L’incredibile storia dei “suicidi per procura”

Vi è un capitolo poco noto della criminologia suicidaria che vale la pena di raccontare. Si tratta di un fenomeno sconcertante che interessò alcuni paesi europei tra il XVI e il XIX secolo e che, per fortuna, fu abbastanza circoscritto. Ne parla la storica Kathy Stuart in un articolo del 2008 dal titolo “Suicide by Proxy: The Unintended Consequences of Public Executions in Eighteenth-Century Germany” che si legge come una storia e che lascia il lettore a bocca aperta, perché oggi, nel XXI secolo, mai immagineremmo che fenomeni del genere siano mai potuti accadere. La vicenda dei “suicidi per procura” (suicides by proxy), come li battezza la Stuart, è estremamente interessante anche perché mostra a quali aberrazioni possa condurre la salda credenza in alcuni dogmi religiosi e l’osservanza di norme morali in contrasto tra loro.

Come è noto, per i cristiani il suicidio è tradizionalmente considerato un peccato. Nel passato, questa consapevolezza induceva negli aspiranti suicidi un terribile dilemma: da un lato, la sofferenza “terrena” per una vita giudicata non più degna di essere vissuta; dall’altro, il timore, in caso di suicidio, di soffrire le pene dell’Inferno, e quindi una sofferenza ancora più atroce di quella patita in vita.

Come risolvere questo dilemma? Per alcuni, la soluzione si rivelò tanto ingegnosa quanto terribile. Dal momento che, nell’Europa moderna, la pena per l’omicidio era l’esecuzione capitale, quale migliore corso di azione che uccidere un innocente, preferibilmente un bambino – in modo che questi sarebbe andato comunque in Paradiso – , consegnarsi alla giustizia, essere condannati a morte dalle autorità, pentirsi e ricevere l’assoluzione da parte del sacerdote e morire per mano del boia nella certezza di non essere condannati all’Inferno in virtù della remissione di tutti i peccati?

Deve averla pensata così, il 24 maggio 1704, la trentenne Agnes Catherina Schickin, la quale, giunta nel villaggio di Krumhard, in Germania, si imbatte in quattro bambini che giocano al lato della strada. La donna chiede a uno di loro, Hans Michael Furch, di sette anni, figlio del bovaro locale, di accompagnarla a Schorndorf in cambio di un regalo. Giunti in una foresta, la Schickin taglia la gola al bambino per poi recarsi a Schorndorf, dove si consegna alle autorità del posto. Interrogata sul motivo della sua terribile azione, la donna risponde che «il bambino era ormai “salvo” e che lo aveva fatto solo perché anche lei potesse “lasciare questo mondo”, dato che il boia l’avrebbe certamente uccisa».

Comportamenti così aberranti, frutto di un conflitto tra norme religiose – i suicidi non potevano vedersi assolti dai propri peccati; gli omicidi sì – non furono affatto cosa rara, se molte autorità secolari emanarono editti e provvedimenti di vario genere per arginarne il numero.

Stuart dimostra che il “suicidio per procura” era più diffuso tra i protestanti che tra i cattolici e tra le donne più che tra gli uomini. I protestanti assunsero nei confronti del fenomeno un atteggiamento più ambivalente perché la ricerca dell’assoluzione prima della morte appariva un obiettivo tradizionalmente cattolico che contrastava con la dottrina della salvezza per sola grazia che tanto caratterizzò il luteranesimo. D’altro canto, i teologi cattolici, che pure credevano che i cristiani dovessero fare penitenza per espiare i loro peccati, non avevano certo in mente il caso dei suicidi per procura.

Le autorità secolari cercarono di rispondere alla sfida lanciata da questa nuova fattispecie criminale in vari modi. Alcuni stati introdussero pene particolarmente atroci per questo genere di reato, come  l’impalamento invece della decapitazione. Gli stati dello Schleswig e dell’Holstein, invece, stabilirono, nel 1767, che coloro che uccidevano con l’intenzione di porre termine alla propria vita non sarebbero stati condannati a morte, ma ai lavori forzati, alla marchiatura, alla fustigazione pubblica e alla gogna annuale in catene. Anche la Prussia, nel 1794, decise di non ricorrere alla pena capitale per questo genere di reati, ma alla prigione a vita e alla fustigazione periodica. In questo modo, venne meno ogni motivo per uccidere da parte di questi “criminali”.

Il fenomeno del “suicidio per procura” scomparve gradualmente nel XIX secolo, ma lo studio della Stuart mostra come l’adesione acritica a dogmi religiosi profondamente creduti possa scatenare comportamenti distruttivi paradossali e aberranti.

Colpevoli perché troppo religiosi, potremmo aggiungere nel nostro giudizio su questi poveri infelici alle prese con le contraddizioni della dottrina cristiana.

Da questo punto di vista, la conquista della laicità appare sicuramente un modo per non cadere più in simili pervertimenti. Oggi che i dogmi religiosi non hanno più presa sui credenti come una volta, è difficile che si verifichino crimini come quelli che ho appena raccontato. Certo, esistono anche crimini di laicità, ma questa è un’altra storia.

