L’effetto “centro del bersaglio in espansione”

Ossessionati e allarmati dal cambiamento climatico e i suoi effetti, accogliamo con sgomento le ricorrenti notizie su uragani, alluvioni e inondazioni che sembrano colpire il pianeta con ferocia inusitata. In particolare, siamo terrorizzati quando telegiornali e quotidiani ci dicono che gli effetti di tali fenomeni climatici sono sempre più negativi e provocano danni, sociali, economici e in termini di vite umane, sempre più elevati.

Pensiamo ai danni causati dai famigerati uragani che, periodicamente, affliggono le coste della Florida o le tremende alluvioni che hanno devastato, anche di recente, l’Emilia-Romagna.

Di fronte a tali catastrofi, la tentazione di collegare eventi avversi “estremi” e cambiamento climatico è fortissima. Anzi, nei mass media e nell’immaginario collettivo, il collegamento è dato per scontato tanto che, a ogni nuova alluvione, viene chiamata in causa la “verità” di tale collegamento.

Eppure, questa idea – ci dice Bjørn Lomborg, ricercatore danese da anni dedito a smontare gli allarmismi in fatto di ambiente – è fondamentalmente errata. Scrive Lomborg:

La realtà è che questi eventi meteorologici, sia per numero che per gravità, sono rimasti invariati o addirittura sono diminuiti nel corso dell’ultimo secolo […]. Tuttavia, il costo di questi eventi sta diventando molto più elevato, ma per ragioni che ben poco hanno a che vedere con il clima. Se un uragano o un’alluvione avessero colpito la Florida scarsamente popolata del 1900, avrebbero provocato danni relativamente modesti. Da allora, però, la popolazione costiera di questo Stato è cresciuta di sessantasette volte. Pertanto, un uragano o un’alluvione di forza simile che colpisse la Florida ricca e densamente popolata del 2020 causerebbe danni nettamente maggiori. Il costo più elevato non è dovuto quindi al fatto che gli uragani siano cambiati, ma al fatto che a mutare è la società.

Questo fenomeno è noto in letteratura con il nome di expanding bull’s-eye effect (‘effetto centro del bersaglio in espansione’) e consiste, appunto, nel fatto che impatti climatici simili provocano danni diversi in ragione del numero di persone coinvolte e dei beni colpiti. Dal momento che, nei decenni, determinate regioni sono divenute sempre più popolose e sono aumentati gli “oggetti” (case, uffici, scuole ecc.) in esse presenti, eventi climatici simili producono danni sempre più ingenti a persone e cose.

Come detto, ciò viene solitamente interpretato dai media e dal senso comune (che è spesso foraggiato dagli stessi media) come una maggiore pericolosità dei fenomeni climatici attuali, mentre la “colpa” risiede nella diversa configurazione sociale delle zone colpite.

Dice ancora Lomborg: L’effetto centro del bersaglio in espansione

può essere immaginato un po’ come un bersaglio per il tiro con l’arco, i cui anelli (che rappresentano la densità di popolazione) ci dicono quante persone e beni rischiano di essere colpiti da una freccia immaginaria, ossia da un disastro naturale […]. Con il tempo, questi anelli si allargano: ciò significa che diventa sempre più probabile che una freccia riesca a colpire il bersaglio, ovvero aumentano i rischi di una catastrofe enorme.

Ciò significa che, nel futuro, potrebbero verificarsi disastri dalle conseguenze rovinose, non per l’azione diabolica di effetti climatici inusitati, ma per le trasformazioni a cui vanno incontro le società umane. Questa osservazione dello studioso danese contribuisce a ridurre di molto l’allarmismo catastrofistico di molti ecologisti contemporanei che, anche grazie alla complicità dei media e all’attualità dei temi ambientali, promuovono profezie calamitose sulla fine del pianeta, destinato, a loro avviso, a implodere in tempi brevi sotto l’azione di fattori ambientali apparentemente inarrestabili.

Lomborg non ha dubbi sul fatto che sia in atto un cambiamento climatico e che l’umanità contribuisca a questo stato di cose. Non è un negazionista. Ritiene però che non sia giustificato l’allarmismo che circonda il tema, anche se viviamo in un’epoca governata dalla paura per ciò che ci attende nell’avvenire; paura sovente alimentata da interessi politici che traggono profitto da una enfatizzazione degli scenari tragici causati dal clima.

Il profetismo apocalittico è un tema che accompagna da sempre i movimenti ecologisti, ma è profondamente sbagliato. Si può dire che esso costituisce un problema al pari degli effetti nefasti del cambiamento climatico.

I problemi dell’ambiente sono troppo importanti perché siano rivestiti sempre con gli stracci sporchi degli oracoli della “casa che brucia”.  L’effetto “centro del bersaglio in espansione” contestualizza i fenomeni climatici estremi, comprimendone la portata allarmistica.

Credo che, anche riguardo al clima, sia necessario lo sguardo dello scettico. Non perché i cambiamenti climatici non siano veri, ma affinché siano colti nella loro corretta proporzione.

Fonte: Lomborg, B., 2024, Falso allarme. Perché il catastrofismo climatico ci rende più poveri e non aiuta il pianeta, Fazi Editore, Roma, pp. 58-60.

Pubblicato in Sociologia | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

La paradossale psicologia del rischio

caution sign on urban street with pedestrians

Gli esseri umani hanno uno strano rapporto con il rischio. Da un lato, hanno la tendenza a sottostimare i rischi rilevanti e a sovrastimare quelli minori. Ad esempio, sottostimano il rischio di morire per un infarto e sopravvalutano il rischio di morire in un incidente aereo. Dall’altro, i mezzi di comunicazione di massa danno visibilità ai rischi che più attraggono l’attenzione del pubblico in virtù della loro spettacolarità e trascurano quelli più ordinari. Il problema è che i rischi più sensazionalistici sono spesso meno frequenti e, quindi, meno “rischiosi”.

Ciò che ne consegue è una miscela dalle conseguenze potenzialmente disastrose. Poiché i mass media danno risalto ad alcuni rischi a scapito di altri, il pubblico tende a pensare che i rischi presentati in televisione o nei giornali siano anche quelli più frequenti. In questo modo, confondono visibilità con frequenza. Ma ciò non è tutto. Le persone tenderanno anche a pensare che i rischi più spettacolari siano anche quelli più temibili, rovesciando spesso l’ordine di pericolosità degli stessi.

Ad esempio, i mezzi di informazione prediligono omicidi, tragedie e incidenti improvvisi, ma le persone muoiono mille volte di più in seguito a normali malattie, anche se nei giornali gli omicidi sono tre volte più citati. Così, sopravvalutiamo i rischi di cui parlano giornali e televisioni e sottovalutiamo quelli che vengono trascurati dai mezzi di informazione.

