Corpi incorruttibili e odori di santità

Una delle credenze soprannaturali diffuse dalla tradizione cattolica vuole che i corpi dei santi siano, o possano essere, incorruttibili. In virtù dell’intervento divino, i cadaveri di uomini e donne canonizzati non andrebbero incontro ai naturali processi di decomposizione e addirittura emanerebbero un profumo dolce e floreale che va sotto il nome di “odore di santità”.

Questa credenza contrabbanda un fatto naturale per un evento misterioso e sovrumano. La scienza ha reso noto da tempo che, in determinate circostanze un cadavere può conservarsi più o meno intatto per molto tempo, a volte addirittura millenni. Se è vero che, abitualmente un corpo va in putrefazione e si riduce a uno scheletro nel giro di una decina di anni, come ricorda un interessante articolo di Andrea Centini, «specifiche condizioni ambientali possono avviare il processo di mummificazione e preservare un cadavere per tempi lunghissimi».

In caso di temperature gelide, ad esempio, i naturali processi di decomposizione vengono impediti. Si pensi al celebre Ötzi, la “Mummia del Similaun”, conservatasi per un periodo compreso tra 5.100 e 5.300 anni. Lo stesso avviene in condizioni di caldo estremo e assenza di umidità. In altri casi, il processo di preservazione è “aiutato” artificialmente attraverso forme di mummificazione, composti chimici, maschere di silicone ecc. È questo quanto accaduto al beato Carlo Acutis, un giovane di 15 anni morto nel 2006 per una leucemia fulminante di cui è occasionalmente possibile vedere il corpo “incorrotto” grazie a un intervento artificiale, anche se molti fedeli credono che tale condizione sia imputabile a un intervento celeste.

Quanto all’odore di santità, molti cadaveri, soprattutto in alcune fasi della decomposizione, emanano un odore dolciastro che può ricordare in parte il profumo di alcuni fiori. Le credenze, le aspettative, la suggestione condizionano poi l’olfatto dei devoti, inducendo una distorsione percettiva interpretata in senso miracolistico.  

L’esperienza del soprannaturale è fortemente condizionata da convinzioni, credi e visioni del mondo: chi ritiene che i miracoli esistano e siano lì davanti a noi, tenderà a piegare sensi e ragionamento all’accoglienza acritica della minima pretesa soprannaturale, se questa, beninteso, conferma i principi del suo credo. Si tratta di un fenomeno diffusissimo che coinvolge, in senso laico, anche chi ha un “credo” politico, sportivo o cospirativo.

I laici devoti di oggi non sono molto dissimili da quelli di un tempo. Anche essi sono vittime di “superstizioni” e “false credenze”. La differenza è che non si ritengono superstiziosi per il solo fatto di essere contemporanei. Anche oggi, tuttavia, si respirano “odori di santità”.

Su questi temi, invito alla lettura del mio Aloni, stregoni e superstizioni.

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Gesù pretende una fede cieca?

Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno! (Giovanni 20,27-29. Bibbia CEI).

Il celebre brano giovanneo citato ci lascia intendere che Gesù abbia rimproverato Tommaso, il suo discepolo, per non essersi fidato della testimonianza dei suoi  compagni e che lo abbia invitato a toccare il suo costato per trovare conferma della sua resurrezione. A questo punto, tutte le traduzioni, anche le più recenti, propongono: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». Sembra un invito a credere ciecamente, senza prove, solo in base alla pura fede e così, in effetti, la frase è interpretata ancora oggi.

Secondo il teologo gesuita belga Ignace de la Potterie, alla base di questa interpretazione vi sarebbe un grave errore di traduzione.

L’errore di traduzione consiste nel tradurre al presente il rimprovero di Gesù. In questo modo le parole vengono trasformate in una regola di metodo valida per tutti coloro che vivono nei tempi successivi alla morte e resurrezione di di Gesù. (…) In realtà, qui il verbo non è al presente, come viene tradotto. Nell’originale greco il verbo è all’aoristo (pisteùsantes) e anche nella versione latina era messo al passato (crediderunt): “Beati coloro che senza aver visto (ossia senza aver visto me, direttamente), hanno creduto”. E l’allusione non è ai fedeli che vengono dopo, che dovrebbero “credere senza vedere”, ma agli apostoli e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto, pur nell’esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano (Gaeta, 2005, pp. 86-87).

Continua de la Potterie:

In particolare il riferimento indica proprio Giovanni, che con Pietro era corso al sepolcro per primo dopo che le donne avevano raccontato l’incontro con gli angeli e il loro annuncio che Gesù Cristo era risorto. Giovanni, entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, aveva visto la tomba vuota e le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte, e pur nell’esiguità di tali indizi aveva cominciato a credere. La frase di Gesù “beati quelli che pur senza aver visto (me) hanno creduto” rinvia proprio al “vide e credette” riferito a Giovanni al momento del suo ingresso nel sepolcro vuoto. Riproponendo l’esempio di Giovanni a Tommaso, Gesù vuole indicare che è ragionevole credere alla testimonianza di coloro che hanno visto dei segni, degli indizi della sua presenza viva. Non è la richiesta di una fede cieca, è la beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza a partire da segni anche esigui e danno credito alla parola di testimoni credibili (Gaeta, 2005, p. 87).

