d’incenso. L’associazione delle tre sostanze appare pertanto coerente rispetto a una loro funzione sacrale (Cardini, 2022, p. 53).

Non sappiamo se il sospetto di cattiva traduzione sia fondato o meno. Certo, se l’oro non fosse stato oro ci ritroveremmo a mal partito, perché a quella sostanza sono stati attribuiti mille significati e mille interpretazioni. E i più tradizionalisti invocherebbero la lesa maestà. Le tradizioni, infatti, sono dure a morire, soprattutto se millenarie. Inutile sfidarle, dunque. In particolare, se l’unica arma di cui disponiamo è un (possibile) errore di traduzione.

Fonte:

Cardini, F., 2022, I Re Magi. Leggenda cristiana e mito pagano tra Oriente e Occidente, Feltrinelli, Milano.

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Il compleanno? Un invenzione recente

Compiere gli anni e celebrare il proprio compleanno o quello dei propri cari sembra un fatto talmente banale che diamo per scontato che le cose siano sempre state così. Dopotutto, cosa c’è di più naturale che sapere di avere 20, 37 o 61 anni? È talmente naturale che tendiamo immediatamente ad associare la dimenticanza della propria età a un grave disturbo mentale. Ma le cose non sono sempre andate così. Anzi. Secondo lo storico Jean-Claude Schmitt, l’invenzione del compleanno sarebbe addirittura un fatto storicamente recente, che risale alla fine del Medioevo. La prova? La più antica attestazione della celebrazione del compleanno si trova nel Milione di Marco Polo, scritto intorno al 1298, opera in cui lo scrittore veneziano racconta tutto meravigliato che i sudditi del Gran Khan Kublai avevano la bizzarra abitudine di celebrare con banchetti e doni di ogni tipo il compleanno dell’imperatore. La cosa può apparire sorprendente, ma Schmitt adduce una serie di ragioni che spiegano come ciò sia potuto accadere.

Tanto per cominciare, è indispensabile possedere gli strumenti necessari per conoscere il giorno esatto della propria nascita, avere cioè la possibilità di registrarlo in qualche maniera, se possibile con un atto scritto, meglio ancora se ufficiale. E questo nel Medioevo non sempre accadeva. Quella che noi conosciamo come “anagrafe”, infatti, fu creata solo durante la Rivoluzione francese, mentre i registri parrocchiali riportavano solo le date di battesimo, matrimonio e morte, considerate come le uniche veramente importanti. Bisogna poi fare attenzione al susseguirsi degli anni e al posto che occupa l’anno della propria nascita, il che presuppone non solo l’esistenza di un calendario, che fissa la durata e le parti dell’anno, ma anche un tacito accordo sul momento esatto in cui un anno subentra a un altro. Al riguardo le pratiche medievali erano varie e fluttuanti. Basti pensare che il calendario gregoriano, ancora oggi il calendario ufficiale per la maggior parte delle nazioni del mondo, fu adottato solo nel 1582.

Bisogna inoltre avere la capacità intellettuale e materiale di contare gli anni trascorsi e sommarli. Nel Medioevo, la conoscenza approssimativa della propria età era la regola in tutti gli strati della società, da cui la formula consacrata: “tale età o circa”. In altre parole, se per noi “fare di conto” è un’abilità che impariamo quando frequentiamo le scuole elementari, l’analfabetismo medievale faceva della conoscenza dell’aritmetica un’eccezione piuttosto che la regola, almeno per quanto riguarda le masse. Non erano disponibili poi strumenti – carta, quaderni, penne ecc. – che permettessero di tenere traccia della propria età come di tante altre cose.