Allo stesso modo, le persone sono convinte di essere quasi del tutto immuni ai grandi rischi come il cancro causato dal fumo, il diabete o e gli infarti, ma, grazie all’azione dei mass media, valutano eccessivamente le cause di morte più drammatiche, come gli incidenti e gli uragani.

Per colmo dei fatti, nel momento in cui si comincia a pensare ai piccoli rischi, questi diventano grandi per il semplice motivo che sono presi in considerazione. «Si pensi alla familiare sensazione che ci coglie talvolta a bordo di un aeroplano: non appena ci chiediamo «che cos’era quel rumore?», la sensazione di rischio è già diventata molto più grande, e l’immaginazione già ci mostra un pilota disperato in una cabina piena di fumo».

Infine, diversi «studi hanno dimostrato che le persone sono spesso disposte ad accettare un rischio anche 1000 volte superiore purché sia un atto che deriva dalla loro volontà. L’ovvio esempio è rappresentato dall’individuo che sceglie di dedicarsi al paracadutismo acrobatico, ma che si indigna di fronte al rischio molto inferiore rappresentato dai pesticidi o dai conservanti negli alimenti, rischi che sono considerati inevitabili e quindi indipendenti dalla sua volontà» (Lomborg, B., 2003, L’ambientalista scettico. Non è vero che la terra è in pericolo, Mondadori, Milano, pp. 342-344).

Insomma, la nostra psicologia tende a confondere rischi reali con rischi presunti, rischi grandi con rischi minimi, rischi importanti con rischi trascurabili. E tutto questo grazie all’azione distorcente dei media che configurano una visione obliqua del mondo e delle cose che ci circondano.

Un vero pasticcio da cui ci si può districare solo facendo molta, molta attenzione e usando una buona dose di senso critico.

Pubblicato in psicologia | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

Sulle preghiere urgenti

Qualche giorno fa, BUTAC, il sito del debunker Michelangelo Coltelli, ha scritto sulla diffusione in rete di richieste di (finte) preghiere urgenti di intercessione a favore di destinatari di volta in volta mutevoli.

L’occasione è stata la segnalazione di una preghiera che sarebbe stata sollecitata dalle monache di clausura benedettine di Ghiffa, comune della provincia del Verbano-Cusio-Ossola, e il cui contenuto è il seguente:

Richiesta di preghiere urgente: per una coppia, si chiamano Daniele e Cristina.
Daniele facendo retromarcia ha investito la figlia di 2 anni, che è morta.
La madre vuole suicidarsi e lui è impazzito.
Grazie per le vostre preghiere. Dio vi benedica
Per favore rivolgetevi ai gruppi dei Consacrati, degli Adoratori e di tutti gli Intercessori.
Che Dio vi ricompensi

Annamaria De Santis

Lo stesso BUTAC osserva che le monache benedettine hanno smentito di avere mai richiesto preghiere del genere e conclude che «la diffusione di messaggi falsi come questo alcune volte serve per testare la velocità con cui uno specifico testo può viaggiare sui social network basandosi sul “passaparola digitale”; studi di questo genere vengono portati avanti sia da ricercatori interessati al fenomeno della disinformazione sia da truffatori che cercano nuovi spazi dove andare a caccia di potenziali vittime».

Tutto ciò è ovviamente vero, ma, a mio avviso, i motivi per cui questo genere di richieste ha un suo seguito, social e non solo, sono anche altri.

Pregare insieme ci fa sentire parte di una collettività di persone, che non sono più individui, ma un gruppo con una finalità comune e il medesimo “strumento” per raggiungere quella finalità. La preghiera collettiva costituisce un rito che crea effervescenza, appartenenza e senso di comunanza. Ciò avviene anche se la preghiera collettiva non avviene in presenza.

Pregare insieme rende la preghiera più forte e la dota di un’efficacia che la preghiera individuale non ha. Questa convinzione è, ad esempio, alla base della credenza secondo cui il rosario comunitario è più efficace di quello individuale. L’unione fa la forza, si potrebbe dire, anche se chi prega con noi non è visibile in quanto collegato solo in maniera virtuale.

Ancora, c’è l’idea che, attraverso la parola, si possa raggiungere uno scopo concreto, cosa che rimanda al pensiero magico-superstizioso secondo cui nominare il mondo ha un effetto su di esso. Alla base della credenza nella forza della preghiera è la credenza millenaria che le parole di chi prega abbiano un effetto “materiale” sull’ambiente circostante, sia direttamente, attraverso l’azione propria delle parole sul mondo, sia indirettamente, attraverso la “convocazione” della divinità che interviene per produrre l’effetto per il quale è stata invocata.

Infine, agisce subdolamente la credenza nell’efficacia intercessoria della preghiera. Poiché intercedere significa pregare per altri e, quindi, per un obiettivo altruistico, si crede che la preghiera “per altri” sia più efficace di quella egoistica (“Pregate per la mia salute!”), come se i maggiori meriti morali dell’altruismo disinteressato rispetto all’egoismo interessato garantissero automaticamente la maggiore potenza della preghiera intercessoria rispetto a quella per la propria salvaguardia.

È per questi motivi (ma anche per altri) che impazzano, anche al di fuori dei social, le richieste di preghiere. Lo fa il papa, lo fanno le “veggenti” di Medjugorie, lo fa il sacerdote durante la messa domenicale, lo fanno i frequentatori dei social.

“Pregate, pregate, pregate” è la litania che da tempo immemore ci sentiamo ripetere in continuazione dalle autorità religiose. La preghiera dovrebbe essere una forma di comunicazione con la divinità. In realtà, sembra assolvere più che altro a umani, troppo umani bisogni psicologici e sociali.

Per saperne di più sulle funzioni psicologiche e sociali della preghiera e, in particolare, del rosario, rimando al mio ultimo libro La Sacra Corona. Storia, sociologia e psicologia del rosario.

Buona lettura.

Pubblicato in religione | Contrassegnato , , | Lascia un commento

Una sottile forma di ignoranza

Dovremmo probabilmente abbandonare l’idea ingenua che l’ignoranza sia semplicemente una mancanza di conoscenza che si ripercuote negativamente su chi “ignora”, ovvero non sa.

Talvolta, l’ignoranza può essere abilmente brandita come un’arma per trarre un qualche tipo di vantaggio dalla situazione.

È il caso della weaponized incompetence (“incompetenza come arma”, appunto), un termine che circola in rete da qualche tempo, ma la cui origine sembra risalire a un articolo sul «Wall Street Journal» del giornalista Jared Samberg, il quale, nel 2007, coniò il termine “incompetenza strategica” (strategic incompetence) per descrivere quelle situazioni in cui si finge di non saper fare qualcosa per farla fare ad altri. Da allora, altri termini simili sono entrati nel lessico per designare lo stesso fenomeno: “incompetenza malevola” (malicious incompetence), “ignoranza strategica” (strategic ignorance) e altri ancora.