Niente a che vedere, dunque, con la fede cieca, quella di chi crede a prescindere da ogni riferimento empirico. L’affermazione di Gesù si inscrive in un momento preciso, situato nella sua contingente biografia umana e il suo significato non è generalizzabile a regola massima. Soprattutto non può legittimare credenze insostenibili a ogni verifica empirica. In un’epoca tendente allo scetticismo come la nostra, ciò sarebbe peraltro non condivisibile.

La tesi di de la Potterie renderebbe più moderno il messaggio di Gesù e meno strumentalizzabile il suo significato nel nome di una fede senza fondamenti, che, fra l’altro, è ciò a cui si appellano sensitivi, maghi, guaritori e altri truffatori contemporanei per dare credito alle proprie pretese.

Fonti:

de la Potterie, I., 1997, Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, Sei, Torino.

Gaeta, S., 2005, Il volto del Risorto, Famiglia Cristiana-Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi), pp. 86-87.

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Santoriello, la Juventus e il bias giudiziario di conferma

Si parla molto in questi giorni del caso Santoriello, uno dei pm titolari dell’inchiesta Prisma in base alla quale sono stati rinviati a giudizio 12 dirigenti della Juventus, tra cui Andrea Agnelli, con conseguenze anche in termini di diritto sportivo, concretizzatesi in 15 punti di penalizzazione inflitti alla squadra torinese nel campionato corrente.

Come è noto, è stato ripescato un vecchio video, relativo alla partecipazione del magistrato a un convegno del 2019, in cui lo stesso rivelava, senza troppi giri di parole, di essere tifosissimo del Napoli e di odiare la Juventus. Queste le sue parole: “Lo ammetto, sono tifosissimo del Napoli e odio la Juventus. Come tifoso è importante il Napoli, come pubblico ministero ovviamente sono antijuventino, contro i ladrocini in campo”.

Questa rivelazione, come ovvio, ha suscitato enormi polemiche. In particolare, ci si è chiesto se un magistrato che esprime una passione calcistica così accesa possa serenamente giudicare i fatti relativi a una squadra che dichiaratamente “odia”.

Alcuni commentatori hanno affermato che un bravo giudice riesce sempre a distinguere il piano emotivo e passionale da quello professionale e che, di conseguenza, non si lascerà mai condizionare nei suoi giudizi dal proprio tifo calcistico. Ma le cose stanno davvero in questi termini? Le scienze sociali ci dicono di no: pregiudizi, convinzioni, aspettative, credenze, emozioni influenzano tantissimo il giudizio, anche se i giudici non se ne rendono conto.

Tra gli anni Venti e la fine dei Trenta del XX secolo, negli Stati Uniti si affermò il cosiddetto “realismo giuridico” di cui l’esempio più significativo è il libro di Jerome Frank, Law and the Modern Mind (1930). Secondo Frank, «la sentenza del giudice non è frutto di ragionamento ma di “intuizioni” per mezzo delle quali il giudice giunge alla decisione finale, prima ancora di aver cercato di motivarla e spiegarla. Le conclusioni dei giudici sono il risultato unicamente di fattori psicologici, morali, politici ed economici. Le norme evocate nelle sentenze costituiscono solo un apparato formale» (Forza, A., Menegon, G., Rumiati, R., 2017, Il giudice emotivo, Il Mulino, Bologna, p. 123). Per esprimerci in termini caricaturali, “la giustizia è quello che il giudice ha mangiato a colazione” (Justice is what the judge ate for breakfast).

Soprattutto, la mente del giudice è condizionata da una serie di bias che ne distorcono sistematicamente il pensiero. Il principale tra essi è definito “pregiudizio giudiziario di conferma” (forensic confirmation bias) e designa «l’insieme di effetti tramite cui le credenze, le aspettative e le motivazioni preesistenti di un individuo, e il contesto situazionale, influenzano la raccolta, la percezione e l’interpretazione dei fatti nel corso di un procedimento giudiziario». Tale bias genera la formazione di una sorta di “visione tubulare” (tunnel vision) per cui il giudice giunge a una fissazione (rigid focus) su un sospettato che spinge gli investigatori a individuare e prediligere gli elementi colpevolizzanti e a trascurare o sminuire ogni elemento a discolpa esistente» (Kassin, S. M., Dror, I. E., Kukucka, J., 2013, “The forensic confirmation bias: Problems, perspectives, and proposed solutions”, Journal of Applied Research in Memory and Cognition, vol. 2, p. 45).