Un esempio al riguardo ci è fornito dallo storico francese Georges Duby, nel suo libro Guglielmo il Maresciallo in cui tratteggia la biografia di un cavaliere medievale che, in vecchiaia, diceva di avere più di 84 anni:

Più di ottantaquattro anni, diceva. Esagerava un poco, non conoscendo con precisione la propria età. Ma chi la conosceva a quell’epoca? Si dava importanza ad altre date della vita, non a quella della nascita. Di questa ci si dimenticava. E i vecchissimi erano tanto rari che la gente aumentava i loro anni, e anche da sé si invecchiavano. D’altra parte nemmeno noi sappiamo quando è nato Guglielmo il Maresciallo. Gli storici hanno fatto calcoli, supposizioni; propongono una data intorno al 1145 (Duby, G., 1995,  Guglielmo il Maresciallo, Laterza, Roma-Bari, p. 5)

Ci sono anche una serie di ostacoli ideologici. Dobbiamo ricordare che, per tutto il lungo Medioevo, il giorno più importante della propria vita non era quello della nascita, ma quello della morte che segnava l’ingresso nella vera vita, quella eterna. Tanto è vero che le espressioni anniversarium e dies natalis indicavano il giorno della morte, non quello della nascita. Per il Medioevo, il giorno della nascita non permette all’uomo di accumulare meriti o demeriti che decideranno della sua sorte nell’aldilà. Solo il giorno della morte è importante perché allora la vita trascorsa sarà giudicata per intero.

Nella Bibbia poi il compleanno è per lo più associato a disgrazie: ad esempio Giobbe e Geremia maledicono i giorni in cui sono nati. È vero che ci sono tre importanti nascite: quella putativa di Cristo del 25 dicembre; quella putativa della Madonna dell’8 settembre e quella putativa di San Giovanni il 24 giugno. Ma queste date appartengono al tempo circolare del calendario liturgico. Le tre personalità indicate non accumulano gli anni a partire da una data originaria. Per intenderci, Cristo non invecchia con ogni Natale.

Insomma, non c’era posto per il compleanno nel cristianesimo in quanto pratica religiosa: il battesimo, la morte cristiana, l’interesse per l’anima e non per la carne, il concetto di peccato originale non potevano che svalutare notevolmente la nascita e allontanare l’idea di celebrarla tutti gli anni. Inoltre, il fatto che il paganesimo avesse invece celebrato il compleanno, associava questo a pratiche aborrite che il cristianesimo medievale non vedeva di buon occhio. Sant’Agostino, ad esempio, si opponeva alla celebrazione del compleanno perché ricordava la perpetuazione del peccato originale mediante la nascita carnale.

Per reinventare il compleanno, bisognerà attendere il periodo compreso tra il XIV e il XVI secolo; periodo in cui la progressiva rimozione dell’elemento religioso legato al compleanno e la valorizzazione di questo come celebrazione dell’individuo avranno la meglio. Un ruolo importante lo ebbe anche il protestantesimo che mise in discussione il culto dei santi e promosse l’adozione di nomi diversi da quelli canonizzati nel cattolicesimo. Questo fece sì che fosse accordata maggiore attenzione al compleanno in sé, indipendentemente dalle feste dei santi. Ancora oggi, il compleanno vuole dire la celebrazione dell’individuo in quanto tale, mentre l’onomastico accomuna a un santo persone che hanno lo stesso nome. Il compleanno, dunque, come apoteosi dell’individualità. Con tanto di torte guarnite di candeline e canzoncine dedicate.

A tal proposito sembra che sia stato lo scrittore tedesco Goethe a inventare la torta attuale, quando il 28 agosto 1802, festeggiò il cinquantatreesimo anno addobbando un dolce con cinquantatré candeline. Lo stesso Goethe menziona abbondantemente i compleanni dei protagonisti dei suoi capolavori, ad esempio, Le affinità elettive e il Wilhelm Meister; cosa che fino a qualche cinquantennio prima sarebbe stata impensabile. Più tarda è invece l’invenzione del motivetto Happy Birthday to you (musica del 1893, parole del 1924) che si deve alle sorelle Milldred J. Hill e Patty Smith Hill, maestre d’asilo del Kentucky. Un secolo fa appena. Anche se oggi ci sembra che esistano da sempre.

Chi pensasse che oggi tutti calcolano il compleanno allo stesso modo, dovrebbe, però, ricredersi.