Sono diversi gli scenari in cui viene applicata la weaponized incompetence. Si va da chi affibbia al collega la preparazione di un PowerPoint “perché di informatica non ne capisco niente”, al marito che chiede alla moglie di lavare il pavimento “perché voi donne, queste cose le sapete fare meglio”, all’amico a cui chiediamo l’ennesimo favore “perché sei tanto bravo in queste cose”.

Si noti che, in tutti questi casi, ci si pone in maniera fintamente umile di fronte al collega/moglie/amico – posizione one down – per ottenere un vantaggio. L’altro/altra si sentirà gratificato/gratificata per il riconoscimento accordato alla propria competenza e svolgerà il compito senza spesso nemmeno sospettare di aver subito una manipolazione psicologica.

A rigore, è doveroso segnalare che l’incompetenza può essere reale in qualche caso, come simulata in altri. Anche nell’eventualità che sia reale, tuttavia, nulla vieta all’“inetto” di acquisire la competenza che tende ad assegnare agli altri se non la volontà, consapevole o no, di continuare ad usufruire dei vantaggi derivanti dalla sua posizione one down. In italiano, potremmo anche dire: “Fare lo scemo per non andare in guerra”.

Il termine weaponized incompetence è particolarmente attuale nell’ambito dei rapporti di genere. È incredibile come, ancora oggi, molti maschi rifiutino di svolgere le faccende domestiche “perché le donne sanno farle meglio”, quasi che tali compiti fossero iscritti in un programma genetico codificato solo nel DNA femminile. È evidente la volontà di scaricare responsabilità, spesso gravose, sul partner per liberarsene, sfruttando lo stereotipo di genere che vuole che “certe cose” siano appannaggio delle donne.

Si tratta di pura e semplice manipolazione psicologica, contrabbandata come riconoscimento di competenze, a cui molti di noi sono sensibili, forse per mancanza di autostima. Dovremmo sempre essere consapevoli delle conseguenze psicologiche e sociali della weaponized incompetence, arma relazionale spesso trascurata nell’ambito delle molteplici forme dei rapporti umani.

Per altre funzioni dell’ignoranza, rimando alla mia traduzione (preceduta da una corposa introduzione) di Alcune funzioni sociali dell’ignoranza di Moore e Tumin, vera e propria miniera d’oro di ciò che tutti dovremmo sapere sull’assenza di conoscenza.

Pubblicato in Sociologia | Contrassegnato , , , , | Lascia un commento

L’arroganza del potere senza status

Può la maleducazione essere spiegata in termini sociologici? Ci sono ruoli sociali che favoriscono comportamenti arroganti? O la maleducazione è una caratteristica che riguarda esclusivamente la singola personalità?

Un interessante articolo di Nathanael J. Fast, Nir Halevy e Adam D. Galinsky (2012) suggerisce che ruoli di potere, in cui cioè si ha diritto a esercitare un certo livello di autorità, associati a un basso status, ossia uno scarso livello di rispetto e riconoscimento, possono generare comportamenti irriguardosi e di disprezzo nei confronti degli altri.

Potere vuol dire esercitare un qualche tipo di controllo – spiegano i tre autori – mentre lo status si riferisce all’ammirazione e al rispetto associati al potere. Quando manca lo status, si tende a non sentirsi rispettati e ad agire negativamente.

La mancanza di status, per definizione, fa sentire le persone prive di rispetto e poco apprezzate, il che può innescare comportamenti compensatori aggressivi volti ad aumentare l’autostima. Il potere è anche collegato a tendenze degradanti e aggressive: più potere si ha, più aumentano i comportamenti degradanti. Il potere aumenta la tendenza a denigrare o comunque danneggiare gli altri.

Il potere promuove un comportamento egoistico, favorisce la sensazione di essere privilegiati e il perseguimento di ricompense e obiettivi. Al contrario, gli individui senza potere si sentono inibiti.

Date queste premesse, la tesi dei tre autori è che gli individui che non possiedono status ma possiedono potere, per quanto limitato, possono agire in base al risentimento suscitato dal sentirsi non rispettati maltrattando gli altri. Vale a dire, gli effetti di facilitazione dell’azione derivanti dal possesso di potere si associano all’esperienza minacciosa della mancanza di status e ciò fa sì che i detentori di potere con basso status siano particolarmente propensi a umiliare gli altri.

Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: la guardia di sicurezza all’aeroporto che sbraita ordini ai viaggiatori, l’impiegato del Comune che rimprovera aspramente il cittadino confuso per essere entrato nell’ufficio sbagliato, lo steward dell’evento sportivo che si rivolge in maniera rude agli spettatori, il vigilante del grande centro commerciale che indispettisce i clienti con i suoi modi prepotenti.

L’esempio più clamoroso riguarda probabilmente le estreme violazioni dei diritti umani che si verificarono dopo il marzo 2003 nella prigione di Abu Ghraib, in Iraq, allorché soldati statunitensi di basso rango che si sentivano poco rispettati perfino dai prigionieri si abbandonarono a torture disumane di decine di essi, dando vita a uno degli episodi di crudeltà da parte di militari più scandalosi che la storia ricordi.

Il messaggio di Fast, Halevy e Galinsky sembra chiaro: se il potere è da temere, ancora più temibile è il potere senza status. Il soldato di infimo rango incute più sgomento dell’alto comandante, l’operatore socioassistenziale può essere più arrogante del primario dell’ospedale, il collaboratore scolastico più impertinente del dirigente scolastico, la guardia carceraria più pericolosa del direttore dell’istituto penitenziario.

L’esperienza di tutti i giorni conferma questa possibilità, sebbene il potere assoluto sia in grado di alterare la psicologia umana fino a pervertirla in maniera disgustosa.

Riferimento:

Nathanael J. Fast, Nir Halevy, Adam D. Galinsky, 2012, “The destructive nature of power without status”, Journal of Experimental Social Psychology, vol. 48, pp. 391–394.

Pubblicato in Sociologia, Turpiloquio | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

Pareidolia e profezia che si autoavvera in Eduardo

Essendomi occupato di pareidolia e profezia che si autoavvera, sono molto sensibile alla presenza di questi due fenomeni nella vita come nella letteratura.

È notevole il numero di scrittori, poeti, drammaturghi che, seppure inconsapevolmente, ospitano pareidolia e profezia che si autoavvera nelle loro opere. Tra questi potremmo citare William Shakespeare, Denis Diderot, Edgar Allan Poe, Daniel Defoe e tanti altri.

Leggendo il libro di Fara Di Maio, Eduardo, l’occulto e la magia (CICAP, 2014), dedicato a esaminare la presenza di temi paranormali nell’opera del drammaturgo, attore e regista napoletano Eduardo De Filippo (1900-1984), mi sono imbattuto in un caso di pareidolia e in uno di profezia che si autoavvera nella stessa commedia Non ti pago del 1940.

Come è noto le commedie di Eduardo hanno spesso per protagonisti personaggi che, in un modo o nell’altro, hanno a che fare con la magia e il soprannaturale. Basti ricordare Sik Sik l’artefice magico (1929), Questi fantasmi! (1946), Le voci di dentro (1948).