Il bias della conferma viene mantenuto in due modi interrelati: i) il modo in cui si ricercano le informazioni, in quanto le aspettative influenzano la quantità e il tipo di informazioni che la persona ricerca; ii) il modo in cui si elaborano le informazioni, in quanto le aspettative influenzano l’interpretazione, il ricordo e il giudizio sulle nuove informazioni.

Si crea così una situazione di cognitive hysteresis, o psychological fixation, in cui le persone non riescono a rivedere le loro valutazioni iniziali a fronte di nuove prove, in particolare di prove che divergono dalle aspettative (Catino, M., 2022, Trovare il colpevole. La costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni, Il Mulino, Bologna, pp. 136-138).

In uno studio, i partecipanti esaminarono un finto rapporto di polizia, relativo a una indagine su un crimine, che conteneva deboli prove indiziarie a carico di un possibile sospettato. Alcuni partecipanti, ma non tutti, furono invitati a formarsi e definire una ipotesi iniziale relativa al probabile colpevole. Gli stessi si diedero a rinvenire prove ulteriori e a interpretare queste prove in modo da confermare la loro ipotesi. Così, un individuo su cui esistevano deboli sospetti divenne il principale sospettato.

In un altro studio, i ricercatori chiesero ad alcuni partecipanti, ma non a tutti, di compiere un finto reato, dopo di che tutti furono interrogati da altri soggetti che, in base a una assegnazione casuale, furono indotti a ritenerli colpevoli o innocenti. Coloro che partivano da una presunzione di colpevolezza posero domande più incriminanti, condussero interrogatori più coercitivi e si sforzarono maggiormente di far confessare il sospettato. A sua volta, questo stile più aggressivo fece apparire i sospettati sulla difensiva e spinse gli osservatori che, in un secondo momento, ascoltarono le registrazioni a giudicarli colpevoli, anche quando erano innocenti (Kassin, Dror, Kukucka, 2013, p. 44).

Allo stesso modo, un giudice che parte dal presupposto che “la Juve ruba” tenderà a raccogliere solo i fatti che sembrano confermare la tesi di partenza e a interpretarli nella medesima chiave. Altri fatti saranno scartati o minimizzati come ininfluenti o interpretati come non rilevanti ai fini del giudizio. Così, le intercettazioni, che essendo testi radicati in un co-testo e in un contesto sono per definizione passibili di interpretazioni conflittuali, saranno coerentemente “spiegate” come indubitabili prove a carico del colpevole. Intercettazioni dal contenuto dissonante rispetto alla tesi di partenza non saranno ritenute rilevanti o, al più, giudicate marginali ai fini della formulazione dell’accusa.

Numerosi altri bias condizionano la mente del giudice. L’idea che si possa tenere separate la sfera professionale da quella umana è clamorosamente smentita dalle scienze umane. I nostri giudizi sono raramente sereni. Le emozioni spesso hanno la meglio su di noi.  

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Curiosità dal Vaticano

Ci sono almeno tre cose curiose sul Vaticano (in realtà molte di più) che ho appreso dalla lettura di Segreti e tesori del Vaticano di Massimo Polidoro (Edizioni Piemme, Milano, 2017).

La prima è che ai dipendenti dei Musei Vaticani fu distribuito nel 1982 un Vademecum del custode che contiene una interessante descrizione di come quelli del Vaticano vedono i turisti:

Il turista vede troppe cose e non riesce ad assorbirne il significato: diventa così insensibile a ciò che vede, ottuso e refrattario. Il turista vive un periodo di vita eccezionalmente intenso. Cammina e si stanca più di quanto crede. Si trova in un paese del quale non capisce la lingua, le usanze, il carattere: è quindi sospettoso, timoroso, diffidente. È sovreccitato: un’inezia può farlo esplodere. Perde le cose, dimentica, inciampa, sviene, non digerisce, non dorme, e vive nell’ansia di perdere il treno, l’aereo o il pullman. È pronto a urlare anche se non lo ha mai fatto prima. È pronto persino a picchiare, anche se ha sempre avuto un carattere remissivo (Polidoro, 2017, p. 396).

Si tratta di un identikit psico-sociale che mi ha ricordato quanto letto in vari libri di psicologia e sociologia del turismo. Non si tiene mai abbastanza conto delle trasformazioni psicologiche e sociali in cui incorre l’individuo quando interpreta il ruolo del turista; trasformazioni che, ad esempio, lo rendono più irritabile, più superficiale, ma anche più esposto a un certo tipo di crimini.

A proposito di crimini, la seconda cosa che mi ha incuriosito del libro di Polidoro (ma che già sapevo) è che la Città del Vaticano ha un tasso di criminalità pro capite molto più alto di qualsiasi altra capitale del mondo. Nel 2006, ad esempio, il numero dei reati denunciati è stato più alto del numero dei cittadini! Gli abitanti del piccolo stato sono, dunque, tutti delinquenti? No, la ragione di questa anomalia è dovuta al gran numero di turisti che visitano la Santa Sede. Sono loro, nella stragrande maggioranza dei casi, a compiere reati (soprattutto furti) (Polidoro, 2017, p. 400).