Fonte: Kathy Stuart, 2008, “Suicide by Proxy: The Unintended Consequences of Public Executions in Eighteenth-Century Germany”, Central European History, vol. 41, n. 3, pp. 413–445.

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La disneylandizzazione del mondo

È stata l’economista Sylvie Brunei a coniare il termine «disneylandizzazione del mondo» a indicare il fatto che l’industria del turismo non fa altro che proporre simulacri di luoghi, terre esotizzate, spettacoli di pura evasione e città ridotte a uso esclusivo o quasi dei turisti che decantano una autenticità che è solo camuffamento del finto, del fasullo, del facsimile.

E così la nostra fame di autentico a tutti i costi viene soddisfatta attraverso la somministrazione di fake su misura, buoni per tutte le tasche e tutti i gusti.

Un po’ in tutto il mondo, le tradizioni diventano pura scenografia, valorizzazione dello stereotipo, ricetta da ammannire secondo canoni prevedibili e desiderati proprio perché prevedibili. Danze, costumi, ambienti, cibi vengono spettacolarizzati, semplificati e cristallizzati in forme senza tempo e senza spazio per dare luogo a «vetrine identitarie» tipiche e pittoresche, funzionali alle attese dei turisti in cerca di esotismo, impazienti di lasciarsi spaesare.

Così, chi viene a Napoli si aspetta di trovare un ambiente suggestivo e accogliente, di mangiare determinati cibi (sfogliatella, pizza ecc.) in determinati modi, di imbattersi in persone calorose e “mediterranee”, musiche eternamente melodiose e glorificate dalla immutabilità, pulcinella sempre divertiti e divertenti, una storia ferma a qualche secolo fa. Perché è questo che il turista vuole. E il territorio si adegua, realizzando una delle più incredibili profezie che si autoavverano della storia umana.

Come ricorda Gilles Lipovetsky,

gli operatori del settore portano in scena un immaginario stereotipato dei «costumi» scorporati dal loro contesto sociale di origine, abbelliscono i riti antichi, smerciano un patrimonio sclerotizzato e ricreato artificialmente, fabbricano degli universi sotto una campana di vetro, delle bolle turistiche asettiche e sicure, moralizzate e artificiali, mondate di ogni elemento potenzialmente problematico. La disneylandizzazione consacra su scala planetaria la vittoria del falso e dell’artificiale sull’autenticità, il trionfo commerciale del cliché, dello spettacolo, della turistizzazione del patrimonio (Lipovetsky, G., 2022, La fiera dell’autenticità, Marsilio, Venezia, p. 277).

Il turismo è propagandato come risorsa dei territori, fonte di ricchezza e di lavoro, ma è anche forma di evasione per masse perennemente alienate (e che continueranno a esserlo fino alla morte) e soprattutto stravolgimento del quotidiano a favore del falso-che-appare. Insomma, nel nostro mondo che pure anela l’autenticità più autentica, viviamo sommersi dal non-autentico per convenienza e perché lo esige l’economia.

Niente di male, si potrebbe obiettare. Il falso e l’illusione fanno parte della vita. Anzi, la rendono degna di essere vissuta. Disneylandizzare il mondo significa, però, renderlo merce di plastica. È questo il falso di cui abbiamo davvero bisogno?

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Cavallette nella Bibbia

Che la Bibbia sia un magma composito di testi provenienti da autori diversi, scritti in epoche diverse e con intenti diversi è un fatto noto a chi non si lascia tentare dall’illusione di credere che sia un testo ispirato da Dio, come per anni ci hanno insegnato.

Tale polifonia di voci, tempi, luoghi e intenzioni ha come conseguenza che nella Bibbia è possibile trovare contraddizioni, discordanze, incoerenze di ogni tipo che solo una fede cieca può far finta di non vedere. Tra l’altro, è possibile trovare argomentazioni a sostegno di qualsiasi tesi, per quanto bizzarra essa sia.

Nei giorni scorsi, mi è capitato di imbattermi su Facebook nelle due citazioni presenti nell’immagine sopra, che qui ripropongo nella versione CEI:

Sarà per voi in abominio anche ogni insetto alato, che cammina su quattro piedi. Però fra tutti gli insetti alati che camminano su quattro piedi, potrete mangiare quelli che hanno due zampe sopra i piedi, per saltare sulla terra. Perciò potrete mangiare i seguenti: ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di acridi e ogni specie di grillo (Levitico 11, 20-22)

Giovanni portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano locuste e miele selvatico (Matteo 3, 4).

Queste due citazioni, prelevate forzosamente dal loro contesto, vengono divulgate allo scopo di mostrare che, perfino nei testi biblici, è possibile rinvenire argomentazioni a favore del consumo di insetti, tema, come sappiamo, piuttosto attuale e che trova opposizione fra i più tradizionalisti, convinti che cibarsi di farina di grillo, ad esempio, sia qualcosa di aberrante e innaturale, oltre che inaudito.

