Sul proverbio: “L’abito non fa il monaco”

Lo sanno tutti: le apparenze, e in particolare gli abiti, ingannano. Spesso le persone non sono come si mostrano a prima vista, anzi molte volte si rivelano l’esatto contrario. Dobbiamo, dunque, essere cauti nel giudicarle. In alcuni casi, ci si veste o traveste in un certo modo per fini specifici. I truffatori si celano dietro divise delle forze dell’ordine per ingannare il prossimo. I killer professionisti si camuffano da umili inservienti per portare a termine il proprio lavoro. Ci si traveste a Carnevale e in occasione di alcuni festeggiamenti. Gli attori si mascherano per recitare la propria parte. Insomma, l’abito non fa il monaco. Lo sapeva anche il Manzoni, il quale, nei Promessi sposi, fa dire al conte zio in risposta al Padre Provinciale che aveva difeso Fra Cristoforo e la “gloria dell’abito”, in grado di far sì «che un uomo il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso diventi un altro»: «Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio… l’abito non fa il monaco».

Il tema dell’apparenza ingannatrice è talmente diffuso che i proverbi in argomento abbondano: “Non si giudica il cavallo dalla sella”, “Non è tutto oro quel che riluce”, “Il galantuomo non sta sotto il cappello”, “Il velo non fa la monaca”, “La libreria non fa l’uomo dotto”, in inglese: “Don’t judge a book by its cover” (“Non si giudica un libro dalla copertina”). Curiosamente, esistono anche proverbi di senso contrario, come il meno conosciuto “L’abito fa il monaco”, a significare che gli abiti che qualificano uno status conferiscono dignità e prestigio. In Siracide 19, 25-27 leggiamo: «Dall’aspetto si conosce l’uomo; dal volto si conosce l’uomo di senno. Il vestito di un uomo, la bocca sorridente e la sua andatura rivelano quello che è». Il sapere popolare sembra disposto a concedere agli abiti anche una funzione rivelatrice, oltre che ingannatrice.

E in effetti la contraddizione espressa dal libro biblico potrebbe essere solo apparente: un tempo, l’abito indicava con una certa sicurezza almeno lo status sociale della persona. Ricordiamo che, nel passato, le leggi proibivano di indossare abiti diversi dalla propria condizione sociale: ad esempio, i miserabili e le prostitute non potevano indossare abiti nobiliari. In taluni momenti storici, le cosiddette “leggi suntuarie” regolarono l’abbigliamento di determinati gruppi sociali imponendo loro un vestiario che divenne una sorta di segno distintivo, se non uno stigma (come nel caso di ebrei, eretici, prostitute). In questi casi, l’affidabilità identitaria degli abiti era molto più robusta di oggi.

Ordinariamente, è vero che il modo di vestire riflette chi si è o chi si vorrebbe essere in termini sociali, politici, religiosi, identitari, soggettivi. Anzi, se indossiamo un abito a noi non confacente ci sentiamo a disagio, ridicoli, imbarazzati. Tra abito e identità c’è un legame molto più stretto di quello che parrebbe dando ascolto al proverbio.

È anche vero che gli abiti contribuiscono enormemente a plasmare la percezione che gli altri hanno di noi. Essi possono incutere timore e rispetto (si pensi alle uniformi delle forze dell’ordine), eccitare (gli stupratori ricorrono spesso al meccanismo di difesa consistente nell’imputare agli abiti della vittima la loro irrefrenabile eccitazione: “Se l’è andata a cercare”), deprimere (come gli abiti che si indossano in occasioni funebri), esercitare effetti persuasivi o dissuasivi. Chi indossa abiti formali, ad esempio, viene percepito come più intelligente e competente di chi veste in maniera informale. Chi si presenta a un colloquio di lavoro in giacca e cravatta viene percepito come più serio e affidabile rispetto a chi non lo fa.

Alcune ricerche hanno dimostrato che il modo di vestire può suscitare o favorire nell’altro condotte prosociali. Già nel 1971, lo psicologo Leonard Bickman dimostrò che le persone che vestono in maniera rispettabile o sembrano essere di status superiore hanno maggiori probabilità di vedersi restituire una moneta lasciata in una cabina telefonica. Emswiller, Deaux e Willits (1971) dimostrarono che è più facile indurre comportamenti di aiuto se aiutante e aiutato vestono in maniera simile.

Altre ricerche hanno evidenziato che gli abiti possono spingere a comportamenti antisociali. Basti ricordare al riguardo il celebre esperimento sull’obbedienza condotto nel 1961 dallo psicologo statunitense Stanley Milgram (1975), il quale mostrò che, posti di fronte a un soggetto in camice bianco che impartisce loro degli ordini, gli individui sono disposti a eseguire azioni in conflitto con i loro stessi valori etici. Una dimostrazione agghiacciante di come operi nella contemporaneità il principio di autorità, incarnato dal camice bianco.

Un abito che simboleggia autorità può ispirare anche condotte sociali positive. In alcuni esperimenti descritti nell’articolo di Leonard Bickman “The Social Power of a Uniform” (1974), i soggetti ubbidirono a vari ordini (raccogliere un sacchetto di carta, dare una monetina a uno sconosciuto o allontanarsi da una fermata di autobus) impartiti da complici che indossavano una uniforme militare in misura maggiore rispetto a quando gli ordini venivano impartiti da civili o da soggetti vestiti da lattai. L’autorità incarnata dall’uniforme trova rispondenza negli individui in quanto associata all’idea che il militare sia legittimato socialmente a impartire ordini.

Non a caso, l’uniforme marziale ha lo scopo di enfatizzare, accrescere, esagerare aspetti del corpo che incutono dominanza, soggezione e timore nel nemico, quali l’altezza, la muscolatura e il portamento eretto. L’uso di copricapi alti non ha solo la funzione di proteggere il militare dalle avversità atmosferiche, ma anche e soprattutto quella di aumentarne l’altezza percepita. La visiera del copricapo che nasconde in parte gli occhi del militare serve a creare timore e disagio in chi osserva. L’uso di giubbe con spalline favorisce l’impressione di spalle potenti e larghe. Bottoni metallici e altri accorgimenti favoriscono la percezione a V del corpo che comunica forte costituzione e virilità. Ornamenti, mostrine, fregi, cordoni, pendagli ecc. trasmettono una sensazione di dominanza. Un abbigliamento che provoca rigidità fa apparire più marziali (Costa, 2006, pp. 247-253).