Infine, una piccola avvertenza linguistica a proposito dell’Archivio segreto del Vaticano. Come spiega Polidoro:

L’Archivio segreto del Vaticano, almeno alle sue origini, era meno segreto di quanto il suo nome facesse pensare. “Segreto”, infatti, nell’italiano del Cinque-Seicento voleva dire privato, personale, cioè affidato al secretarius del sovrano. Istituito da Paolo V tra il 1611 e il 1614, raccoglie testimonianze dell’attività pontificia dagli inizi dell’VIII secolo a oggi; tutti i documenti della segreteria di stato, bolle e registri della Cancelleria, incartamenti della Sacra Rota e delle congregazioni dei concilii e delle nunziature (le ambasciate del Vaticano). Ma anche le lettere papali e le relazioni dei conclavi redatte dal cardinale camerlengo e chiuse in buste sigillate che «non potranno essere aperte da nessuno, se il Sommo Pontefice non l’avrà permesso esplicitamente (Polidoro, 2017, p. 399).

I nostri giudizi linguistici devono tenere conto dell’epoca in cui le parole vengono scritte e/o pronunciate. Per un esempio risalente a Dante, rimando a un mio post di qualche anno fa.

I segreti intorno al Vaticano e alla “strana” gente che lì abita sono numerosissimi. Nel libro di Polidoro è possibile scoprirne molti, ma molti altri sarebbero da scoprire.

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La Condamine e le obiezioni all’inoculazione contro il vaiolo

Paure e obiezioni contemporanee alla vaccinazione non sono molto dissimili da quelle sperimentate dagli europei del XVIII secolo. Lo testimonia nella risposta al quesito “Per quali motivi morali e religiosi sarebbe lecito opporsi all’inoculazione?” il matematico francese Charles de La Condamine (1701-1774), autore della Memoria sull’innesto del vaiolo, letta all’Accademia reale delle scienze il 24 aprile 1754.

Prima obiezione posta all’attenzione di La Condamine: «Somministrare una malattia a chi ne è privo o tentare di evitarla a colui che vi è naturalmente destinato per ordine della Provvidenza non è un’usurpazione dei diritti della divinità?». La Condamine risponde collocandosi sul piano della semplice logica:

Tale obiezione, se così possiamo definirla, è propria dei fatalisti e dei predestinazionisti più intransigenti. Si potrebbe rispondere loro che colui che viene inoculato era predestinato all’inoculazione, e che inoculandolo non si è fatto altro che adempiere i decreti della Provvidenza […]. Coloro che la pensano così, se agissero in maniera coerente, dovrebbero proibire tutte le forme di precauzione e di prevenzione […]. È la Provvidenza che ci offre questo rimedio: non la offendiamo se rifiutiamo con sdegno i suoi doni?

La Condamine aggiunge che, nel 1723, nove dottori della Sorbonne si erano pronunciati a favore dell’inoculazione e puntualizza che la provenienza protestante del procedimento non poteva precluderne l’accesso ai cattolici.

Seconda obiezione: «Non è lecito imporre una malattia crudele e pericolosa a una persona che forse non l’avrebbe mai contratta». Questa volta la risposta si basa sull’osservazione dei fatti: l’esperienza mostra che l’inoculazione non è crudele né pericolosa. Inoltre, è falso affermare che forse gli inoculati non avrebbero mai contratto la malattia, giacché «il vaiolo è un morbo che si può ritenere generale […] il numero di coloro che arrivano alla vecchiaia senza averlo avuto è talmente ristretto che essi costituiscono a malapena un’eccezione alla legge comune».

Terza obiezione: l’inoculazione è un male morale ed eccone la prova. «È innegabile che qualcuno è morto in seguito all’inoculazione, per cui questo metodo non è infallibile. Pertanto, non ci si può sottoporre ad essa senza rischiare la vita, di cui non è lecito disporre: l’inoculazione lede i princìpi della morale». Risposta: la pratica del salasso provoca più vittime, eppure non vi si rinuncia; tutti i rimedi sono dei «mali artificiali» ed è immorale rifiutare di correre un rischio minimo per evitare un rischio mortale. È una questione di statistica e di buon senso:

Qui non c’entrano più la morale o la teologia, è questione di calcolo: guardiamoci dal trarre un caso di coscienza da un problema di aritmetica. […] Il rischio di morte a cui ci si espone attendendo dalla natura il funesto dono del vaiolo è di 9 su 60, vale a dire più di un ottavo; il rischio di morire in seguito a un’inoculazione è valutato in 1 su 376 su più di 6000 casi esaminati […]. È dunque dimostrato, in tutto il rigore di questo termine, che chiunque non inoculi suo figlio, con il pretesto di non mettere a repentaglio la sua vita, rischia almeno dieci volte di più che inoculandolo.