È in Non ti pago, però, che troviamo riferimenti espliciti ai due temi a me cari.

Leggiamo la trama dell’opera come raccontata da Fara Di Maio:

Ferdinando Quagliuolo è il gestore di un banco lotto, appassionato del gioco ma eterno perdente. Il suo impiegato Mario Bertolini, invece, indovina spesso i numeri vincenti. Ferdinando detesta Bertolini, che invidia per la sua fortuna, e non sopporta che per di più la figlia Stella sia innamorata di lui che la vuole sposare. Un giorno il giovane annuncia di aver vinto addirittura una quaterna che, in sogno, gli ha dato proprio Saverio, il defunto padre di Ferdinando. Questi si impossessa del biglietto perché, a suo avviso, il padre ha semplicemente sbagliato persona: Bertolini infatti abita ora nell’appartamento precedentemente occupato dai Quagliuolo. Ferdinando decide di portare Bertolini in tribunale: suo padre buonanima gli farà da testimone! Dopo disquisizioni con il parroco e liti furiose in famiglia e nel condominio, accompagnate da un colpo di pistola, Quagliuolo cede il biglietto, ma lancia una maledizione di fronte al ritratto del defunto genitore: ogni volta che Bertolini tenterà di incassare la vincita, gli capiterà una disgrazia. Dopo una incredibile serie d’incidenti, Bertolini decide di rinunciare al biglietto. Soddisfatto, Ferdinando “ritira” la maledizione e lascia che Bertolini sposi Stella. La vincita rimane in famiglia (Fara Di Maio, 2014, Eduardo, l’occulto e la magia, CICAP, Padova, pp. 53-54).

Leggiamo ora il passo in cui è presente il tema della pareidolia:

Aglietiello – Gli ho portato i biglietti giocati. Stanotte ci sono state le visioni. Io e vostro marito siamo stati fino alle quattro del mattino seduti sui tetti. Stanotte il cielo era nuvoloso. E quando le nuvole incominciano a intrecciarsi tra di loro si formano una specie di quadri plastici: figure, teste, animali, alberi, montagne… E quando c’è la persona che conosce il trattato della composizione e della combinazione fumogena, fa la storia perfetta della volontà dei vivi e dei morti: ne caccia il così detto costrutto, e dal costrutto i numeri per i terni e le quaterne. … Era la voce di un passante in mezzo alla strada! Ferdinando! Ferdinando! era l’anima di don Saverio che si è servito del viandante per chiamare il figlio. È giusto? E io ho fatto i numeri (Fara Di Maio, 2014, Eduardo, l’occulto e la magia, CICAP, Padova, p. 55).

Qui, la pareidolia – il riconoscimento di teste, animali, alberi nelle forme delle nuvole – è strettamene associato a un genere preciso di mantica che pretende di ricavare dall’interpretazione pareidolica vaticini sul gioco del lotto. La pareidolia è stata spesso utilizzata a scopo divinatorio, in tempi e luoghi diversissimi tra loro. Non sorprende, dunque, che anche Eduardo, pur senza conoscerne il nome, ne abbia fatto uso nella sua opera, incastonando il fenomeno nell’orizzonte magico-religioso napoletano.

Un altro passo riguarda, come detto, la profezia che si autoavvera. Eccolo:

Strumillo – Per carità, io non voglio distruggere proprio niente. Se mai non credo a questa maledizione. Capisco benissimo che, nei confronti del mio cliente, gioca molto il fattore suggestione. Capirete, chillo è prevenuto, e appena se move fa nu guaio. E poi… pure perché, scusate, allora sarrìa bello! Ognuno se pò scetà na matina, dice ‘Tizio m’è antipatico’, lo maledice e lo distrugge… Addo simme arrivate? (Fara Di Maio, 2014, Eduardo, l’occulto e la magia, CICAP, Padova, p. 55).

In questo caso, uno dei personaggi, l’avvocato Strumillo, osserva che chi è convinto di essere vittima di una maledizione può agire, per suggestione, comportamenti maldestri che procurano danni concreti, i quali, a loro volta, fanno “avverare” l’iniziale maledizione, completando il ciclo classico della profezia che si autoavvera. È così che nascono e si perpetuano superstizioni e false credenze, le quali, credute vere, inducono nel soggetto sprovveduto condotte conformi a ciò in cui egli crede che, in ultima analisi, fanno avverare il contenuto della credenza.

In realtà, siamo noi – la nostra mente, la nostra personalità – ad attribuire significato compiuto a forme casuali o a mettere in atto comportamenti che fanno “avverare” le nostre paure e le nostre convinzioni. Siamo noi a conferire senso a fatti che ne sono di per sé privi, contribuendo a rafforzarli.

Siamo noi, in altre parole, a creare il mondo in cui viviamo per poi attribuirne la creazione a enti immaginari che chiamiamo con nomi disparati.

Pubblicato in pareidolia, profezia che si autoavvera | Contrassegnato , , , | Lascia un commento

“Non si è mai visto niente del genere!”

Potremmo parlare quasi di una legge di natura. Più si va avanti negli anni, più la probabilità di pronunciare una frase come questa – o una delle sue varianti – cresce fino ad aumentare in maniera esponenziale in vecchiaia.

Apparentemente, ci troviamo di fronte a una espressione innocua, banale, ordinaria. Una espressione che serve a esprimere sgomento, incredulità, sorpresa di fronte a un accadimento. Ma anche sconcerto, perplessità, timore, confusione, imbarazzo. Ciò che vuole dire è semplicemente che vediamo per la prima volta ciò che stiamo vedendo in quel momento. Nulla di più, apparentemente.

La pronunciamo quando siamo testimoni di atti di maleducazione “inaudita”, quando assistiamo in televisione al racconto di un crimine efferato o di una catastrofe naturale, quando siamo di fronte a una invenzione rivoluzionaria dagli effetti dirompenti sulla nostra esistenza, quando il marito della nostra migliore amica decide di abbandonarla dopo quaranta anni di matrimonio, quando un personaggio di spicco non si conforma alle norme sociali del momento.

Eppure, una frase come questa nasconde più di quanto dica. Il “si” impersonale ammicca a un “noi” generalizzato e molto personale. Lo sgomento, la sorpresa lo sconcerto, la confusione di chi parla sono lo sgomento, la sorpresa lo sconcerto, la confusione dell’umanità intera. Opportunamente riformulata, “Non si è mai visto niente del genere!” ambisce a significare “Nessuno – né io, né tu, né nessun altro – ha mai visto una cosa del genere in vita sua”. In questo modo, chi parla elegge sé stesso a misura del mondo e il suo ego, che pure gioca a nascondino con il “si” impersonale, sconfina, fagocitandoli, in quelli di tutti gli altri. Così facendo, giudica il mondo sulla base delle sue esperienze, relazioni, accadimenti. Ciò che il parlante non vede, nessuno ha mai visto; ciò che il parlante non sente, nessuno ha mai sentito. La maleducazione che offende i suoi valori offende i valori di tutti. Ciò che sorprende la sua sensibilità stupisce la sensibilità di tutti. La sua esperienza si tramuta nell’esperienza di tutti. Ne è prova il fatto che, quando si pronuncia questa frase in compagnia, ci si aspetta comprensione e solidarietà dagli altri, i quali sono tacitamente invitati ad annuire la propria condivisione con un cenno del capo o con una frase complementare di circostanza (“È proprio così!”).