Se le ricerche citate ci rivelano qualcosa che, in fondo, già sappiamo, cioè che gli abiti trasmettono simboli e informazioni che influenzano le persone e l’ambiente intorno a noi, altre ricerche, forse meno note, ci dicono che gli abiti che indossiamo sono in grado di modificare le nostre stesse prestazioni cognitive, la nostra visione del mondo e perfino la nostra condotta sulla base di alcuni sorprendenti meccanismi psicosociali. In altre parole, l’abito può davvero “fare” il monaco.

La psicologia contemporanea ha ormai messo in discussione il vecchio nesso mente-corpo secondo cui questo sarebbe interpretabile solo in un’unica direzione, quella che dalla mente va al corpo. È oggi noto che anche il corpo può influire sulla mente in modi imprevisti, ma accertati dalla scienza. In particolare, alcune condizioni fisiologiche sembrano favorire o sfavorire determinati stati d’animo a scapito di altri, tanto che gli psicoterapeuti raccomandano di eseguire determinate azioni associate a determinate condizioni fisiologiche, se si vuole raggiungere una determinata condizione mentale. Facciamo qualche esempio, avvalendoci anche di testimonianze provenienti dalla filosofia, dalla letteratura e dalla psicologia.

Nella sua Arte di amare, Ovidio (43 a. C. – 17 d. C.) invitava esplicitamente a “simulare” l’innamoramento per innamorarsi davvero: «Devi agire da amante: la tua voce mostri che il cuor ti piange […] Spesso chi finse amore cadde in amore: pensava fosse un gioco essere amante, poi lo divenne» (1994, p. 97). In questo senso, perfino un sentimento “spontaneo” come l’amore può essere indotto attraverso la sua simulazione comportamentale.

Ne La lettera rubata di Edgar Allan Poe (1809-1849), il protagonista afferma: «Quando voglio sapere fino a qual punto uno è astuto o stupido, fino a qual punto è buono o cattivo, o quali sono attualmente i suoi pensieri, cerco di comporre il mio viso come il suo, di dargli la stessa espressione, per quanto mi sia possibile, e così aspetto per sapere quali pensieri o quali sentimenti nasceranno nella mia mente o nel mio cuore per corrispondere alla mia fisionomia» (1885, pp. 25-26). Una formulazione perfettamente in linea con la tesi di Ovidio: la manifestazione fisica dell’emozione provoca l’emozione stessa.

Charles Darwin (1809-1882), nel suo The expression of the emotions in man and animals, scrive: «Dando libero sfogo ai segni esteriori di un’emozione, la si intensifica. Viceversa, la repressione nei limiti del possibile di ogni loro segno esteriore attenua le nostre emozioni. Chi si abbandona a gesti esagitati aumenta la propria rabbia; chi non trattiene i segni della paura avvertirà la paura in misura ancora maggiore; e chi resta passivo allorché è sopraffatto dal dolore perde la migliore occasione per riacquistare elasticità mentale» (Darwin, 1872/1975, p. 365).

Un secolo dopo Darwin, lo psicologo Paul Ekman ha mostrato come i muscoli facciali svolgano un ruolo importante nel sorgere di alcune emozioni. In un noto esperimento, ad alcune persone era stato chiesto di tenere una matita fra i denti (cosa che li obbligava ad assumere un’espressione artificiosamente sorridente) mentre ad altri veniva chiesto di tenere una matita fra le labbra (il che impediva loro di sorridere). Il risultato fu che, dopo aver visto il medesimo film, il primo gruppo sosteneva di aver provato un divertimento maggiore di quanto non avesse provato il secondo (Ekman, Oster, 1979). Altri esperimenti hanno dimostrato che le persone che riproducono le espressioni facciali di emozioni come paura, rabbia e dolore, riferiscono in seguito di aver provato con maggiore intensità l’emozione riprodotta dal loro viso.

Infine, un testo sul linguaggio dei sintomi ci informa che: «È stato provato, per esempio, che camminare seguendo percorsi irregolari può aumentare la nostra creatività, stringere un pugno può accrescere costanza e determinazione, assaggiare una bevanda dolce può renderci più romantici e sedere su una sedia traballante mentre parliamo del nostro rapporto di coppia ce lo fa percepire più instabile» (Pacori, 2016, p. 3). Inoltre, camminare nella natura inibisce la tendenza a rimuginare, fare jogging impedisce la depressione e infonde buon umore e tante altre attività fisiche hanno un impatto rilevante – e spesso imprevisto – sulle condizioni mentali.

Anche la teoria dell’embodied cognition (“cognizione incarnata”, in italiano) suggerisce che corpo e mente non sono due entità cartesianamente distinte e separate, ma interagiscono in modi sorprendenti. Il corpo condiziona o stimola i processi cognitivi, nel senso che esso può vincolare, agevolare o frenare questo o quel processo cognitivo. Addirittura, le abilità cognitive che si possiedono possono essere determinate dalle caratteristiche morfologiche e dinamiche del proprio corpo (Shapiro, 2011). Ad esempio, è accertato che gesticolare durante una conversazione aiuta la comunicazione e non è un semplice orpello fisico perché indirizza il pensiero in una certa direzione. Allo stesso modo, apprendere un concetto sedendo in posizione immobile (come avviene a scuola), non è la stessa cosa che apprenderlo passeggiando. Ancora, tenere in mano la tazza di una bevanda bollente spinge a ritenere gli altri più cordiali e “caldi”, camminare lentamente attiva lo stereotipo dell’anziano, annuire con il capo mentre si ascolta un messaggio persuasivo aumenta la suscettibilità alla persuasione.

La teoria dell’embodied cognition insegna che questi principi si applicano anche al modo di vestire: se vestiamo punk ci sentiremo in un modo; se vestiamo nerd ci sentiremo in un altro; se vestiamo una tuta ci sentiremo più scattanti; se indossiamo un paio di occhiali ci sentiremo più intellettuali; se mettiamo su una divisa militare avvertiremo una maggiore rigidità e così via. E, se indossiamo un saio, la nostra condizione spirituale avvertirà un cambiamento. Il modo in cui pieghiamo il nostro corpo e i nostri muscoli, anche attraverso gli abiti, non lascia indifferente la nostra mente.