È notizia di pochi giorni fa («La Repubblica» del 10 dicembre 2022, p. 29) che il parlamento della Corea del Sud ha approvato una nuova legge sull’età, che entrerà in vigore a metà 2023. Questa legge allineerà definitivamente il metodo di calcolo dell’età coreano a quello internazionale. Fino a oggi, infatti, in Corea del Sud era possibile computare l’età in tre modi diversi: 1) Cominciando il calcolo a partire dalla data di nascita di una persona (come nel resto del mondo); 2) Attribuendo un anno alla nascita (il metodo più comunemente adoperato nella vita quotidiana); 3) Stabilendo che tutti alla nascita hanno zero anni, ma aggiungendo un anno ogni primo gennaio, indipendentemente dal giorno in cui si è nati (metodo adoperato per il servizio militare e o per stabilire l’età legale per bene e fumare).

Come è evidente, la coesistenza dei tre metodi ha causato finora una certa confusione nella vita di tutti i giorni e si dubita che un provvedimento legislativo possa risolvere d’un tratto modi di interpretare l’età sedimentati nel tempo.

Come ricorda Gianluca Modolo, autore dell’articolo citato, ci sono varie teorie sull’origine dei vari metodi. «Secondo alcuni, il compimento di un anno alla nascita tiene conto del tempo trascorso nel grembo materno. Altri lo collegano ad un antico sistema numerico asiatico che non prevedeva il concetto di zero. Aggiungere un anno ogni 1° gennaio, secondo altri esperti, deriva dal fatto che gli antichi coreani collocavano il loro anno di nascita all’interno del ciclo del vecchio calendario cinese e tendevano ad ignorare il giorno della loro nascita ma aggiungevano semplicemente un anno intero al primo giorno del calendario lunare».

Le vicende narrate ci insegnano che perfino un aspetto solitamente dato per scontato come “compiere gli anni” non è affatto “naturale”, ma è socialmente determinato. Del resto, insegnamento principe delle scienze sociali è che lo stesso senso comune è un prodotto sociale. Ma non ce ne accorgiamo perché, appunto, lo diamo per scontato.

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Perché gli autistici sono tutti bambini?

Ogni volta che si parla di autismo, si mostrano fotografie o video che tematizzano l’autismo, si chiede al pubblico di contribuire al sostegno ai diritti delle persone con autismo, si fa ricerca sull’autismo, al centro dell’attenzione ci sono bambini. A tal punto che è facile cadere nella tentazione di pensare che questa condizione sia tipicamente infantile e che non vi siano autistici adulti o che addirittura l’autismo regredisca in età adulta.

Questa rappresentazione è in parte giustificata. È in età infantile che emergono i primi segni dell’autismo ed è su questa età che ancora oggi si concentrano gli studi per tentare di comprendere le cause della sua insorgenza. Ancora oggi, infatti, l’eziologia dell’autismo appare complessa e non riducibile a un’unica causa. Per alcuni versi, l’autismo – o gli autismi – è ancora misterioso.

Il resto – affermano Jennifer L. Stevenson, Bev Harp e Morton Ann Gernsbacher, autori di “Infantilizing Autism”, Disability Studies Quarterly, 2011, vol. 31, n. 3 – lo fanno le organizzazioni che sostengono la ricerca sull’autismo e le associazioni di genitori, che ricorrono costantemente a immagini di bambini autistici per attirare fondi a loro favore; i media che, nei libri, in televisione, nelle serie tv ecc. propongono in stragrande maggioranza immagini di bambini autistici, forse perché più allettanti per il proprio pubblico; i quotidiani che privilegiano di gran lunga le storie che riguardano i bambini autistici rispetto agli adulti.

Il risultato è una perpetua infantilizzazione dell’autismo a tutto scapito dell’autismo adulto che è virtualmente assente dalla maggior parte delle rappresentazioni di questa condizione. La ragione, secondo gli autori, sta nel fatto che la fonte prediletta di informazioni e immagini a cui attingono media e quotidiani sono le organizzazioni che sostengono la ricerca sull’autismo o i diritti delle persone con autismo, che ricorrono sistematicamente a immagini infantili degli autistici. È con esse che il ciclo dell’infantilizzazione ha inizio per concludersi poi con la sovrarappresentazione spettacolare da parte di media e quotidiani.