Basterebbe riflettere un po’ per ricordare che delitti efferati come quello che commentiamo sono già avvenuti in passato, che invenzioni rivoluzionarie si succedono a ritmi vorticosi, che, un tempo, si verificavano atti di maleducazione perfino peggiori, che di divorzi come quelli della nostra migliore amica è pieno il mondo e che sono tanti i politici, gli uomini d’affari, gli attori e le star della televisione che suscitano scandalo.

Niente di nuovo sul fronte Occidentale, insomma. E, allora, “Non si è mai visto niente del genere” potrebbe essere semplicemente una iperbole. Le persone amano le iperboli, adorano esagerare perché esagerare permette di catturare l’attenzione e di apparire più interessanti agli occhi degli altri. Inoltre, suscita coinvolgimento, curiosità, eccitazione, enfasi, condivisione.

Ma la verità è che dietro questa frase apparentemente innocua e iperbolica si nasconde qualcosa che la psicologia ci insegna da tempo e, cioè, che gli esseri umani sono fondamentalmente egocentrici. Attenzione: egocentrici non egoisti!

Sebbene sia usato nella vita quotidiana quasi come un sinonimo di “egoismo”, il concetto di “egocentrismo” non è di tipo morale, come “egoismo”, e fa riferimento alla tendenza psicologica, spesso inconsapevole, degli esseri umani a adoperare i propri valori, giudizi, gusti, opinioni, pensieri come parametri di conoscenza e valutazione degli altri e del mondo. Ad esempio, se commettono un’azione vergognosa, gli individui ritengono di poter essere immediatamente scoperti quasi fossero trasparenti; se credono in un’idea, pensano che molte più persone credano nella stessa idea; se parlano una determinata lingua, tendono a ritenere l’apprendimento di quella lingua più facile di quanto non sia; se hanno un certo stile di vita, pensano che ci siano molte persone che lo adottano; se fanno esperienza di essere traditi dal proprio partner sentimentale, credono che il tradimento sia universalmente diffuso e, se rimangono sbigottiti da qualcosa che hanno visto, credono che tutti debbano avere la medesima reazione.

Insomma, l’egocentrismo è soprattutto un’innata tendenza a fare di sé il modello di valutazione del mondo.

Ne era consapevole molti anni fa, lo psicologo ginevrino Jean Piaget (1896-1980), il quale riteneva che nella fase evolutiva che va dai tre ai sei anni, il pensiero dei bambini sia fondamentalmente egocentrico e, dunque, incapace di differenziare il proprio punto di vista da quello degli altri. In questa fase, “io” è il pronome preferito e il gioco è «un’assimilazione deformante del reale all’io» (Piaget, 1967, p. 31). Così, i bambini di quella fascia d’età tendono a pensare che il sole sorge per svegliarci, che la luna è lì per darci la luce di notte e che lo spigolo del tavolo è cattivo perché li ha colpiti intenzionalmente. È tutto un trionfo dell’ego, un mondo che gira intorno al proprio sé.

Quello che Piaget aveva trascurato – forse inconsapevolmente – è che una buona dose di egocentrismo permane anche negli adulti, generando tutta una serie di distorsioni cognitive. Una di queste è la tendenza fortissima a generalizzare a partire dalle proprie esperienze, valori, credenze e situazioni come se fossero le esperienze, i valori, le credenze e le situazioni di tutti. Come se tutto il mondo fosse paese. 

E, in effetti, chi confessa esterrefatto di “non aver visto mai una cosa del genere in vita sua” nasconde – forse anche a sé stesso – il fatto che il suo punto di vista è necessariamente limitato e parziale, rispecchiando una determinata “provincia di significato”, ovvero un mondo circoscritto di conoscenze, esperienze e modi di essere. Le cose peggiorano quando si è trascorsa la propria esistenza in un ambiente culturalmente e socialmente ristretto: un paesino, un posto in montagna, un borgo, senza contatti o quasi con il mondo esterno. È quello che abitualmente viene definito “provincialismo”. La pretesa, in questo caso, è che la propria prospettiva ristretta sia rappresentativa di quella di ogni altro abitante del mondo. Il particolare si spaccia per universale e, più è particolare, più esige di essere universale. Scherzi dell’egocentrismo irriflesso, che rende incapaci di considerare punti di vista diversi dal proprio, ma che crede di rappresentarli tutti.

Ma l’egocentrismo non è l’unica chiave di spiegazione del fenomeno del “Non si è mai visto niente del genere”. Talvolta, chi pronuncia questa frase semplicemente dimentica di aver assistito a ben peggio nella vita, magari molto indietro nel tempo. Si sa che la mente umana preferisce mettere da parte i ricordi negativi, sgradevoli o traumatici, lasciandoli nell’inconscio in modo che non provochino più dolore (Brandimonte, 2004). Per questo motivo, quando siamo testimoni dell’ennesima tragedia, dell’ennesimo omicidio efferato, dell’ennesimo atto di maleducazione, è come se ricominciassimo daccapo per poi, ovviamente, dimenticare anche l’ultimo episodio che tanto ci ha sconvolti. Si tratta di un dispositivo di preservazione che la mente innesca per tutelarci da emozioni associate a ricordi negativi.  “Non si è mai visto nulla”, dunque, come meccanismo di difesa dalle brutture della vita.

È sorprendente constatare come, dietro una frase così apparentemente banale e ordinaria, si nasconda una mente umana incline a fare di sé il centro del mondo e a dimenticare ciò che non le aggrada. Tale propensione ha lo scopo adattivo di favorire la sopravvivenza del sé in un ambiente altamente competitivo in cui ego diversi entrano in conflitto per affermare la propria visione del mondo. Che ne siamo consapevoli o no, asseriamo di “non aver mai visto nulla del genere in vita nostra” per imporre agli altri i nostri valori, i nostri giudizi, i nostri punti di riferimento, le nostre esperienze, e per evitare che gli altri impongano a noi i loro valori, giudizi, punti di riferimento, esperienze. Potrà sembrare troppo “darwiniano”, ma è questo il motivo per cui cerchiamo il consenso degli altri al nostro egocentrismo. Per sopravvivere in una giungla di visioni del mondo diverse.

Riferimenti:

Brandimonte, M. A., 2004, Psicologia della memoria, Carocci Editore, Roma.