Hajo e Galinsky hanno coniato al riguardo il termine enclothed cognition per descrivere l’influenza sistematica che gli abiti esercitano sui processi psicologici di chi li indossa. Per i due ricercatori, la enclothed cognition comporta l’azione simultanea di due fattori indipendenti: il significato simbolico associato agli abiti e l’esperienza fisica dell’indossarli. In una serie di esperimenti virtuali, effettuati somministrando una prova Stroop (si tratta di un esercizio in cui ai soggetti vengono mostrate delle parole stampate con inchiostro di vari colori, e viene loro chiesto di dire di che colore è l’inchiostro, ignorando le parole. I soggetti eseguono il compito abbastanza facilmente, tranne quando si imbattono in parole che indicano colori diversi da quelli dell’inchiostro con cui le parole sono stampate. Per esempio, se la parola rosso è stampata in inchiostro verde, i soggetti spesso esitano o si confondono nel dire verde, come se non riuscissero ad ignorare il significato della parola. Il risultato finale è che occorre molto più tempo per dire che la parola “verde” è scritta in rosso piuttosto che per denominare il colore con cui è scritta qualunque altra parola che nulla ha a che fare con i colori), Hajo e Galinsky mettono alla prova l’ipotesi secondo cui indossare un camice di laboratorio aumenta la prestazione in compiti che hanno a che fare con l’attenzione ai dettagli. I risultati dimostrano che nelle situazioni in cui si indossa un camice aumenta l’attenzione selettiva rispetto a quando non si indossa un camice. Indossare il camice di un dottore aumenta l’attenzione sostenuta rispetto a quando si indossa un camice di laboratorio. In poche parole, indossare un abito ha un effetto potente sulla psiche: i vestiti che indossiamo “invadono” corpo e cervello, modificando il nostro stato psicologico.

Indossare determinati abiti induce le persone a “incorporare” il significato simbolico degli abiti. Gli abiti esercitano una profonda influenza sui processi psicologici delle persone attivando concetti astratti associati tramite i loro significati simbolici. Così, indossare il saio di un monaco ci rende persone più etiche perché questo tipo di indumento è associato, nella nostra mente e nella nostra cultura, a una condotta spirituale non ordinaria.

Di questo meccanismo era già consapevole il giornalista Indro Montanelli, il quale, nel lontano 1959, aveva individuato la seguente soluzione per debellare la “piaga” dei teddy-boys (Montanelli, 1959, cit. in Triani, 1990, p. 144):

Cosa succederebbe se si proibisse la vendita dei blue jeans? Io non ho creduto molto alle proibizioni. Ma in questo caso la misura forse avrebbe un certo effetto. I blue jeans sono, agli occhi di questa teppaglia, una divisa, che, una volta indossata, impone certi obblighi. Sono sicuro che fra i teddy boys ci sono dei bravi ragazzi che non avevano nessuna intenzione di diventarlo. Ma poi infilate le gambe in quei tubi, si lasciarono anche crescere i riccioletti sulla nuca, si guardarono allo specchio e d’improvviso si annusarono addosso puzzo di “bruciato”. Chi l’ha detto che l’abito non fa il monaco. Lo fa eccome. Provatevi a togliere a qualunque esercito l’uniforme; e vedrete che il rendimento dei soldati, il loro coraggio, la loro decisione, per non parlare della disciplina, si riducono del settantacinque per cento.

Insomma, le recenti ricerche della psicologia dimostrano, al di là di ogni esitazione, che l’abito fa davvero il monaco e che ciò che si indossa ha un indubbio effetto sulla nostra psiche a dispetto del luogo comune secondo cui il nostro vero io è indipendente da ciò che utilizziamo per coprire e ornare il nostro corpo. In casi estremi, può verificarsi anche una profezia che si autoavvera. Come diceva il filosofo francese Pascal, si può suscitare la fede in un individuo, inducendolo a comportarsi “come se” credesse, ad esempio invitandolo a pregare, a bagnarsi con acqua santa, ad andare a messa, a recitare il rosario (Pascal, 1987). E probabilmente anche a indossare un saio.

Riferimenti

AA.VV., 2016, Il pregiudizio universale, Laterza, Roma-Bari.

Bickman, L., 1971, “The effects of social status on the honesty of others”, The Journal of Social Psychology, vol. 85, pp. 87-92.

Bickman, L. 1974, “The Social Power of a Uniform”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 4, n. 1, pp. 47-61.

Costa, M., 2006, Psicologia militare, Angeli, Milano.

Darwin, C., 1872/1975, The expression of the emotions in man and animals, University of Chicago Press, Chicago.

Ekman, P., Oster, H., 1979, “Facial Expressions of Emotion”, Annual Review of Psychology, vol. 30, pp. 527-554.

Emswiller, T., Deaux, K., Willits, J. E., 1971, “Similarity, sex and requests for small favors”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 1, pp. 284-291.

Hajo, A. Galinsky, A., 2012, “Enclothed Cognition”, Journal of Experimental Social Psychology, vol. 48, n. 4, pp. 918–925.

Manzoni, A., 1985, I promessi sposi, Mondadori, Milano.

Meli, E., 2023, “Dimmi come ti vesti e ti dirò come ti sentirai (tutto il giorno)”, Corriere della Sera, 2 aprile, p. 49.

Milgram, S., 1975, Obbedienza all’autorità, Bompiani, Milano.

Montanelli, I., 1959, “Per sradicare i “teddy-boys” qualche proposta di buon senso”, Domenica del Corriere, 29 agosto.

Ovidio, 1994, L’arte di amare, Fabbri, Milano.

Pacori, M., 2016, Il linguaggio segreto dei sintomi, Sperling & Kupfer, Milano.

Pascal, B., 1987, Pensieri, Mondadori, Milano.

Poe, E. A., 1885, Nuovi racconti straordinari, Sonzogno, Milano.

Shapiro, L., 2011, Embodied Cognition, Routledge, London and New York.

Triani, G., 1990, Mal di stadio. Storia del tifo e della passione per il calcio, Edizioni Associate, Roma.

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Il turista è il nuovo pellegrino

Tra i succedanei contemporanei, più o meno narcotizzanti, della religione, il turismo è certamente uno dei più evidenti al punto che il sociologo Dean MacCannell, in un celebre libro degli anni Settanta Il turista. Una nuova teoria della classe agiata (UTET, Torino), non ha esitazioni nel sostenere che il turista è il pellegrino della modernità, come dimostra coerentemente la sua condotta di ruolo.