Il pericolo, continuano gli autori dell’articolo, è che si tenda a sottostimare il tema degli autistici adulti con gravi ripercussioni sulla loro qualità di vita, livello di occupazione, di salute e socialità. L’enfasi eccessiva sull’autismo infantile, nata con le migliori intenzioni, rischia dunque di provocare discriminazione e isolamento tra gli adulti. È necessario, dunque, riequilibrare la bilancia affinché le difficoltà di questa condizione siano riconosciute in ogni fase della vita.

La ricerca di Stevenson, Harp e Gernsbacher è l’ennesima dimostrazione del potere dei media nel forgiare la nostra immagine del mondo; immagine che, se distorta come nel caso dell’autismo, può provocare danni al mondo invece che benefici.

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Guide turistiche e profezie che si autoavverano

Osserva Marco Aime in L’altro e l’altrove a proposito di una guida del Lonely Planet che, parlando di Quito, capitale dell’Ecuador, raccomanda per il pernottamento il “leggendario hotel Gran Casino” con le seguenti parole:

Non esiste un altro hotel come questo in nessun’altra capitale dell’America latina […]. È sempre piano di viaggiatori spartani ed è un ottimo posto per acquisire informazioni di viaggio aggiornate. Se avete viaggiato in Ecuador (o in America Latina) avrete certamente incontrato qualcuno che ha soggiornato qui. La sua popolarità è tale che è stato soprannominato Gran gringo.

«Si tratta, in realtà, di un vecchio hotel, che sorge nella parte alta della città: caratteristico, ma non troppo. La sua fama è dovuta più al fatto di comparire su una delle guide più diffuse che non sul suo reale fascino né sulla convenienza. Solitamente affollatissimo di turisti, è piuttosto anonimo e peraltro neppure particolarmente economico; nelle vie del centro si trovano hotel migliori, meno cari e assai più comodi per visitare la città o raggiungere le stazioni delle corriere. Lo strumento della citazione su una guida a grande diffusione, tuttavia, risulta essere l’innesco di un meccanismo tipico delle profezie autoavverantesi. Un luogo è definito ideale per il turista nel testo di una guida; in virtù del potere di indirizzo di tale segnalazione, il luogo diventa effettivamente (ancora più) frequentato dai turisti; essendo intensamente popolato di turisti, esso acquista una riconosciuta nomea e un’alta reputazione di “turisticità”, e per questo aumenta ulteriormente il proprio potere di attrazione» (Aime, M., Papotti, D., 2012, L’altro e l’altrove. Antropologia, geografia e turismo, Einaudi, Torino, pp. 94-95).

Il turismo è una macchina ineguagliabile di profezie che si autoavverano, anzi si basa sulla capacità di creare realtà selettive sfruttando immaginari esotici e luoghi comuni secolari. Tali luoghi comuni sono perpetuati da guide e altro materiale turistico, in cui il turista trova conferma delle proprie aspettative, verificandole al momento del suo arrivo alla meta di destinazione. Un circolo vizioso o virtuoso, secondo il punto di vista assunto, che fornisce un esempio del potere della immaginazione sulla realtà e dell’immagine sulla percezione.

Il turismo è una bolla in cui il turista sperimenta la stessa finzione che assorbe dai film. La realtà dei luoghi è continuamente mediata e distorta da prismi fantastici. L’esperienza turistica è filtrata come accade nella realtà virtuale, se non di più. Si viaggia solo per vedere ciò che già si conosce per come lo si conosce. Non è ammessa alcuna conoscenza nuova, dissonante rispetto al repertorio di immagini che già si possiede. Tutto è già dato. E se qualche elemento nuovo si impone ne avvertiamo fastidio. Ma così il turismo finisce con l’essere la valorizzazione commerciale dello stereotipo, promossa a furia di profezie autoavverantesi.

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