Conclusione: «Né la religione né la morale proibiscono ciò che consigliano la ragione e il buon senso». Per la prima volta, argomentazioni morali e teologiche vengono confutate per mezzo delle statistiche. La Condamine utilizza poi l’immagine della lotteria, un’immagine poco ortodossa ma molto eloquente:

Tale è la sorte dell’umanità: più di un terzo di coloro che nascono sono destinati a morire entro il primo anno di vita per mali incurabili o quanto meno ignoti; sfuggiti a questo primo pericolo, il rischio di morire di vaiolo diventa per loro inevitabile, un rischio che si estende su tutto il corso della vita e che cresce a ogni istante. È una lotteria obbligata, in cui siamo coinvolti nostro malgrado: ciascuno di noi ha il suo biglietto; più tarda a uscire dalla ruota, più il rischio aumenta. A Parigi, in un anno, vengono estratti 1400 biglietti neri il cui premio è la morte. Che cosa accade se pratichiamo l’inoculazione? Cambiamo le condizioni di questa lotteria, diminuendo il numero dei biglietti funesti: uno su sette o, nei climi più favorevoli, uno su dieci era fatale; ora non ne resta che uno su trecento o uno su cinquecento; ben presto non ne rimarrà che uno su mille […]. La natura ci decimava, l’arte ci millesima.

La Condamine aggiunge un argomento patriottico: vogliamo essere più stupidi degli inglesi, che non hanno esitato a mutuare il principio dell’inoculazione «da un popolo ignorante», i turchi? E viene il ritornello sui progressi dell’intelligenza umana e sullo spirito dei Lumi che sconfigge l’oscurantismo, la superstizione, il pregiudizio e il fanatismo. In sostanza la teologia e la medicina devono unirsi per educare il popolo e diffondere i benefìci dell’inoculazione:

Spetta dunque alle Facoltà di teologia e di medicina, alle accademie, ai capi della magistratura, ai dotti, agli uomini di lettere «bandire gli scrupoli fomentati dall’ignoranza e far capire al popolo che per la sua stessa utilità, per la carità cristiana […] è necessario che si metta in atto l’inoculazione» (Minois, G., 2016, Il prete e il medico. Fra religione, scienza e coscienza, Edizioni Dedalo, Bari, pp. 261-263).

Le risposte fornite da La Condamine alle obiezioni poste dagli antivaccinisti del XVIII secolo sono praticamente le stesse di quelle fornite dagli antivaccinisti odierni. Sono trascorsi quasi tre secoli dall’epidemia di vaiolo che spinse il matematico francese a scrivere la sua memoria, ma sembra che sia cambiato ben poco da allora. Perfino le obiezioni nazionalistiche e teologiche, che tenderemmo a ritenere superate, sono ancora oggi rilanciate da qualcuno: pensiamo alle discussioni sul modello cinese di fronteggiare il virus del Covid-19 contrapposto al modello italiano o europeo di gestione della crisi. Pensiamo all’attribuzione del manifestarsi dell’epidemia alla cieca volontà divina che, ancora oggi, predicatori di ogni tipo strombazzano in giro.

Insomma, l’antropologia fondamentale dell’uomo non sembra mutata di molto nel corso dei secoli, anche se le parvenze della storia ci illudono altrimenti.

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Accidente o incidente stradale?

Come si traduce “incidente stradale” in inglese? Per i meno avvezzi a questa lingua, il rischio di tradurre “incidente” con incident piuttosto che con accident è alto. Si tratta, infatti, di un classico false friend. Di norma, incident descrive un avvenimento che potrebbe risultare sgradevole e negativo. Accident invece descrive un evento negativo imprevisto e involontario come, tra l’altro, un incidente stradale. In italiano, “incidente”, dunque, corrisponde per lo più ad accident.

Un tempo, però, le cose non stavano in questi termini. Anzi, c’è stato un periodo in cui, in Italia, si è oscillato tra “accidente” e “incidente” per descrivere uno scontro tra auto o tra un un’automobile e una persona o oggetto. Lo testimonia Giorgio Boatti in una pagina molto interessante del suo Bolidi, che vale la pena di leggere per intero:

Le parole che si usano non sono mai casuali. Nel primo giungere dell’automobile quando si registrano delle disgrazie della strada si usa, per un certo periodo di tempo, il termine “accidente”. L’etimologia della parola – “accidere”, dunque cadere addosso, venire dall’alto, colpire improvvisamente, accadere – è significativa della fatalità che si assegna all’accaduto, quasi una folgore che trafigge il povero mortale che ha osato motorizzarsi e spingersi a velocità mai conosciute dall’uomo.

Il Regolamento [del 28 luglio 1901 che concerne le automobili, anzi i “veicoli semoventi senza guida di rotaie”] usa ancora questo termine che però, nel giro di pochissimi anni, si trasforma e viene sostituito. Di lì a breve, nelle cronache che appaiono sulla stampa e nel linguaggio comune, ecco che appare non più l’“accidente” ma l’“incidente”.