Innanzitutto, il turista ha l’obbligo, per così dire, di andare a vedere determinati luoghi dei paesi che sceglie di visitare e che sembrano incarnare una potenza straordinaria. Ad esempio, contempla la natura, le rovine, i monumenti, i segni caratteristici del luogo che lo ospita con il medesimo silenzioso raccoglimento che il pellegrino avrebbe dinanzi all’epifania del sacro, all’avverarsi di un evento straordinario lungamente atteso.

In secondo luogo, tanto il pellegrino quanto il turista hanno in comune l’esperienza dell’unicità di un luogo: entrambi credono che solo in un determinato luogo si possa verificare l’apparizione irripetibile di un’immagine attraente in modo peculiare, singolare ed eccezionale. L’apparizione del Louvre ha molti tratti in comune con l’apparizione del santuario o, addirittura, di un personaggio celeste da riverire. In alcuni casi, le analogie sono straordinarie.

Come il pellegrino, il turista segue un itinerario standard, va da una città all’altra o da un museo a un parco naturale, seguendo i consigli delle sue guide. I popoli e i paesaggi formano un insieme di attrazioni che è equivalente ai temi delle religioni politeistiche e alla proliferazione dei luoghi in cui sono apparsi i santi del cattolicesimo. Le fasi del viaggio sono una variante moderna delle devozioni popolari nei santuari.

Infine, la ricerca dell’autenticità a ogni costo diventa l’equivalente moderno della tradizionale esperienza del sacro. Il turista cerca la casa tipica, il vero manoscritto, il quadro originale, così come il pellegrino vuole il luogo dove per la prima volta apparve la Madonna o fu compiuto un miracolo. L’importante è l’esperienza che, per il turista, ha la stessa accezione sacralizzante che l’avventura religiosa per il devoto (Dean MacCannell, 2005, Il turista. Una nuova teoria della classe agiata, UTET, Torino, pp. XXX-XXXI).

Per MacCannell, la modernità crea tensioni. la fuga dalle quali

genera la ricerca di mondi in cui unificare i frammenti, i paradisi marginali del turismo, l’isola felice in cui domina l’armonia universale, luoghi dell’ultima nostalgia della “totalità”, perduta e finalmente ritrovata attraverso la reinvenzione sociale di rapporti sociali “rappresentati” come veri, sinceri, autentici, che approssimano la felicità senza spazio e senza tempo.

Le merci culturali del turismo costituiscono il materiale che il turista utilizza per affermare sia la sua unicità che la sua dipendenza da entità simboliche che la trascendono, sciogliendo i traumi e i dilemmi dell’io molteplice, offrendo sogni a occhi aperti in cui realizzare il Paradiso e l’Avventura, l’esperienza olistica della tradizione e quella soggettiva della moderna individualità (p. XXXII).

In tutti i casi, si ricerca qualcosa: un senso, un significato, un simbolo per riscattare una vita avvertita come ordinaria, profana, scialba, misera. Se la religione è tradizionalmente fornitrice di senso, oggi il turismo assolve una funzione simile in compensazione salvifica di un lavoro percepito sempre più come vano, logorante, insoddisfacente, necessario unicamente alla sopravvivenza fisica dell’individuo.

Nel viaggio, il turista cerca salvezza da una impossibile vita di costrizioni. E chi ritiene che sia un mero atto di consumo trasposto, non è consapevole che perfino una condotta disciplinata da agenzie di viaggio e guide del posto può dare soddisfazione e gioia, come forse nessuna attività lavorativa è in grado di fare.

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Egocentrismo ingenuo

«Non vorrei che iniziasse a piovere proprio adesso! Che il cielo mi lasci almeno accompagnare i figli a scuola. Poi può diluviare quanto vuole».

«Guarda quante auto! Speriamo che non si crei un ingorgo. Vorrei arrivare prima a casa».

«Meno male che non c’è nessuno all’ufficio postale. Almeno non dovrò fare la fila. Mi sbrigherò subito».

C’è una forma di egocentrismo che definisco “ingenuo” (gli psicologi lo chiamano self-centered bias) e che consiste nel fatto che, senza malizia, senza cattiveria, ma del tutto spontaneamente, gli esseri umani tendono a interpretare ciò che accade nel mondo come se, in qualche modo, questo girasse intorno a loro o come se esso covasse intenzioni positive o negative nei loro confronti.

Ce la prendiamo con il cielo che “decide di piovere” proprio quando siamo fuori in strada. Accusiamo il traffico di essersi ingorgato nel momento preciso in cui torniamo a casa in auto. Preghiamo il tempo di “essere bello” quando noi saremo in vacanza. E ci sentiamo stizziti, afflitti, sconsolati e, talvolta, defraudati, se le cose non vanno come diciamo noi.

Non ci importa se il diluvio si abbatterà sulla nostra città quando saremo tornati a casa, se intralcerà il percorso di tante altre persone. Non ci interessa se tante persone dopo di noi trascorreranno in fila le prossime due ore della loro vita all’ufficio postale: l’importante è che noi riusciamo a cavarcela subito.

Sembra quasi che la vita sia una creatura dotata di volontà, capace di condizionare la nostra esistenza secondo uno schema preciso. Il mondo è un essere potenzialmente benevolo o malevolo. E se incappiamo in una giornata di traffico soffocante, se inciampiamo casualmente in una pietra, se le nostre calze si smagliano per una protuberanza accidentale, malediciamo il destino avverso che ha congiurato contro noi. Se, infine, siamo afflitti da una brutta malattia, ci chiediamo: «Perché proprio a me?».

Insomma, gli esseri umani tendono naturalmente, spontaneamente all’egocentrismo, a ritenersi inconsciamente al centro del mondo. E se qualcuno o qualcosa minaccia la centralità del nostro io, ecco che inveiamo contro questo o quello, senza renderci conto di quanto siamo egocentrici.

Filosofi, psicologi e sociologi ci hanno da tempo avvertiti che l’io non è padrone in casa propria (Freud), che il nulla (la “mancanza di senso”) eterno domina le nostre vite (Nietzsche), che non occupiamo una posizione privilegiata nella storia della natura (Darwin), che la Terra non è nemmeno al centro dell’universo (Copernico). Eppure, nella vita di tutti i giorni, ci comportiamo come se tutto fosse incentrato su di noi, come se fossimo l’ombelico del mondo. E interpretiamo ogni smentita di questa nostra credenza ingenua alla stregua di un delitto di lesa maestà.