Le due citazioni bibliche ci dicono esattamente il contrario: perfino gli “eroi” dei Testi Sacri si cibavano di insetti, anzi un certo consumo era addirittura raccomandato e certamente non era considerato aberrante. Grazie a tale avallo, dunque, cibarsi di insetti dovrebbe essere riconosciuto dalla tradizione, soprattutto da quella che individua nella Bibbia un testo di riferimento essenziale.

Nella Bibbia, tuttavia, possiamo rinvenire altri significati associati agli insetti. Ad esempio, le cavallette sono considerate da Esodo una piaga nefasta, come ricorda il seguente passo:

Allora il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sul paese d’Egitto per mandare le cavallette: assalgano il paese d’Egitto e mangino ogni erba di quanto la grandine ha risparmiato!». Mosè stese il bastone sul paese di Egitto e il Signore diresse sul paese un vento d’oriente per tutto quel giorno e tutta la notte. Quando fu mattina, il vento di oriente aveva portato le cavallette. Le cavallette assalirono tutto il paese d’Egitto e vennero a posarsi in tutto il territorio d’Egitto. Fu una cosa molto grave: tante non ve n’erano mai state prima, né vi furono in seguito. Esse coprirono tutto il paese, così che il paese ne fu oscurato; divorarono ogni erba della terra e ogni frutto d’albero che la grandine aveva risparmiato: nulla di verde rimase sugli alberi e delle erbe dei campi in tutto il paese di Egitto (Esodo 10, 12-15).

Per la Bibbia, le cavallette sono qualcosa che si può divorare, ma, contemporaneamente, qualcosa che può divorare noi. Sono creature da cui possiamo tratte alimento e vita, ma anche distruzione e morte. Sono luce e ricchezza, ma anche tenebra e miseria.

La Bibbia è piena di tali contraddizioni. Ad esempio, secondo il passo prescelto, sappiamo che Dio è dappertutto, vede e conosce tutto, ma anche che non è dappertutto, non vede né conosce tutto. Così pure, leggiamo brani che autorizzano la rapina, la violenza e lo stupro, e brani che proibiscono radicalmente simili comportamenti; brani che consentono agli uomini di portare capelli lunghi e brani che lo vietano; passi che incoraggiano l’uso di bevande inebrianti e brani che scoraggiano tale uso.

Retoricamente, la Bibbia è uno straordinario testo giustificazionista. Se volete sostenere la verità di un argomento a cui tenete, appoggiatevi alla Bibbia. I suoi contenuti non sono persuasivi come un tempo, ma sono ancora tremendamente efficaci.

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Le insidie della preghiera

La preghiera è di solito interpretata come una forma di interazione con la divinità dettata da un scopo preciso, che può essere un’invocazione, un lamento, una domanda, un’intercessione, un ringraziamento, un sacrificio. Particolare attenzione suscita abitualmente la preghiera cosiddetta “di petizione”, mirante, cioè, a ottenere qualcosa dalla divinità, riguardi essa la salute, la ricchezza, il successo in campo sentimentale. È probabile che il motore principale della preghiera sia una richiesta di esaudimento di un desiderio: gli esseri umani vogliono dai loro enti supremi qualcosa che non sono in grado di procurarsi con le proprie sole forze.

Da un punto di vista non religioso, tuttavia, se non esplicitamente ateo, la preghiera può essere vista come una forma di monologo attraverso cui il credente inganna se stesso, illudendosi di comunicare con un “altro” che non esiste. Attraverso questo monologo, il fedele esprime le sue preoccupazioni e i suoi desideri; preoccupazioni e desideri che forse non sarebbe in grado di rivelare nemmeno a se stesso, ma che emergono dall’illusorio contatto con la divinità.

Da questa prospettiva, la preghiera, anche se non genera alcuna reale comunicazione, visto che uno degli interlocutori è assente, consente una sorta di catarsi emotiva e forse un rafforzamento della propria volontà. Agire e comunicare “come se” dall’altra parte ci fosse qualcuno può sortire i medesimi effetti di un’azione e una comunicazione reali, come la psicologia insegna da tempo.

La preghiera, allora, è una delle modalità culturalmente riconosciute e legittimate di parlare con se stessi. Sebbene le comunicazioni autodirette siano mal viste nella nostra società e additate immediatamente a sintomo di malattia psichica, la preghiera è una delle poche forme comunicative che consente di dialogare con il proprio io senza ricevere alcuno stigma morale o medico.

Stranamente, però, se un credente rivelasse ad altri di aver ricevuto una risposta dal proprio dio, coloro che lo circondano potrebbero alzare più di un sopracciglio pensoso. Come afferma una vecchia battuta in lingua inglese: “If you talk to God this is prayer, but if he talks back it is schizophrenia”, “Se parli con dio, si chiama preghiera; se lui ti risponde, si chiama schizofrenia”.