Piaget, J., 1967, Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Einaudi, Torino

Pubblicato in Luoghi comuni | Contrassegnato , , , | Lascia un commento

Lavoro e lamentele

Gli psicologi sanno da tempo che vi è una stretta connessione tra lavoro e lamentele, rimostranze, pettegolezzi, voci. Per le sue caratteristiche nella società contemporanea, il lavoro assume spesso caratteristiche disumane, alienanti, insoddisfacenti che favoriscono la lagnanza come strumento di chiosa e compensazione delle svariate forme di sofferenza generate dal dedicare tante ore ad attività spesso inutili, avvilenti, mortificanti.

Lamentarsi diventa così uno dei pochi mezzi a disposizione per recuperare una dimensione umana, accettabile, significativa in ambienti sovente privi di significato.

Mi sono imbattuto di recente in una storia che pretende di essere vera, e forse lo è, ma che, se pure fosse falsa, sarebbe ben inventata. Si tratta di una storia che ha una certa pertinenza con il tema di questo post.

Questa storia emerge dai documenti della Magistratura dei Conservatori del mare di Genova, all’epoca della omonima Repubblica marinara massima autorità in materia marittima. In quel tempo, i lavori dei marinai erano estremamente faticosi e i relativi contratti potevano essere stipulati in due forme. La prima prevedeva una paga più elevata ma nessun diritto di “mugugnare” (termine, peraltro, di origine genovese). La seconda prevedeva un compenso più basso ma la possibilità di mugugnare, ossia di lamentarsi degli ordini ricevuti, che comunque dovevano essere eseguiti.

Sembra che il diritto al mugugno sia stato sospeso nel XVI secolo, con l’avvento dell’Ammiraglio Andrea Doria che promise ai marinai migliori condizioni di lavoro e paghe più alte, in cambio di ordine, disciplina e silenzio.

Vera o no che sia, questa storia ci segnala l’importanza cruciale dello ius murmurandi di antica memoria latina. Il mugugno è indispensabile in ambiente lavorativo in quanto soddisfa il bisogno individuale di dare sfogo alle amarezze provocate da capi e colleghi che ci rendono la vita difficile. Inoltre, compensa i sospetti di ingiustizia, lo stress della competizione, la mancanza di potere, l’ansia relativa alla posizione sociale. In altre parole, la repressione della lagnanza renderebbe insostenibile vivere in determinati contesti lavorativi, anche se il senso comune vuole che sia un comportamento riprovevole, da evitare il più possibile.

La verità è che lagnarsi serve. E serve anche al potere, che è sempre soddisfatto quando le pulsioni antisistemiche dei lavoratori sono attenuate, dirottate o rese innocue in un modo o in un altro. E la lagnanza è evidentemente funzionale al sistema perché, nella misura in cui le energie dei lavoratori sono dissipate verbalmente, invece che canalizzate contro i “padroni”, esso favorirà sempre la proliferazione di lagnanze.

Il lamento, in altre parole, assolve una funzione catartica ed è questa la ragione per cui è tanto praticato negli ambienti di lavoro.

E voi, accettereste di essere pagati di più senza la facoltà di lamentarvi?

Se volete sapere altro sulle “virtù” del pettegolezzo e della lagnanza, vi rimando al testo dell’antropologo Max Gluckman (1911-1975), da me tradotto, che ha proprio come oggetto l’analisi delle funzioni sociali di gossip and scandal (“pettegolezzi e maldicenze”).

Pubblicato in Lavoro, linguistica | Contrassegnato , , , , , , | Lascia un commento

“L’ha detto in punto di morte” ovvero della “fallacia del capezzale”

Quello che si dice in punto di morte contiene maggiore saggezza e verità di tutto ciò che è stato detto in precedenza? L’avvicinarsi dell’ora fatale incoraggia gli esseri umani a formulare riflessioni più profonde sulla vita? E queste riflessioni posseggono un maggiore grado di virtù e autenticità rispetto a tutte quelle manifestate negli anni precedenti? La vicinanza della morte concede maggiori meriti alle nostre opinioni tanto da donare loro la dignità di essere ricordate come “le ultime parole”? Pentimento, conversione e confessione in punto di morte sono più autentici rispetto al pentimento, alla conversione e alla confessione che hanno luogo in altre fasi della vita?

Agisce in noi uno strano pregiudizio, diventato indiscusso luogo comune, secondo cui tutto ciò che è associato al tempo immediatamente precedente la morte è per ciò stesso vero, autentico, degno di fede. Non a caso, è diventato quasi un genere letterario raccogliere le ultime parole, reali o putative, pronunciate da personaggi illustri, quasi che in esse si celasse un contenuto di verità altrimenti ineffabile. Tale esercizio è talvolta praticato con il fine non dichiarato di provare la bontà delle proprie idee o credenze, come quando si recuperano conversioni religiose di noti atei per dimostrare e rafforzare il valore di verità del proprio credo. In altri casi, le “ultime parole” sono considerate con venerazione, quasi provenissero da una fonte sacra che le ammanta di significati profondi che vanno ben al di là della loro frequente banalità. È per questo che una promessa o un giuramento resi a una persona in punto di morte sono considerati particolarmente vincolanti e una loro violazione una grave immoralità.

Più prosaicamente, tendiamo ad attribuire grande valore alle esternazioni di chi, sentendosi prossimo alla morte, manifesta rammarico per non aver trascorso più tempo con i propri familiari, per non aver viaggiato di più, per avere dedicato troppo tempo al lavoro invece che alle cose davvero importanti, per non essere stato sincero con le persone amate, per non aver fatto questo o quello ecc. I sopravvissuti fanno spesso eco a questi rimpianti, rimproverandosi di non aver trascorso più tempo con il caro defunto, di non aver assecondato i suoi ultimi desideri, di non avere espresso più frequentemente i propri sentimenti nei suoi confronti.

Tali situazioni si reggono su un presupposto raramente messo in discussione, che Rikard Hjort, battezza Deathbed Fallacy, espressione che potremmo tradurre con “fallacia del capezzale”. Per fallacia del capezzale, si intende la nozione errata secondo cui ciò che si afferma, pensa, sente quando si è sul punto di morire ha un valore generalmente superiore a ciò che si afferma, pensa, sente in altri momenti della vita, tanto da poter assurgere a regola etica assoluta che chiunque dovrebbe condividere se desidera vivere una vita migliore. Così, se si rimpiange in punto di morte di non aver dedicato più tempo ai propri cari, il tempo trascorso con questi diventa un modello etico a cui far riferimento per una esistenza più degna di questo nome. Se il rammarico riguarda il non aver dedicato più tempo a sé stessi, la coltivazione del sé autentico diventa un motivo ispiratore di primaria importanza. Non a caso, queste argomentazioni sono riprese anche da guru spirituali come Bronnie Ware, infermiera addetta al reparto cure palliative di un ospedale e autrice di The Top Five Regrets of the Dying: A Life Transformed by the Dearly Departing (2012) in cui, raccogliendo i rimpianti di tante persone prossime alla morte, ha sviluppato un metodo per raggiungere una condizione di pace mentale, traendo ispirazione dalle ultime parole dei suoi pazienti.