Siamo spontaneamente egocentrici. E niente e nessuno può farci cambiare idea. Attenzione, però: egocentrismo non significa egoismo. Il primo pertiene alla sfera bio-psicologica; il secondo a quella morale. Possiamo, dunque, condurci in maniera perfettamente altruistica, pur continuando inevitabilmente a essere egocentrici.

Siamo egocentrici per natura; egoisti per scelta.

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Fabio Rampelli e lo “statement” di Galeazzo Ciano

È della fine di marzo la notizia che un esponente di Fratelli d’Italia, Fabio Rampelli, ha presentato una proposta di legge che prevede il pagamento di una somma variabile da 5.000 a 100.000 euro per chi si rende colpevole di “forestierismo linguistico”, macchiandosi dell’utilizzo di termini non appartenenti alla lingua italiana, con particolare riferimento alla pubblica amministrazione.

Rampelli fa parte dello stesso schieramento politico che ha coniato l’espressione “Ministero delle Imprese e del Made in Italy”. Sul sito del Ministero è possibile leggere termini come “privacy”, “investor”, “telemarketing”, “rating”, “reach”, “space economy” e così via. Un’abbondanza di forestierismi che contraddice le velleità puristiche di Rampelli, il quale evidentemente crede che, in un’epoca globale quale la nostra, possa esistere una lingua “autarchica” e incontaminata, un idioma senza macchie, forse integro da secoli, che le brutte parole straniere minacciano di “sporcare” con suoni “strani” e significati incomprensibili.

Per quanto si possa discutere sulla diffusa tendenza a usare termini stranieri a sproposito, più per il loro effetto connotativo che per una esigenza effettivamente avvertita dai parlanti, il purismo linguistico è, nel migliore dei casi, velleitario, nel peggiore, ridicolo, come dimostra la vicenda della campagna condotta dal fascismo contro le parole straniere.

Non molti ricordano che il regime di Mussolini impose una tassa sull’uso delle parole non italiane (regio decreto n. 352 dell’11 febbraio 1923), che ricorda da vicino le sanzioni amministrative previste dalla proposta di legge di Rampelli. Durante il ventennio, il fascismo condusse una campagna xenofoba virulenta contro ogni parola e locuzione straniera, accusando addirittura di lesa maestà chiunque utilizzasse espressioni forestiere al posto di quelle italiane.

L’ostilità verso le parole straniere si intensificò nel 1938. Furono vietati denominazioni e nomi stranieri per i locali di pubblico spettacolo (regio decreto legge del 5 dicembre 1938, n. 2172) e per i neonati di nazionalità italiana (art. 72 del nuovo Ordinamento dello stato civile, promulgato con regio decreto del 9 luglio 1939, n. 1238). Furono italianizzati nomi e cognomi stranieri e proposti sostituti italiani per una serie di sostantivi da tempo entrati nella lingua italiana. Ad esempio, furono suggeriti “fin di pasto” per dessert; “arlecchino” per cocktail; “comunella” per passe-partout; “panfrutto” per plum cake ecc. La maggior parte di queste proposte non ebbe mai seguito.

La battaglia si estese alle minoranze linguistiche e ai dialetti, avvertiti come gravi attentati alla vera italianità.

In realtà, furono gli stessi gerarchi fascisti a tradire spesso la purezza linguistica che pure tentarono di imporre con ogni mezzo. Ad esempio, nel suo Diario, alla data del 14 luglio 1938, Galeazzo Ciano, Ministro degli affari esteri, scrive:

Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del «Giornale d’Italia» di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui.

Che uno dei principali esponenti di un regime passato alla storia per aver intrapreso una battaglia contro ogni forestierismo utilizzi l’inutile statement al posto dell’italiana “dichiarazione”, peraltro in un contesto informale come può essere una scrittura diaristica, è segno di come, allora come oggi, si predicasse in un modo e si agisse in un altro. Proprio come gli esponenti del partito di maggioranza di oggi che propongono leggi puristiche nel momento stesso in cui ricorrono a parole straniere di ogni genere per conferire importanza, lustro ed esoticità al proprio operato. Un vezzo ipocrita che sconfessa l’assioma di fondo di questi “tentativi purificatori”: quello dell’esistenza di una lingua pura.

Non esistono lingue pure così come non esistono razze pure. Dovremmo averlo imparato da tempo, ma evidentemente certe lezioni non si apprendono mai.

Fonte: Valeria Della Valle, Riccardo Gualdo, 2023, Le parole del fascismo. Come la dittatura ha cambiato l’italiano, Accademia della Crusca – la Repubblica, GEDI, Torino, pp. 27; 74-96).

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Uno smascheratore del Quattrocento

La cosiddetta Donazione di Costantino, o Constitutum Constantini o Privilegium Sanctae Romanae Ecclesiae, datata 30 marzo 315, è un falso, forse il più celebre della storia occidentale insieme ai cosiddetti Protocolli dei savi anziani di Sion e con questi condivide il dubbio merito di essere la contraffazione che ha generato il maggior numero di conseguenze concrete sul maggior numero di persone.

Per secoli essa è stata brandita opportunisticamente a sostegno delle pretese temporali della Chiesa di Roma, assurgendo a pezza d’appoggio di rivendicazioni senza fondamento. Un caso quasi unico di testo in cui forse nemmeno i suoi sostenitori più accaniti hanno mai creduto fino in fondo, ma che ha prodotto, nondimeno, effetti reali e, come detto, non di poco conto.

Siamo abituati a pensare, secondo le coordinate manichee impartiteci sin dall’infanzia, che ciò che è finto o falso sia destinato ad avere conseguenze altrettanto false, irreali. La storia ci ha insegnato da tempo che questo pilastro dell’istruzione scolastica tradizionale si regge su piedi di argilla, che si sgretolano facilmente a contatto con la realtà dei fatti. La verità è che, per secoli, l’umanità ha condotto la propria esistenza in base a credenze false di ogni genere; cosa che accade ancora oggi. Non a caso, sistemi filosofici e religiosi insistono sul fatto che la vita è illusione e che non potremmo vivere senza la rassicurante presenza del falso.

È per questo che una falsificazione può guidare la condotta umana, a condizione, ovviamente, che sia creduta vera. Come già sospettava Matteo 13, 58: «E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità». La fede, la credenza, la credulità, ovvero fattori psicologici, sono in grado di rivestire di verità la finzione, facendola apparire in una luce autentica. E facendo scaturire da essa miracoli di ogni sorta.