Il termine – più che dal latino “incidere”, cadere dentro, è desunto dal significato che gli viene attribuito nella geometria – e si riferisce all’incontro tra linee che viaggiano sullo stesso piano: dunque da un evento che aveva una simbolica e solenne verticalità si passa alla prosaicità di un fatto che aderisce alla scabra piattezza del suolo.

Nel luglio del 1902 in una delle popolarissime copertine disegnate da Achille Beltrame per la «Domenica del Corriere» si parla ancora di un grave “accidente automobilistico” avvenuto in quel di Chivasso. Lì una grande vettura a motore, non riuscendo a prendere velocità sulla salita della strada di Cimena, comincia a scivolare all’indietro sino a precipitare nel burrone sottostante. Nell’urto i due occupanti, un uomo e una donna, vengono sbalzati dall’abitacolo e riportano ferite piuttosto gravi. Però rifiutano di declinare i loro nomi e, ancora più misteriosamente, di spiegare come mai avessero con sé, oltre a diverse valigie, alcune gabbie contenenti scimmie, pappagalli, uccelli rari e tartarughe.

Tre anni dopo, a proposito del noto episodio accaduto alla regina Margherita – l’auto sbalzata dai sassi posti [da alcuni pastori stufi dell’auto della regina che spaventava mucche e pecore] – non si parla più di “accidente” ma di “incidente”.

Il termine ormai è entrato nell’uso comune e l’8 settembre 1907 illustra l’ennesima copertina della «Domenica del Corriere» dedicate alle tragedie della velocità: questa volta si tratta di un’auto potente, una 40 cavalli, che in un’alba domenicale percorre la strada da Milano a Torino a oltre 80 chilometri all’ora. C’è un po’ di foschia e chi guida non scorge il passaggio a livello, chiuso, della ferrovia. In quel momento sta giungendo un treno merci e la vettura, con i quattro occupanti, finisce con l’urtare uno dei vagoni, schiantandosi ed esplodendo di lì a poco. Muoiono subito il marchese Giulio Pallavicino di Priola di trentadue anni e l’avvocato Gustavo Malvano di trentasette, entrambi torinesi. Si salva lo chauffeur, che viene messo agli arresti, e il proprietario della vettura, l’industriale Migliardi, che dal letto d’ospedale dichiara: «A poco a poco la follia della velocità ci aveva assaliti» (Boatti, G., 2006, Bolidi. Quando gli italiani incontrarono le prime automobili, Mondadori, Milano, pp. 199-200).

Un esempio simile a quello di accidente/incidente riguarda il false friend morbid che, in inglese, vuol dire “morboso”, non “morbido”. Eppure, non è difficile trovare, narrazioni ottocentesche in cui il termine italiano coincide con quello inglese. Del resto, “morbido” deriva dal latino morbus “malattia”.

La storia narrata da Boatti ci insegna che le parole subiscono modifiche e trasformazioni nel corso del tempo per cui dovremmo essere più umili quando rimproveriamo il prossimo per un errore lessicale o grammaticale. Significati o regole che tendiamo a considerare eterni possono cambiare radicalmente da un periodo all’altro, destabilizzando le nostre più profonde convinzioni linguistiche.

Eppure, c’è chi guarda alla grammatica come all’ultimo avamposto dell’inflessibilità normativa. In realtà, se inforchiamo le lenti dello storico, ci rendiamo conto che nemmeno la lingua può contare su dogmi inscalfibili. No, dogmi eterni ormai non ce ne sono più! Neppure, nella religione.

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Calcio e contatti intergruppo

Secondo un vecchio luogo comune delle scienze sociali, risalente almeno a La natura del pregiudizio di Gordon Allport del 1954, il contatto tra membri di culture o gruppi sociali diversi sarebbe sufficiente a mitigare o annullare i pregiudizi intercorrenti tra essi. Basterebbe coinvolgere persone provenienti da retroterra sociali e culturali diversi in un qualsiasi compito da svolgere insieme per ottenere una significativa diminuzione del livello di antagonismo da essi sperimentato abitualmente. Ad esempio, assemblare una squadra di calcio con giocatori di etnia, provenienza geografica o religione diversa dovrebbe favorire una migliore convivenza nelle loro relazioni quotidiane.

Una smentita parziale di questo assunto ci viene da una recente ricerca condotta da Salma Sousa, della Stanford University, finalizzata a valutare il grado di coesione sociale in una situazione postbellica. La studiosa ha assegnato casualmente alcuni iracheni displaced di religione cristiana provenienti dall’Islamic State of Iraq and Syria (ISIS) a una squadra di calcio composta unicamente di membri della loro comunità ed altri a una squadra di calcio composta anche di musulmani. Al termine dell’esperimento, i risultati hanno dimostrato che i cristiani che avevano giocato insieme ai musulmani avevano cambiato atteggiamento nei confronti di questi ultimi. Ad esempio, erano più favorevoli a concedere un premio a un calciatore di religione islamica (anche se non facente parte della loro squadra); a far parte, nella stagione successiva, di una squadra mista; ad allenarsi insieme ai musulmani sei mesi dopo l’esperimento.