L’accusa di malattia mentale è, dunque, sempre dietro l’angolo. Anche in circostanze culturalmente accreditate, uscire dallo spazio rituale che la cultura ritaglia per noi può suscitare accuse di cattiva salute mentale con inevitabili conseguenze in termini di stigmatizzazione sociale.

È per questo motivo che ci è permesso di parlare con dio, ma non di avviare un “vero” dialogo con lui/lei. L’altro assente può sentirci, ma non replicare apertamente.

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Avete notato l’effetto Baader-Meinhof?

In un post precedente ho già accennato, al cosiddetto “effetto Baader-Meinhof”, detto anche “illusione di frequenza”. L’effetto Baader-Meinhof è il fenomeno in base a cui se notiamo un determinato evento, prodotto o oggetto per la prima volta, tendiamo a notarlo in seguito con maggiore frequenza, cadendo nell’illusione di credere che esso sia presente più spesso di quanto non sia o che addirittura, in casi estremi, il mondo “cospiri” affinché notiamo determinati eventi, prodotti o oggetti. In altre parole, essere improvvisamente consapevoli di qualcosa crea la falsa idea che quel qualcosa occorra più spesso.

Il fenomeno prende nome dal gruppo terroristico che tenne sotto scatto la Germania negli anni Settanta del XX secolo. Sembra che un tale Terry Mullen nel 1994 abbia scritto una lettera a un giornale in cui affermava di essersi imbattuto più volte nel nome  del gruppo Baader-Meinhof dopo averne sentito parlare causalmente una prima volta.

Esempi di tale effetto sono quando si decide di acquistare un prodotto e improvvisamente scorgiamo quel prodotto tutto intorno a noi oppure quando, afflitti da una patologia, cominciamo a notare un numero crescente di articoli medici su quella patologia.

Secondo lo studioso Arnold Zwicky, che ha coniato il termine “illusione di frequenza” nel 2006, questo fenomeno coinvolge due bias cognitivi: l’attenzione selettiva (prestiamo attenzione solo a un determinato oggetto fra tanti) e la tendenza alla conferma (una volta che la nostra attenzione è selettivamente focalizzata su un oggetto, raccogliamo conferme continue dell’esistenza di quell’oggetto).

L’illusione di frequenza ha una sua ricaduta criminologica. Se siamo colpiti dalle scorribande di una banda di immigrati nel nostro quartiere, tenderemo a rinvenire in ogni immigrato del nostro quartiere un potenziale delinquente o ad accumulare continue testimonianze di pericoli provocati dalla banda. Se leggiamo un articolo sulla criminalità minorile, potremo rinvenire in ogni gruppo di adolescenti in cui ci imbattiamo una potenziale fonte di rischio per la nostra incolumità.

Naturalmente, l’effetto Baader-Meinhof può essere appositamente “coltivato” dai media che tenderanno a conferire maggiore visibilità ai fenomeni che maggiormente catturano l’attenzione, inducendo nello spettatore l’illusione che a maggiore visibilità corrisponda una maggiore frequenza. Anche il marketing può sfruttare l’effetto, convincendo il consumatore che un determinato prodotto sia davvero “sulla bocca di tutti”.

L’illusione di frequenza è un fenomeno realmente ubiquitario. E sono sicuro che, dopo aver letto questo post, lo noterete anche voi.

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La tortura è davvero efficace?

Siamo tutti d’accordo nel sostenere che la tortura – intesa come pratica che consiste nell’infliggere deliberatamente a un individuo dolore e sofferenza fisica e psichica, allo scopo di ricavarne informazioni – sia moralmente sbagliata e inumana e che andrebbe abolita per sempre. Ma è efficace?

Interrogate su questo punto, alcune persone risponderebbero probabilmente di sì. Per i più, il dolore e le sofferenze inflitte sarebbero talmente forti che la vittima non potrebbe non crollare, rivelando qualsiasi informazione. Al limite, il problema sarebbe che il torturato potrebbe dire anche cose non vere pur di non ricevere più dolore, ma, nell’immaginario collettivo, la tortura, tranne che in pochi casi di persone estremamente eroiche e resistenti, costituirebbe un prezioso strumento per “elicitare” le risposte desiderate.

In realtà, questo assunto è profondamente sbagliato. In un breve, interessante articolo del 2007, intitolato “Erroneous Assumptions: Popular Belief in the Effectiveness of Torture Interrogation”, la ricercatrice Ronnie Janoff-Bulman ha individuato quattro complicazioni che minano l’affidabilità della tortura come metodo per recuperare informazioni attendibili.

La prima di queste – quella più ovvia – è che i torturati possono compromettere gli scopi della tortura, riferendo informazioni sbagliate, ingannevoli e menzogne a tutto scapito dell’accuratezza che dovrebbe essere il principale, se non l’unico, obiettivo del torturatore. A dispetto di quanto si ritiene, dunque, la tortura non favorisce necessariamente la produzione di informazioni veritiere e affidabili.