Lo scritto che troverete qui descrive che cosa fu la Donazione di Costantino, come fu usata, quali furono le conseguenze del suo utilizzo, come fu smascherata da Lorenzo Valla, homo rixosus, filologo e umanista del Quattrocento, polemico e inquieto, autore di un opuscolo dissacratorio ancora oggi attualissimo per il quale fu costretto anche a comparire davanti all’Inquisizione.

Una lettura necessaria che ci mostra come già nel Medioevo, l’epoca del falso, intellettuali e filologi dedicassero il loro tempo a demolire imposture e fake news.

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Distanza e inversione rituale nella psicologia del turista

Noi viaggiamo per strade e mari al fine di vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi. Ciò accade perché la natura ha così fatto le cose che noi prediligiamo ciò che è lontano e restiamo indifferenti a ciò che è vicino oppure perché ogni desiderio perde d’intensità quando è facile soddisfarlo, o perché ci disinteressiamo di ciò che possiamo vedere quando ci piace, sicuri che ben presto avremo l’occasione di capitarci davanti (Plinio il giovane, Epistolario, Lettera ai familiari).

Questa frase di Plinio il Giovane, citatissima da agenzie e guide turistiche, al punto da essere diventata un luogo comune per gli addetti ai lavori, richiama condotte e atteggiamenti con cui tutti abbiamo estrema familiarità. Più un luogo è lontano, “esotico”, e non solo geograficamente, più ci appare appetibile e più desideriamo visitarlo. E questo da sempre, stando a Plinio, che attribuisce questa caratteristica addirittura alla natura umana.

Così, se, nell’antichità, i romani preferivano come mete turistiche la Grecia, l’Egitto e l’Asia, noi contemporanei preferiamo le Maldive, Zanzibar e gli Stati Uniti, non solo perché distanti, ma anche perché distanti. Più remoto è un luogo, più impegno e tempo richiede arrivarci, maggiore sarà il suo fascino.

La distanza finisce con il conferire valore a una meta turistica solo in quanto distanza. Questo perché «la distanza provoca un effetto alone sui prodotti, trasforma agli occhi dell’osservatore una destinazione in un’esperienza più coinvolgente e meno scontata, in altre parole più “autentica” della solita località di massa, vicina, dove vanno tutti» (Dall’Ara, G., 1990, Perché le persone vanno in vacanza?, Franco Angeli, Milano, p. 48).

Questo fenomeno si accompagna a un altro che è definito “inversione rituale” in base al quale, quando andiamo in vacanza, tendiamo a mettere in atto comportamenti inversi rispetto alla ordinarietà, quasi che il tempo trascorso in luoghi distanti imponesse una sospensione della normalità quotidiana.

Così, se viviamo in un luogo freddo, privilegiamo mete calde. Se adottiamo abitualmente una dieta morigerata, ci diamo alla golosità sfrenata. Se la nostra vita è fin troppo tranquilla, desideriamo il rischio e l’avventura. Se abitiamo nel sud del mondo, siamo attratti dal nord e viceversa (Dall’Ara, 1990, pp. 90-93).

È come se il tempo della vacanza fosse un tempo speciale, un tempo “sacro”, liminale, in cui ritmi e stili di vita si capovolgono rispetto all’ordinario e sperimentiamo inversioni antropologiche, che assegnano un significato diverso alle nostre esistenze.

Si potrebbe quasi dire, al riguardo, che il desiderio di terre lontane e l’inversione rituale abbiano un valore religioso per noi, forse uno dei pochi a cui ancora ci affidiamo nella nostra contemporaneità.

E forse questo vuol dire che andiamo in vacanza non solo per evadere dalla routine quotidiana, per svago, per ricaricare le energie, per compensazione (nel senso che la vita ordinaria genera tensioni che il turismo permette di compensare per sopravvivere), per emulazione, ma anche perché il turismo rappresenta per alcuni di noi l’ultimo rituale che ci consente di muoverci in una situazione fuori dal tempo ordinario, l’ultima Thule della religione, la dimensione postrema in cui solo riusciamo ad avvertire qualcosa di affine a un sentimento numinoso.

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L’atto ideomotorio in William James

La domanda è: la mera idea degli effetti sensibili di un movimento è sufficiente mentalmente a stimolarlo o è necessario un ulteriore antecedente mentale, sotto forma di una risoluzione, una decisione, un consenso, un mandato della volontà o altro fenomeno simile della coscienza, prima che si verifichi il movimento?

Rispondo: talvolta la mera idea è sufficiente, ma altre volte è necessario che intervenga e preceda il movimento un ulteriore elemento conscio, sotto forma di una risoluzione, un mandato o un consenso espresso. I casi in cui non si manifesta una decisione rappresentano la varietà più fondamentale, perché più semplice. Gli altri, che dovranno essere esaminati al momento opportuno, hanno una natura più complessa. Per il momento, dedichiamoci all’atto ideomotorio, come è stato definito, ossia a quel tipo di processo volitivo che si traduce nella sequenza del movimento conseguente alla sua mera idea.

Ogni volta che un movimento segue immediatamente e senza esitazioni alla sua idea, abbiamo un atto ideomotorio. Non siamo, dunque, consapevoli di che cosa intercorra tra la concezione e la sua esecuzione. Intervengono, ovviamente, numerose reazioni neuromuscolari, ma non sappiamo assolutamente nulla di esse. Pensiamo all’atto ed esso ha luogo; e questo è tutto ciò che l’introspezione ci rivela della questione. Il dr. Carpenter, che per primo, credo, ha adoperato l’espressione atto ideomotorio, l’ha collocato, se non mi sbaglio, tra le curiosità della nostra vita mentale. La verità è che non si tratta di una curiosità, ma semplicemente di un normale processo spogliato di ogni apparenza. Mentre parlo, mi accorgo di uno spillo sul pavimento o di alcuni granelli di polvere sulla mia manica. Senza interrompere la conversazione, rimuovo la polvere o raccolgo lo spillo. Non formulo una decisione espressa, ma la mera percezione dell’oggetto e la fugace idea dell’atto sembrano sufficienti di per sé a provocare il fatto. Allo stesso modo, siedo a tavola dopo pranzo e mi trovo, di tanto in tanto, a spiluccare noci o uva passa da un piatto. In realtà, il pranzo è finito e, preso dalla conversazione, quasi non me ne rendo conto, ma la percezione della frutta e la fugace idea di mangiarla sembrano inevitabilmente provocare il fatto. Certamente, non siamo qui di fronte a una decisione, non diversamente da quanto capita in tutti gli accadimenti abituali e nei riassestamenti che riempiono ogni ora della nostra vita e che le sensazioni che ci giungono provocano in maniera talmente immediata che è spesso difficile decidere se chiamarli riflessi o atti volontari (James, W, 1890, “Ideo-Motor Action”, in Principles of Psychology, vol. II, Dover Publications, New York., pp. 522).