Non si sono, però, verificati cambiamenti di più ampia portata. Ad esempio, i calciatori cristiani non erano disposti a pranzare insieme ai musulmani in un ristorante di Mosul (Iraq) situato in zona islamica, né a partecipare ad altri eventi sociali con loro. Non si sono poi registrati effetti coerenti sugli atteggiamenti intergruppo in generale, come se la maggiore tolleranza non potesse che riguardare un numero definito e circoscritto di attività.

La ricerca di Sousa smentisce la retorica corriva secondo cui lo sport affratella e unisce, costruendo relazioni ireniche all’insegna di una magica tolleranza intergruppo. Come ogni altro fenomeno sociale, anche lo sport è pesantemente condizionato da fattori sociali più ampi, come la guerra, l’odio razziale, le migrazioni, le circostanze economiche e politiche ecc.

Soprattutto, quando parliamo di conflitti profondi tra comunità belligeranti, occorrono, dunque, condizioni di tutt’altro tipo affinché si riescano a stabilire rapporti stabili e pacifici tra i membri di gruppi sociali diversi.

Fonte: Mousa S., 2020, “Building social cohesion between Christians and Muslims through soccer in post-ISIS Iraq”, Science, vol. 369, n. 6505, pp. 866-870.

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Importanza della giusta pronuncia

In un’epoca secolarizzata come la nostra, la giusta pronuncia dei suoni – la dizione corretta delle parole – è considerata una dote che conferisce, in determinati contesti, prestigio, oltre che essere ricercata in talune professioni (speaker, attore, giornalista ecc.) e favorire l’inclusione sociale. L’ortoepia (la corretta pronuncia di una lingua) può comunicare infine competenza, credibilità, sicurezza, istruzione e altre qualità.

Un tempo, la pronuncia errata di una parola o di un suono poteva compromettere il buon esito di una preghiera o di una formula religiosa in modi per noi sorprendenti.

Nelle preghiere cerimoniali batak, in Indonesia, ad esempio, non erano ammessi errori nell’accento o nella pronuncia di una parola. Le formule di preghiera dei romani erano recitate in maniera chiara e con espressività, la minima imprecisione di pronuncia o anche soltanto un’interruzione invalidavano la preghiera.

La pronuncia esatta del nome o del titolo onorifico svolgeva un ruolo particolarmente importante. In Cina ogni essere superiore deve essere chiamato con il giusto titolo dagli ufficianti, il cielo si chiama “cielo sublime”, “sommo signore”, l’avo “sommo antenato”, la terra “terra principe” ecc.. Poiché a Roma si era incerti sul nome o il titolo esatto della divinità, si usava aggiungere all’invocazione questa prudente osservazione: sive deus sive dea es («che tu sia un Dio o una Dèa»); e si concludeva l’elenco dei nomi e dei predicati con la frase: seu quo nomine vis appellati («o con qualunque [altro] nome vuoi essere chiamato»).

In questo modo, però, la preghiera perdeva completamente il suo carattere naturale e sfociava nel sortilegio superstizioso: si attribuiva, infatti, alle parole una forza infallibile, magica e immanente, mediante la quale o si esercitava una costrizione assoluta sugli esseri superiori, oppure questi ultimi erano tolti di mezzo, e il desiderio del recitante si realizzava direttamente e automaticamente (Heiler, 2016,).

Tali forme superstiziose oggi non esistono più, ma la giusta pronuncia delle parole sembra ancora sortire effetti magici: alcuni anni fa un esperimento dimostrò che lo stesso contenuto recitato in perfetto italiano o in un dialetto dell’Italia meridionale produceva conseguenze diverse in termini di credibilità. Nel primo caso, le parole risultavano più credibili. Un trucco che alcuni imbonitori e truffatori utilizzano ancora oggi per sedurre il prossimo.

Le parole seducono. E pronunciarle con l’accento convenzionalmente ritenuto superiore le rende ancora più seducenti. Quasi ipnotiche. Per quanto ci costi ammetterlo, viviamo ancora in un mondo avvolto da magia e irrazionalità.

Fonte: Heiler, F., 2016, La preghiera. Studio di storia e psicologia delle religioni, Morcelliana, Brescia, pp. 212-217

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Ernesto Rossi e il calcio

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso era in voga definire il calcio come ersatz religioso, oppio dei popoli con effetti più narcotizzanti di un rosario. Ancora oggi, il ginocchio di Messi può suscitare in un tifoso più apprensione della situazione politica del momento; la caviglia di Mbappé trasmettere più ansia dell’ultima crisi economica; i successi della propria squadra più entusiasmo della fine della fame nel mondo.