Un secondo fattore può essere riassunto nella credenza erronea secondo cui «informazioni provenienti da nemici crudeli, malvagi e duri possono essere ricavate solamente attraverso tecniche altrettanto crudeli, malvagie e dure». Altri metodi più soft, basati su modelli della psicologia sociale, sembrano invece più utili agli scopi degli interroganti, come dimostrato in numerosi casi.

Una terza complicazione è che si tende a sottovalutare il fatto che, attribuendo un significato importante al dolore o dissociando il dolore dalla coscienza, il torturato può opporre una resistenza maggiore di quanto non siamo disposti a ritenere e rendere del tutto inutile l’inflizione del dolore. Le persone sottovalutano sistematicamente la capacità di resistenza degli individui sottoposti a tortura, quando questi dedicano la propria vita a una causa per essi vitale e importante.

Il quarto e ultimo fattore è che le persone tendono a credere che il successo di un’azione di tortura sia misurabile da quanto dolore infliggiamo al nemico, piuttosto che da quante informazioni veritiere possiamo ricavare da questi. In altre parole, tendiamo a confondere gli scopi della tortura, che non vediamo più come uno strumento per ottenere informazioni, ma come un metodo per vendicarci e infliggere dolore fine a se stesso.

La tortura non è solo immorale e crudele: è anche inutile. Come riferisce Jason-Bulman, «qualcuno potrebbe sostenere che, dal momento che viene adoperata, la tortura debba funzionare; tuttavia, sembra probabile che una ragione per cui la tortura viene adoperata è perché si pensa che essa funzioni».

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Critica del senno di poi

 “Del senno di poi sono piene le fosse”, recita il proverbio. Ma il senno di poi è anche un potente fattore di distorsione cognitiva che ci induce a credere nella maggiore probabilità o addirittura inevitabilità dell’accadimento di un evento, per il semplice fatto che esso è accaduto.

Un esempio piuttosto comune di fallacia del senno di poi si ha quando si giudica in chiave finalistica o teleologica l’evoluzione della vita e si traggono conclusioni sull’esistenza di Dio da un esame retrospettivo di quanto avvenuto in tanti anni di storia della Terra.

Ne parla magistralmente il filosofo Telmo Pievani in un suo sapido libricino intitolato Imperfezione. Una storia naturale.

Il nostro piccolo pianeta, afferma Pievani,

non ha proprio nulla di speciale. Siamo a 27.000 anni luce dal centro di una normale galassia a spirale, la Via Lattea, in mezzo a uno dei suoi bracci periferici, lo sperone di Orione. Con i suoi almeno 100 miliardi di stelle, la nostra galassia fa parte di un ammasso modesto di 50 galassie noto come Gruppo Locale, a sua volta uno dei cento che compongono il super-ammasso della Vergine, ed entrerà in collisione con la galassia di Andromeda tra circa 400 milioni di anni. La nostra banale regione è però sufficientemente vecchia (10 miliardi di anni) perché molte stelle di prima generazione hanno avuto il tempo esaurirsi e di esplodere in supernove diffondendo un ricco menù di elementi pesanti nel circondario, il che è quello che conta per noi. Una contingenza locale favorevole, figlia della sequenza precedente di punti critici (Pievani, T., 2019, Imperfezione. Una storia naturale, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 18-19).

Continua Pievani:

Bisogna mettere insieme una combinazione davvero fortunata di condizioni fisiche per mantenere da tre miliardi di anni una temperatura confortevole sulla superficie di una roccia vagante in questo cosmo gelido. Il caso inoltre ha voluto che il Sole ruoti alla velocità giusta, che il suo campo magnetico non sia troppo forte e che nel suo nucleo, alla nascita, vi fosse una quantità di combustibile (idrogeno) sufficiente per circa dieci miliardi di anni. È proprio la stella giusta al posto giusto, dentro la nube giusta.

Sicuri? Questa idea di “giustezza”, cioè avere né troppo né troppo poco di tutto quanto è necessario, può trarre in inganno la nostra mente. Si tratta infatti di un giudizio a posteriori, perché adesso noi siamo qui, sulla Terra, ad ammirare colmi di stupore il cielo stellato e a ricostruire per via scientifica la storia dell’universo. Ma il senno di poi è il peggior nemico per la comprensione dell’evoluzione, perché tende a sottostimare tutti gli innumerevoli esiti alternativi che sarebbero stati possibili a partire dalle stesse condizioni. Il senno di poi fa apparire necessario e compiuto, cioè perfetto, ciò che non lo è per nulla. Ci induce persino a rovesciare la realtà.

Guardando a ritroso una storia contingente, la nostra mente infatti è portata a ragionare nei termini fatalistici del destino e del disegno, selezionando alcuni eventi e non altri. Come se non ci fosse mai stata davvero scelta. Come se tutto fosse stato già scritto nelle carte distribuite all’inizio. Come se la necessità avesse tessuto da sempre la sua tela. Ma l’inevitabilità del risultato è un abbaglio consolatorio del senno di poi, che ci fa inanellare retrospettivamente le cause e gli effetti, il prima e il poi, le intenzioni e le conseguenze.