Sono queste le parole con cui William James inizia il paragrafo dei suoi Principles of psychology dedicato all’atto ideomotorio, nel capitolo riguardante l’analisi della volontà.

Si tratta di poche pagine che testimoniano dell’interesse del grande psicologo americano per un tema apparentemente banale come quello dei piccoli movimenti involontari che intervengono in tante situazioni della vita quotidiana e che permettono di spiegare fenomeni banali e apparentemente straordinari, come ho osservato qui in una raccolta di scritti di autori vari dedicati al tema.

La raccolta è ora completa, almeno per quanto mi riguarda, e qui potete trovare il libricino comprensivo della traduzione di queste pagine di James. Chissà che non ne nasca una pubblicazione in futuro!

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Cambiare identità attraverso errori di interpretazione

Ellis Island è una piccola isola della baia di New York che, dal 1892 al 1954, ha “accolto” milioni di immigrati provenienti dall’Europa. Qui, i nuovi arrivati venivano identificati, visitati da medici e psichiatri, registrati e accompagnati al molo per imbarcarsi sul traghetto per Manhattan. Se giudicati deformi, ciechi, sordi, portatori di malattie contagiose o affetti da malattie mentali, venivano espulsi dal suolo americano. Una iattura per tanti, se si pensa che il viaggio dall’Europa agli Stati Uniti durava più di un mese e spesso l’aspirante migrante aveva speso tutto ciò che aveva per il viaggio. Attualmente, Ellis Island è sede di un importante museo che ricorda quei giorni.

Le procedure di ammissione agli Stati Uniti erano disciplinate da regole burocratiche, spesso sbrigative e brutali, oltre che disumane. Tale brutalità era evidente durante le fasi di registrazione e delle visite mediche in cui i migranti erano esaminati come carne da macello. Il grande numero di essi non contribuì certamente a mitigare le procedure di ammissione, che si svolgevano spesso in un clima di incomprensione e indifferenza nei confronti delle sorti di quegli uomini e donne, che per gli americani non erano altro che poveri straccioni analfabeti in cerca di un’occupazione.

Durante la fase di registrazione, in particolare, che prevedeva l’annotazione di nome, luogo di nascita, stato civile, professione e precedenti penali, era facile che l’incontro con tante lingue diverse e la frettolosità delle operazioni inducesse il personale addetto a vari tipi di errori. Alcuni di questi finivano con il cancellare per sempre l’identità del nuovo venuto, trasformando il nome o il luogo di provenienza con effetti tanto tragici quanto ridicoli.

Al riguardo, Corrado Augias, nel libro I segreti di New York, racconta un aneddoto esemplare, non si sa se inventato, tratto da un’operetta dello scrittore francese George Perec, che vale la pena di citare per intero:

A un vecchio ebreo russo era stato suggerito di dichiarare un nome americano, in modo che gli agenti dell’immigrazione non faticassero a trascriverlo. Il vecchio chiese consiglio alla prima persona incontrata che gli suggerì “Rockefeller”. Continuò a ripetersi quel nome per tutto l’interminabile tempo in cui rimase in fila, con il risultato che quando arrivò davanti ai commissari dell’immigrazione se l’era dimenticato. Alla domanda di come si chiamasse balbettò desolato in yiddish “Schon vergessen”, l’ho dimenticato. Impassibile il commissario scrisse sul registro “John Ferguson”.

In questo modo, attraverso un tratto di penna mistificatore, il nuovo venuto veniva ribattezzato, la sua storia cancellata, la sua identità contraffatta, la sua umanità affidata allo sbadiglio di un agente dell’immigrazione.

Equivoci del genere, di cui oggi ridiamo, hanno avuto un impatto devastante sulle esistenze di milioni di persone, costrette a reinventarsi in un ambiente culturale, sociale, linguistico alieno e, frequentemente, ostile. Chissà quanti John Ferguson sono entrati negli Stati Uniti. Chissà quanti di essi hanno avuto figli che continuano ad avere un nome inventato per un errore di interpretazione!

Fonte:

Augias, C., 2001, I segreti di New York, Oscar Mondadori, Milano, p. 191.

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Che cos’è la lettura del pensiero

La “lettura del pensiero”, detta anche “cumberlandismo”, dal nome del celebre mentalista inglese Stuart Cumberland (1857-1922), è una forma di esibizione artistica in cui il performer è chiamato a trovare un oggetto nascosto in una stanza mentre si trova in un’altra. Ciò viene fatto tramite varie tecniche, ad esempio prendendo per mano una delle persone che hanno visto nascondere l’oggetto e lasciandosi guidare dalla tensione muscolare dello spettatore. Una tecnica indubbiamente di non facile esecuzione, che è valsa onori e gloria a tanti mentalisti.

La “lettura del pensiero” fu studiata in particolare dal neurologo e fisiologo americano George Miller Beard (1839-1883), il quale analizzò con particolare attenzione le prestazioni del mentalista, e suo connazionale, John Randall Brown (1851-1926), uno dei più celebri dell’epoca, e condusse numerosi esperimenti in prima persona con vari soggetti.

Brown chiedeva ai partecipanti ai suoi spettacoli di nascondere un oggetto in un luogo scelto da loro e di poggiare il dorso della loro mano sulla sua fronte. Toccando la mano e lasciandosi guidare dai movimenti non deliberati dei suoi “complici”, Brown riusciva a localizzare l’oggetto nascosto tra lo stupore degli spettatori, alcuni dei quali non esitavano ad attribuirgli doti magiche. La spiegazione, tuttavia, di tali capacità era molto più “secolare” di quanto essi pensassero, come dimostrò Beard in vari suoi scritti.