Sebbene i discorsi sul calcio come oppio del mondo siano concentrati nel periodo storico che ho indicato (oggi quasi più, nemmeno tra i critici più radicali, parlerebbe in questo modo del calcio; segno che forse l’opera di narcosi è perfettamente riuscita), già in precedenza gli intellettuali segnalavano l’importanza che il calcio occupava nella mente degli italiani.

Il 16 gennaio 1927 da Bergamo, dove si trovava, l’attivista e intellettuale antifascista Ernesto Rossi (1897-1967) scriveva allo storico e politico Gaetano Salvemini (1873-1957), in esilio in Francia:

Le folle che una volta credevamo «partecipassero» in qualche modo alla vita del paese, oggi partecipano con entusiasmo molto maggiore alle gare di football. Ogni settimana ci sono partite di calcio anche nelle più piccole cittadine. Migliaia di persone assistono per ore ed ore, in piedi, anche se piove, anche se nevica. Quando la squadra della città si muove per andarsi ad incontrare con quella di un’altra, centinaia di persone – anche poveri diavoli – la seguono. L’altra domenica che la squadra di qui è stata battuta s’aveva l’impressione d’un lutto collettivo. Ho visto piangere un giovane sotto i portici. Imprecazioni; discussioni eccitate. Non si parlava d’altro per la strada, ai caffè, alla trattoria. Ed è continuato per diversi giorni. Sembrava Caporetto, E la squadra di qui è di secondaria importanza. Che vuol farci? Il mio padrone di casa è un bravo uomo, già iscritto al partito socialista, tiene ancora il ritratto di Matteotti nella sua camera. Ma non pensa più ad altro che al football. Per il football fa sacrifici di tempo e di denaro. Parlargli di politica sarebbe tempo perso [Rossi, E. [1978], Guerra e dopoguerra. Lettere 1915-1930, a cura di G. Armani, Firenze, La Nuova Italia, p. 227] (cit. in Lupo, M., Emina, A., Benati, I. (a cura di), 2022, Visioni di gioco. Calcio e società da una prospettiva interdisciplinare, Il Mulino, Bologna p. 183).

Oggi le fonti di narcosi potenziale sono aumentate. Se non si piange per l’insuccesso della propria squadra, si discute dell’ultima affermazione dell’influencer, del battibecco tra tronisti, delle polemiche scatenate dall’opinionista di turno. Il partito ormai conta ben poco. E se non era capace di attirare le masse all’epoca di Rossi, figuriamoci adesso.  

Per altre considerazioni sulle funzioni del calcio nella nostra società, rimando al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso (Meltemi Editore, Milano, 2020).

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Logiche tribali persistenti

Gli scontri verificatisi ieri 8 gennaio 2023 tra tifosi della Roma e tifosi del Napoli nell’area di servizio di Badia al Pino vicino ad Arezzo sembrano smentire il luogo comune secondo cui il calcio e il tifo si sarebbero digitalizzati, virtualizzati, avrebbero subito metamorfosi futuristiche del tipo 2.0 (3.0, 4.0 a scelta del lettore).

Essi sembrano, invece, confermare un preciso e ricorrente motivo tribale che da sempre è associato al mondo dei tifosi e che si regge persistentemente su un canone conosciuto:

1) innanzitutto, una logica binaria amico-nemico di tipo evangelico (nel senso del noto verso di Matteo 12, 30: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde”). Da questo punto di vista, il calcio è una delle poche dimensioni della vita sociale in cui non esistono tonalità di grigio: tutto è bianco o nero;

2) scontro fisico come tema ineluttabile: la logica amico-nemico ispira modalità di contrapposizione che si esprimono in forme aggressive, di solito verbali, ma talvolta anche fisiche, come è accaduto ieri. Non sono possibili altre forme di comunicazione;

3) sociografia o biografia di gruppo: nel corso dei loro rapporti con gruppi rivali, le tifoserie accumulano storie, episodi, trionfi e torti che confluiscono in un preciso copione di vita, che determina ogni mossa futura. Ad esempio, i torti non si dimenticano (i tifosi sono come gli elefanti: non dimenticano mai). Così, la morte del tifoso napoletano Ciro Esposito nel giugno 2014 ad opera di un tifoso della Roma, poi condannato, emerge carsicamente come motivo vendicatore nei rapporti tra tifoserie del Napoli e della Roma e probabilmente non cadrà mai nell’oblio, concorrendo, anzi, a consolidare il copione di vita oppositivo tra romanisti e napoletani.

Insomma, a dispetto dei luoghi comuni più buonisti, la logica tribale appare incarnare l’essenza stessa dell’essere tifosi e, in questo senso, non credo si giungerà mai a una trasformazione antropologica del tifo calcistico, soprattutto di matrice ultrà. Questo potrà essere contrastato con la forza, sottomesso, scotomizzato, ma la sua essenza rimarrà sempre la medesima. A meno di rendere illegale lo stesso tifo calcistico.

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