Il problema è che la nostra mente ci porta proprio a ragionare nel modo seguente: quante coincidenze, cosmiche e personali, si sono dovute realizzare affinché io sia qui in questo momento; ma allora non può essere il frutto del caso, era destino che accadesse. Molti studi sul nostro cervello confermano questa forte attitudine psicologica di Homo sapiens verso animismo e teleologia, cioè il pensare per finalità, il preferire narrazioni in cui agenti intenzionali esibiscono i loro scopi e cercano di raggiungerli. Di conseguenza ci piace, e ci viene più facile, pensare che l’evoluzione cosmica e biologica vada dall’imperfetto al perfetto, dal semplice al complesso, dall’inorganico alla materia che pensa.

Così fantasticando, rimuoviamo dalla nostra consapevolezza il potere dei punti critici, di quelle sottili imperfezioni e rotture di simmetria da cui dipende il corso degli eventi successivi. Se invece facessimo lo sforzo di comprendere l’evoluzione immedesimandoci nelle possibilità che c’erano in un dato momento storico – e poi guardando sia avanti sia indietro, ma sempre a partire dalle potenzialità di quel momento – allora si aprirebbero ai nostri occhi i molti contro-futuri (cioè i contro- presenti dell’oggi) di cui era gravido il passato nei suoi punti critici e nelle sue imperfezioni. Non vedremmo soltanto l’unico presente che si è realizzato, per poi giustificarlo come necessario, predeterminato, “naturale”, persino inevitabile, alla luce del passato, ma apprezzeremmo la bellezza di tutte le storie possibili che non si sono realizzate. I presenti possibili ma irrealizzati sono contingenti rispetto a (cioè causalmente dipendenti da) eventi del passato che non si sono verificati. Sono quelli che i filosofi chiamano controfattuali, versioni alternative e plausibili del passato in cui un cambiamento nelle biforcazioni critiche ha condotto a un esito diverso da quello che si è realizzato nella realtà (Pievani, T., 2019, Imperfezione. Una storia naturale, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 20-22).

Certo, la tendenza a pensare in maniera finalistica è attraente e rassicurante. Cosa c’è di meglio che credere che il nostro essere arrivati sino a qui sia frutto di un disegno concepito da un’entità superiore in grado di conferire senso alle nostre esistenze? È sicuramente allettante lascarci cullare dall’idea che siamo arrivati a questo punto per uno scopo preciso che ci trascende e che ci vedrà protagonisti indiscussi e meritevoli in una qualche forma di aldilà. La nostra vita avrebbe un significato profondo, testimoniato da millenni di storia che ci hanno condotti fino alla soglia presso cui ci troviamo qui e ora. O almeno così ci piace pensare. Si tratta, però, di un’illusione alimentata, fra l’altro, proprio dal senno di poi. Ex post, razionalizziamo ogni accadimento come se rispondesse a un obiettivo preordinato. Ma tale ordine è una nostra costruzione, fatta di percezioni e ricordi selettivi che compongono il quadro che ci piace vedere e la musica che ci piace ascoltare. Il tutto grazie (anche) alla fallacia del senno di poi.

Non a caso Pievani conclude in maniera perentoria: “Il senno di poi è un veleno. Liberiamocene, e anche il futuro ci sembrerà più aperto”. Non è facile, però. Pensare finalisticamente è una tentazione molto ardua da superare.

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Trovato il nuovo oppio dei popoli

Sparita la religione, tramontata la politica, fuori moda cocaina ed eroina, qual è il nuovo oppio dei popoli? La risposta è facile perché la nuova droga ci viene ammannita ogni giorno, più volte al giorno, in modi variabili.

Il cibo è il nuovo oppio dei popoli. Ma non il cibo di cui abbiamo bisogno per sopravvivere. Si tratta del culto del cibo, la nuova forma di venerazione a cui tutti sembriamo cedere in mancanza di un’idea forte, un’ideologia, una grande narrazione in grado di conferire senso alle nostre vite.

Il culto del cibo ha i suoi officianti (gli chef) convinti di detenere la verità assoluta e ritenuti infallibili come papi, anzi più dei papi. I pontefici, per dichiararsi infallibili, hanno dovuto inventare un dogma apposito. Gli chef non ne hanno bisogno perché dalle loro parole i fedeli pendono come vittime sacrificali. D’altronde, gli ultimi dogmi indiscutibili sono proprio quelli gelosamente custoditi dagli chef, che nessuno osa mettere in discussione anche se viviamo nell’epoca in cui tutto viene messo in discussione e niente è più sacro. Chi oserebbe contestare, ad esempio, che nella carbonara non va la pancetta? O che sulle vongole non va il formaggio? Provate a farlo. Vi ritroverete davanti sguardi atterriti e increduli come un tempo davanti a un miscredente che dichiarasse apertamente di essere un eretico.