Ma perché quella del capezzale è una fallacia della mente? Per vari motivi.

Innanzitutto, ciò che si afferma, pensa, sente quando si è in punto di morte non può essere considerato superiore a o rappresentativo di ciò che si afferma, pensa, sente durante l’intera vita. Ciò che si desidera al capezzale da vecchi può non essere affatto desiderabile in gioventù; ciò che è ritenuto importante da adolescente può non avere nulla a che fare con ciò che è ritenuto importante in una fase successiva della vita; ciò che ci rende felici nella mezza età può non renderci felici da vecchi. Valori, desideri, ambizioni, aspettative, credenze cambiano insieme a noi e al nostro orizzonte temporale. Chi ha una lunga aspettativa di vita davanti a sé non vede l’esistenza come chi ha solo pochi giorni o ore di vita. Una casa per cui faremmo qualsiasi sacrificio quando abbiamo trent’anni può esserci del tutto indifferente a ottanta. Una donna di cui ci innamoreremmo pazzamente a venticinque anni potrebbe essere giudicata in modo diverso venticinque anni dopo. Un film che ci emoziona a settant’anni può annoiarci a venti. E così via. A ogni fase della nostra vita corrisponde un sé peculiare che può essere del tutto estraneo o indifferente agli altri sé che ci capita di interpretare. Per lo stesso motivo, in fasi diverse della vita, è possibile provare il medesimo intenso dolore per ragioni completamente diverse. Come recita un efficace aforisma dello scrittore americano Mark Twain (1835-1910), tratta da Which Was the Dream? (1897): «Nessun dolore dal quale siamo afflitti può essere definito infimo: in base alle leggi eterne della proporzione, un bambino che smarrisce la sua bambola e un re che smarrisce la sua corona sono eventi delle stesse dimensioni» (Tuckey, 1966),

Una seconda ragione per cui parliamo di fallacia del capezzale è che, dal momento che la vita consiste nel fare delle scelte a scapito di altre, quando si è in punto di morte, inevitabilmente ci saranno cose che non avremo fatto e che, forse, rimpiangeremo di non aver fatto, ma che altre persone, diverse da noi, avranno fatto, non rimpiangendole per nulla. In altre parole, la mappa dei successi e dei rimpianti è diversa da individuo a individuo per cui non si può trarre dai rammarichi di un singolo moribondo una ricetta generale per la felicità collettiva. Se avrò dedicato più tempo al lavoro che alla famiglia, potrò rimpiangere di non aver trascorso più tempo con i miei cari, ma un’altra persona potrebbe sentirsi non realizzata nel lavoro e, quindi, rammaricarsi per non aver dedicato maggiori energie a questo.

Un terzo motivo per cui ciò che viene esternato al capezzale non è necessariamente vero rimanda a una seconda fallacia, generalmente nota come “fallacia genetica” (Gilovich, 1993). Nella fallacia genetica, l’errore consiste nel giudicare un’idea dalle sue origini piuttosto che dalla sua validità. Un esempio è fornito dalla seguente affermazione: «Il sostenitore di quella idea è un povero barbone. Come puoi prestargli fede?»; oppure dalla seguente: «Il testimone è un ladruncolo/un drogato. Come puoi prestargli fede?». Un altro esempio emblematico è rappresentato da chi proclama: «È vero perché è scritto nella Bibbia». Naturalmente, il fatto che l’origine di una proposizione sia un libro ritenuto sacro da molti non significa che essa contenga obbligatoriamente la verità. Allo stesso modo, chi crede che una confessione avvenuta in punto di morte sia necessariamente vera solo perché avvenuta in punto di morte soggiace alla medesima fallacia.

Una quarta ragione riguarda le condizioni in cui sono proferite le ultime parole al capezzale. È noto che gli ultimi discorsi di un moribondo sono fortemente condizionati dalla disperazione del momento, che pregiudica la lucidità mentale anche del più freddo tra gli esseri umani; dal timore della morte imminente; dal ripiegamento su sé stessi tipico di chi è affetto da gravi patologie; dall’ansia di conoscere che cosa c’è, se qualcosa c’è, dopo la morte; dallo stato di prostrazione fisica e mentale; dalle aspettative sociali e religiose; dalle credenze; dall’ambiente familiare in cui si è cresciuti. Le cose peggiorano poi se la malattia compromette direttamente la salute mentale e fisica dell’individuo, impedendogli di ragionare in maniera adeguata.

Per questo motivo, le confessioni, i pentimenti e le conversioni in punto di morte, cui spesso tendiamo ad attribuire grande valore, non sono sempre da giudicare attendibili o, addirittura, come comprovanti la verità del credo in cui ci si converte, di ciò che viene confessato o di ciò di cui ci si pente. Lo afferma chiaramente Robert Cooper, autore, a metà del XIX secolo, di un curioso opuscolo dal titolo Death-Bed Repentance; Its Fallacy and Absurdity when Applied as a Test of the Truth of Opinion; With Authentic Particulars of the Last Moments of Distinguished Free-Thinkers (1852) ossia Pentimento in punto di morte. Sua fallacia e assurdità quando utilizzato come prova della verità di una opinione. Con i resoconti autentici degli ultimi momenti di illustri liberi pensatori.

Scrive Cooper:

Ci chiediamo: perché si attribuisce tanta importanza al pentimento in punto di morte? Perché è tanto frequentemente adottato come criterio di verità o falsità, di negazione o fondamento, di principi o sistemi? Forse perché un individuo in punto di morte dovrebbe trovarsi nella migliore condizione mentale per decidere la verità o superiorità dei sentimenti che nutre? Ovviamente, no. Tale assunto è macroscopicamente assurdo. Sappiamo, in effetti, che lungi dall’essere la migliore, la condizione che precede la morte è il momento più inadeguato per formulare un giudizio sul tema. Debilitate dall’infermità, rese gracili dalla malattia, tormentate dal dolore, distratte dall’ansia, le facoltà mentali sono, di necessità, pressoché inabili a svolgere le loro legittime funzioni. La mente è ormai indebolita e confusa, la percezione naturalmente meno acuta, il giudizio meno energico e preciso. Dedurre la verità o la falsità di un principio o di un sistema dalle parole di chi sta per trapassare sarebbe quasi altrettanto assurdo che dedurre la loro verità o falsità dagli accessi d’ira di chi si trova in stato di ebbrezza. Se, nel primo come nel secondo caso, l’impero della ragione non è stato ancora del tutto rovesciato, tuttavia, in entrambi, alla ragione è impedito di esercitare il suo legittimo e benefico dominio. È vero, tuttavia, che alcuni individui hanno, a quanto pare, conservato le loro consuete facoltà mentali e continuato la propria attività fino al momento della morte […]; ma sono eccezioni, illustri eccezioni, non la regola generale: ma nemmeno essi hanno conservato la stessa vivacità intellettuale, la stessa efficienza mentale, la stessa attitudine di pensiero o solidità di giudizio che avevano quando si trovavano in uno stato di convalescenza o maturità. È evidente quindi che la prassi di considerare ritrattazioni e parole pronunciare in punto di morte come prova, sia affermativa che negativa, della verità o falsità di un sistema, è sia assurda che fallace (Cooper, 1852, p. 4).