Perché riuscivano gli spettacoli di Brown? A causa, rispose Beard, dei movimenti muscolari involontari e inconsci dei soggetti che vi partecipavano e da cui Brown si lasciava guidare nelle sue performance. Sulla scia di scienziati famosi come Carpenter e Faraday, Beard riuscì così a fornire una spiegazione razionalmente e scientificamente soddisfacente per la comprensione di fenomeni “misteriosi” che i più attribuivano all’azione di aure, vibrazioni misteriose e al “magnetismo animale” di cui parlava, più di mezzo secolo prima, Franz Anton Mesmer. In altre parole, la cosiddetta “lettura del pensiero” non era altro che “lettura muscolare”.

Per comprendere questo affascinante aspetto del pensiero umano, ho tradotto qui vari testi di autori che si sono occupati della cosiddetta “azione ideomotoria”. Si parte dal testo di William Carpenter (1852) “On the influence of suggestion in modifying and directing muscular movement, independently of volition”, atto battesimale di questo interessante meccanismo psico-fisiologico; dei due testi seminali di Michael Faraday (1853), “Table-turning” e “Experimental Investigation on Table-Moving”; per finire con “Physiology of mind-reading” (1877) di George Beard, scritti che, insieme, decretarono la “morte” di fenomeni misteriosi come i “tavoli giranti” e la “lettura del pensiero” e che conservano una straordinaria importanza attuale se pensiamo alle pretese degli attuali sostenitori di pseudomedicine, pseudoscienze e pseudoteorie scientifiche.

Queste mie traduzioni, corredate da una opportuna introduzione da cui ho ricavato, fra l’altro, il post che state leggendo, completano l’opera che avevo già iniziato traducendo lo scritto di Carpenter sopra citato.

Potrei in futuro tradurre altri testi classici dedicati all’azione ideomotoria, fino a realizzare un vero e proprio libretto. Vedremo. Nel frattempo buona lettura con Carpenter, Faraday e Beard.

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Uteri biblici in affitto

Da Wikipedia:

La surrogazione di maternità, maternità surrogata, detta anche gestazione d’appoggio o gestazione per altri (spesso abbreviata in GPA) è una forma di procreazione assistita in cui una donna (definita madre surrogata, gestante d’appoggio, gestante per altri o portatrice gestazionale) provvede alla gestazione per conto di una o più persone, che saranno il genitore o i genitori del nascituro.

Il ricorso a tale metodo viene solitamente sancito attraverso un contratto, in cui il futuro genitore (o i futuri genitori) e la gestante dettagliano il procedimento, le sue regole, le sue conseguenze, il contributo alle spese mediche della gestante e, solo in alcuni Paesi, l’eventuale retribuzione della gestante stessa per il servizio offerto: in quest’ultimo caso è comune la locuzione «utero in affitto», talvolta impropriamente usata per indicare in senso negativo la surrogazione di maternità in generale. Ci si riferisce alla surrogazione di maternità come “altruistica” per descrivere le leggi delle realtà dove non è permesso un contributo pecuniario alla gestante, come ad esempio negli Stati membri dell’Unione europea ove è legale la pratica; per contro, dove esistono leggi che permettono la remunerazione, essa si definisce “retribuita” o “lucrativa”. In alcuni sistemi sono legali entrambi i tipi di pratica; in Russia e Ucraina ad esempio esistono norme che regolano sia la surrogazione altruistica che retribuita.

Siamo abituati a vedere la surrogazione di maternità come qualcosa di moderno, se non contemporaneo. Crediamo che tale formula sottenda un modo tutto attuale di interpretare la maternità e la genitorialità in genere. Istintivamente, siamo propensi a ritenere che tale pratica non potesse trovare piede in epoche lontane, convinti che il concetto di famiglia, oggi a dir il vero, traballante, un tempo fosse più saldo ed esclusivo.

Del resto, la Chiesa cattolica condanna da sempre la maternità surrogata, ritenendola una pratica che “offende la dignità umana”, una forma di “mercificazione del corpo delle donne, ridotto ad una semplice funzione del mercato, e di una dissociazione pericolosa tra persona e maternità”.

Eppure, è proprio nel Vecchio Testamento che troviamo storie ed indicazioni che sembrano sostenere questa forma di maternità. L’esempio più lampante ci viene da Genesi 30, dove è possibile leggere:

Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!». Giacobbe s’irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?». Allora essa rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io una mia prole per mezzo di lei». Così essa gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei. Bila concepì e partorì a Giacobbe un figlio. Rachele disse: «Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce, dandomi un figlio». Per questo essa lo chiamò Dan. Poi Bila, la schiava di Rachele, concepì ancora e partorì a Giacobbe un secondo figlio. Rachele disse: «Ho sostenuto contro mia sorella lotte difficili e ho vinto!». Perciò lo chiamò Nèftali.

Allora Lia, vedendo che aveva cessato di aver figli, prese la propria schiava Zilpa e la diede in moglie a Giacobbe. Zilpa, la schiava di Lia, partorì a Giacobbe un figlio. Lia disse: «Per fortuna!» e lo chiamò Gad. Poi Zilpa, la schiava di Lia, partorì un secondo figlio a Giacobbe. Lia disse: «Per mia felicità! Perché le donne mi diranno felice». Perciò lo chiamò Aser (Genesi 30, 1-13).

Come è possibile sostenere con convinzione una posizione contraria al proprio libro religioso di riferimento? Come è possibile per un cattolico condannare la maternità surrogata, quando è proprio di questo che parla (e che ratifica) il suo libro sacro?

Chi si meravigliasse di questo, dovrebbe ricordare che la religione è piena zeppa di contraddizioni di ogni tipo. La Bibbia, in particolare – il testo sacro dei cattolici per eccellenza – è piena di incoerenze, dovute anche al fatto che in essa confluiscono autori, periodi e credenze diverse. Qualche anno fa pubblicai la traduzione di un libro che presentava parecchie di queste antinomie. È il libro che vedete nell’immagine, ormai disponibile solo nel circuito dei remainders.

Certo, nel caso citato in precedenza, il rapporto monetario sotteso alle attuali forme di maternità surrogata non è presente nella Bibbia in quanto sostituito dal rapporto padrone-serva. Ma ciò va solo a demerito di una società, quale quella descritta in Genesi, in cui i rapporti quotidiani erano incentrati sulla schiavitù e sulla subalternità femminile.

Le attuali forme di maternità surrogata sono basate su altri presupposti, primo fra tutti quello della libertà e dell’autodeterminazione degli individui; concetti che, in periodo biblico, appaiono decisamente futuristici.

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