Del resto, dinanzi al verbo degli chef scolpito nei loro immancabili ricettari – sorta di comandamenti divini da rispettare e seguire alla lettera, pena la scomunica della comunità a cui si appartiene – l’unico atteggiamento corretto possibile è l’obbedienza supina, se non si vuole passare per profanatori e devianti, e, come tali, essere respinti dalla società dei benpensanti.

Gli chef-dei dispongono naturalmente dei loro luoghi di culto, i ristoranti, dove le pietanze hanno lo stesso valore sacro dell’eucarestia e le recensioni hanno preso il posto delle lodi al signore o delle lamentazioni. Questi luoghi sono spesso addobbati con paramenti sacri di vario genere e sono costruiti in modo da creare una atmosfera cultuale che incute genuflessione e meraviglia.

Il culto del cibo prevede ovviamente rituali e liturgie speciali: il modo di disporre piatti e posate, di presentare il cibo e perfino di mangiarlo. Tutto in ossequioso contegno e secondo inviolabili principi di bon-ton, il cui sacrilegio garantirebbe lo stigma indelebile dello zoticone.

Infine, come detto, il culto del cibo ha anche i suoi testi sacri, i ricettari, sempre più prescrittivi e dotati di sacralità, con tanto di esegeti professionisti (su basi locali, regionali, nazionali e internazionali) sempre pronti ad ammannire le loro creazioni su piatti serviti su un letto di rucola.

Al nuovo culto non sappiamo rinunciare; né osiamo discutere la sua sacralità. È probabile che ci accompagnerà fino all’estrema unzione: all’ultimo spaghetti al pomodorino su cui renderemo l’anima satolli e narcotizzati.

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Giudici e “sentimento popolare”

L’opinione pubblica, veicolata e creata dai mass media, può incidere sull’operato dei giudici? Il “sentimento popolare” può indurre valutazioni di fatti giudiziari che potrebbero essere diverse, se la “gente” non avesse esercitato alcuna pressione sugli organi giudicanti? Negli ultimi anni, una serie di episodi ci porta a ritenere che la risposta debba essere senz’altro affermativa.

Nel 2010, la procura dell’Aquila formulò l’accusa di omicidio colposo a carico di alcuni membri della Commissione Grandi Rischi che, il 31 marzo 2009, 6 giorni prima del terremoto che devastò L’Aquila, avevano tenuto una riunione nel capoluogo abruzzese, diffondendo, secondo la procura stessa, ottimismo e false rassicurazioni anche attraverso i messaggi di tecnici e amministratori

In quell’occasione, il procuratore capo Alfredo Rossini commentò candidamente: «Si tratta di un filone molto importante, che è stato portato a conclusione in maniera che gli indagati possano portare avanti le loro difese con serenità e con tutto il tempo necessario. Speriamo di arrivare ad un risultato conforme a quello che la gente si aspetta. Questo è un lavoro serio».

Il dipartimento della Protezione Civile obiettò: «Davvero non si comprende quale sia l’obiettivo della magistratura aquilana. Non può infatti che auspicarsi che l’operato della magistratura inquirente non sia diretto, come invece afferma il procuratore capo, “ad un risultato conforme a ciò che la gente si aspetta”». E questo perché così facendo «si arriverebbe all’assurdo che la giustizia non persegue l’applicazione delle norme ma gli umori e i desideri di una parte della popolazione, seppur colpita da lutti e sofferenze enormi».

Nel 2012, il “sentimento popolare”, ciò che la “gente si aspetta”, determinò la condanna di sette persone a vari anni di carcere per omicidio colposo, per avere causato la morte di alcune delle persone rimaste uccise durante il terremoto del 2009. Pena poi annullata per tutti gli imputati, tranne uno, dalla Corte di Appello prima e dalla Corte di Cassazione poi (Simonetti, L., 2018, La scienza in tribunale. Dai vaccini agli Ogm, da Di Bella al Terremoto dell’Aquila: una storia italiana di orrori legali e giudiziari, Fandango, Roma, p. 14).

L’episodio di L’Aquila non è l’unico caso in cui il “sentimento popolare” ha influenzato i giudici in maniera decisiva e dichiarata.

Nel 2006, nella sentenza della CAF (Commissione di Appello federale) della FIGC che condannò la Juventus alla retrocessione in Serie B con 17 punti di penalizzazione, la revoca dello scudetto 2004-2005, la non assegnazione dello scudetto 2005-2006, 120.000 euro di multa e tre giornate di squalifica del proprio campo, il “sentimento popolare” la fece da padrone. Nel dispositivo della CAF, era dato leggere che «nella valutazione del materiale probatorio la Commissione si limiterà ad indicare quegli elementi di sicura valenza, che non si prestano ad interpretazioni equivoche, perché già solo dall’analisi di taluni fatti incontrovertibili emerge a chiare lettere ciò che era nella opinione di tutti coloro che gravitavano nel mondo del calcio» (pag. 79).