E ancora:

Ritengo che ogni sistema, religioso o politico, dovrebbe reggersi o dichiarare fallimento solo in base ai propri meriti, e sottoporsi al più severo esame fisico e razionale, quando tutte le facoltà sono in pieno vigore e potenza, e non quando la mente è incapace di condurre un’indagine con quella serenità e precisione di ragionamento con cui solo tutti i principi dovrebbero essere messi alla prova. Dovremmo considerare le opinioni di un uomo quando questi è convalescente, non quando è malato. Dovremmo chiederci cosa ha detto, non in punto di morte, ma quando era veramente sé stesso, e le sue azioni erano caratterizzate da vigore ed energia. Un sistema che si basasse su una testimonianza così debole sarebbe, in realtà, marcio (Cooper, 1852, p. 5).

Confessioni, conversioni e pentimenti in articulo mortis sono, dunque, fortemente condizionati dalla paura della morte, dal bisogno di una forma di consolazione o rassicurazione per una condizione nei confronti della quale non si hanno certezze assolute e, forse, dalla speranza che la vita, per qualche motivo, non cessi con la dissoluzione del corpo. Del resto, anche la Bibbia, seppure presenti il caso del malfattore crocifisso accanto a Gesù e pentitosi in punto di morte al quale lo stesso Gesù promette: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Luca 23, 43), insiste sulla necessità di ravvedersi immediatamente: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (Matteo 4, 17) senza attendere dunque gli ultimi istanti di vita.

C’è, tuttavia, un tipo di confessione in punto di morte che, da sempre, viene giudicato attendibile e che nessuna ritrattazione serve a invalidare. Si tratta della confessione dei delitti. Ne sa qualcosa James Washington, il quale, nel 2009, credendosi in fin di vita a causa di un infarto, confessò di aver ucciso la trentacinquenne Joyce Goodener nel 1995. Superato inopinatamente l’infarto, Washington tentò disperatamente di ritrattare la confessione, dichiarando di essere stato vittima di una allucinazione, ma inutilmente. “Non si mente in punto di morte” devono aver pensato i giudici, che evidentemente non avevano mai sentito parlare di fallacia del capezzale o, forse, hanno semplicemente creduto che, in questo caso, non andasse applicata.

Riferimenti

Cooper, R., 1852, Death-Bed Repentance; Its Fallacy and Absurdity when Applied as a Test of the Truth of Opinion; With Authentic Particulars of the Last Moments of Distinguished Free-Thinkers, E. Truelove, 240, Strand, London.

Gilovich, T., 1993, How We Know What isn’t So: The Fallibility of Human Reason in Everyday Life, The Free Press, New York.

Tuckey, J. S. (a cura di), 1966, Mark Twain’s Which Was the Dream? and Other Symbolic Writings of the Later Years, University of California Press, California.

Ware, B., 2012, The Top Five Regrets of the Dying: A Life Transformed by the Dearly Departing, Hay House, Australia.

Pubblicato in Luoghi comuni | Contrassegnato , , , , | Lascia un commento

Cristiani cretini?

Tra i numerosi argomenti fallaci che condizionano il ragionamento umano (i cui elenchi sembrano aumentare sempre più quasi che il cervello degli esseri umani fosse una sentina di brutture precipitate dalla perversa incompetenza del nostro organo sovrano), uno dei più capziosi è quello etimologico che consiste nel far riferimento all’etimo di un termine per avallarne una certa interpretazione. Il presupposto è che l’etimologia rimandi al significato “vero”, “autentico” del termine, di cui l’attuale, se discordante, è solo una degenerazione. Un esempio è dato dal verbo “divertirsi”: dal momento che “divertire” significa etimologicamente “allontanare”, è facile concludere che chi si diverte, in realtà, si allontana dalla retta via.

In questo senso, l’argomento etimologico si presta a speculazioni ingannevoli: seducenti, forse, ma sicuramente ingannevoli.

Un caso di specie è offerto dal termine “cretino” su cui mi sono già soffermato in un altro post. “Cretino”, inteso come “persona di scarsa intelligenza” o come “persona affetta dalla patologia del cretinismo”, deriva dal franco-provenzale crétin, variante di chrétien, “cristiano”.

Ciò può condurre semplicisticamente a ritenere, in base all’argomento etimologico, che i “cretini” sono “cristiani” o che i “cristiani” sono “cretini”.

Le cose, però, non stanno in questi termini, come avverte l’Accademia della Crusca, che alla vicenda dedica una corposa riflessione. Infatti, la variante crétin veniva adoperata nel XVIII secolo in alcune regioni della Svizzera romanda di lingua franco-provenzale per indicare varie forme di ipotiroidismo congenito. Da lì, per evoluzione semantica, crétin passò a essere utilizzato nel senso commiserativo di “povero cristo”, “infelice”, con riferimento all’immagine del Cristo sofferente.

In definitiva, la relazione di “cretino” con “cristiano” non deve

essere intesa in senso offensivo: l’accezione di cretino che deriva direttamente da cristiano è quella medica, non quella ingiuriosa, la quale invece si sviluppa più tardi, e inoltre testimonia un barlume di sensibilità nel trattamento quotidiano della malattia.

Rifarsi all’origine di un termine per trarne conclusioni di un certo tipo è una tentazione fortissima, ma completamente errata. Il significato attuale del termine non è, di per sé, più o meno “vero” o “autentico” di quello originario e l’argomento etimologico si rivela essere solo una strategia retorica finalizzata a persuadere l’interlocutore della bontà delle proprie asserzioni.

Ne sapeva qualcosa il filosofo tedesco Martin Heidegger che alle etimologie attribuiva grande importanza e che conduceva molte sue riflessioni su base etimologica con esiti spesso discutibili.

L’argomento etimologico è ancora oggi uno dei più insidiosi in circolazione anche perché sfrutta il tema delle “radici” a cui noi tutti siamo piuttosto sensibili. La realtà è che il significato attuale di un termine può superare completamente il suo etimo fino a rendersi a questo irriconoscibile. Ciò non ne fa per questo una versione “degenere”. Le parole cambiano e diventano altro da quello che erano in origine senza che ciò comprometta in qualche modo la loro bontà. La ricerca delle origini diventa allora solo un modo per “venderci” una visione ideologica del mondo, conferendole una parvenza di legittimità.

Pubblicato in Turpiloquio | Contrassegnato , , , | Lascia un commento