Sempre a proposito di Calciopoli, come fu definita la vicenda giudiziaria che portò alla retrocessione della Juventus in serie B, Mario Serio, uno dei cinque membri della Corte Federale, in data 28 luglio 2006, dichiarò a «La Repubblica»: «Abbiamo cercato di interpretare un sentimento collettivo, abbiamo ascoltato la gente comune e provato a metterci sulla lunghezza d’onda». Ancora una volta, l’opinione pubblica, intesa come un moloch che decide da che parte vira la giustizia, come se questa non fosse regolata dai fatti, ma dall’umore della piazza.

Sembra di andare indietro nel tempo, nel XVII secolo, alla Storia della colonna infame di manzoniana memoria in cui, a causa di una “donnicciola” che si trovava “per disgrazia” alla finestra, alcuni uomini furono condannati in quanto “untori” della peste, finendo poi torturati e uccisi per volere di alcuni magistrati, molto sensibili al “sentimento popolare”. Vox populi, vox dei.

Solo che la giustizia non dovrebbe dipendere dall’umore popolare, ma da un’attenta e imparziale analisi dei fatti, corroborata da ogni possibile mezzo di prova, criticamente esaminato. Il fatto sconvolgente è che giudici e magistrati non hanno remore nel dichiarare in pubblico la loro subalternità al volere della gente, la loro genuflessione all’irrazionalità della folla, portata a giudicare i fatti più di pancia che di testa. Insomma, una temperie medievale inquietante, riconosciuta e conclamata, che non può non condurre dritto filato all’arbitrio più assoluto.

Ma il nostro non doveva essere il secolo della razionalità sovrana? Evidentemente no.

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La teoria dell’agenda-setting in uno dei suoi studi più rappresentativi

Come è possibile conoscere la realtà che ci circonda? Come possiamo sapere con sicurezza che ciò che accade intorno a noi si verifica esattamente così come sembra che si verifichi? D’altra parte, pochissimo di quanto conosciamo è tale perché ne facciamo esperienza in prima persona. Soprattutto nella nostra società ipercomplessa, in cui ogni sapere è frammentato e spacchettato in mille specializzazioni e diventa rapidamente obsoleto in virtù dell’incalzare di forme di conoscenza sempre più nuove e pretenziose, avere certezza dell’affidabilità e della bontà delle proprie fonti di conoscenza è un compito decisivo, ancorché per niente semplice.

Gli uomini agiscono in conseguenza di ciò che ritengono reale. E ciò che essi ritengono reale non è detto che sia tale. Ciò è dovuto al fatto che è

andata crescendo nelle società industriali a capitalismo maturo, a causa sia della differenziazione e complessificazione sociale, sia anche del ruolo centrale dei mass media, la presenza di fette e “pacchetti” di realtà che i soggetti non esperiscono direttamente né definiscono interattivamente a livello di vita quotidiana, ma che “vivono” esclusivamente in funzione di o attraverso la mediazione simbolica dei mezzi di comunicazione di massa.  

Dipendiamo, dunque, da altri mezzi – i cosiddetti mezzi di comunicazione di massa o mass media – per avere un’idea del mondo. Anzi

minore è l’esperienza diretta che la gente ha di una determinata area tematica, più essa dipenderà dai media per avere le informazioni e i quadri interpretativi relativi a quell’area. La gente non ha bisogno dei mass media per avere esperienza dell’aumento dei prezzi. Queste condizioni, quando esistono, invadono la vita quotidiana delle persone.

Diventa, allora, indispensabile l’opera di mediazione dei mass media che ci consentono di conoscere la realtà o, più esattamente, la-realtà–così-come-essi-la-producono, fatto che non può non avere conseguenze sul modo in cui esperiamo questa realtà mediata.

La teoria dell’agenda-setting prende spunto proprio da queste riflessioni sulla forma e il contenuto della conoscenza nella nostra società per elaborare il proprio nucleo ipotetico fondante che possiamo sintetizzare con il seguente brano:

In conseguenza dell’azione dei giornali, della televisione e degli altri mezzi d’informazione, il pubblico è consapevole o ignora, dà attenzione oppure trascura, enfatizza o tralascia, elementi specifici degli scenari pubblici. La gente tende ad includere o escludere dalle proprie conoscenze ciò che i media includono o escludono dal proprio contenuto. Il pubblico, inoltre, tende ad assegnare a ciò che esso include un’importanza che riflette da vicino l’enfasi attribuita dai mass media agli eventi, ai problemi, alle persone.

Della teoria dell’agenda-setting ho tradotto uno dei testi più rappresentativi: quell’“Agenda-Setting and Mass Communication Theory” di Eugene F. Shaw, che, dal 1979, anno della sua pubblicazione, continua ad essere stracitato da chiunque si occupi di massmediologia e che è opportuno far conoscere al lettore italiano, anche per la sua estrema attualità. Qui la traduzione dell’articolo con una mia introduzione che riprende, in maniera accademicamente più rispettosa, le citazioni presentate in questo post.

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