Fabio Rampelli e lo “statement” di Galeazzo Ciano

È della fine di marzo la notizia che un esponente di Fratelli d’Italia, Fabio Rampelli, ha presentato una proposta di legge che prevede il pagamento di una somma variabile da 5.000 a 100.000 euro per chi si rende colpevole di “forestierismo linguistico”, macchiandosi dell’utilizzo di termini non appartenenti alla lingua italiana, con particolare riferimento alla pubblica amministrazione.

Rampelli fa parte dello stesso schieramento politico che ha coniato l’espressione “Ministero delle Imprese e del Made in Italy”. Sul sito del Ministero è possibile leggere termini come “privacy”, “investor”, “telemarketing”, “rating”, “reach”, “space economy” e così via. Un’abbondanza di forestierismi che contraddice le velleità puristiche di Rampelli, il quale evidentemente crede che, in un’epoca globale quale la nostra, possa esistere una lingua “autarchica” e incontaminata, un idioma senza macchie, forse integro da secoli, che le brutte parole straniere minacciano di “sporcare” con suoni “strani” e significati incomprensibili.

Per quanto si possa discutere sulla diffusa tendenza a usare termini stranieri a sproposito, più per il loro effetto connotativo che per una esigenza effettivamente avvertita dai parlanti, il purismo linguistico è, nel migliore dei casi, velleitario, nel peggiore, ridicolo, come dimostra la vicenda della campagna condotta dal fascismo contro le parole straniere.

Non molti ricordano che il regime di Mussolini impose una tassa sull’uso delle parole non italiane (regio decreto n. 352 dell’11 febbraio 1923), che ricorda da vicino le sanzioni amministrative previste dalla proposta di legge di Rampelli. Durante il ventennio, il fascismo condusse una campagna xenofoba virulenta contro ogni parola e locuzione straniera, accusando addirittura di lesa maestà chiunque utilizzasse espressioni forestiere al posto di quelle italiane.

L’ostilità verso le parole straniere si intensificò nel 1938. Furono vietati denominazioni e nomi stranieri per i locali di pubblico spettacolo (regio decreto legge del 5 dicembre 1938, n. 2172) e per i neonati di nazionalità italiana (art. 72 del nuovo Ordinamento dello stato civile, promulgato con regio decreto del 9 luglio 1939, n. 1238). Furono italianizzati nomi e cognomi stranieri e proposti sostituti italiani per una serie di sostantivi da tempo entrati nella lingua italiana. Ad esempio, furono suggeriti “fin di pasto” per dessert; “arlecchino” per cocktail; “comunella” per passe-partout; “panfrutto” per plum cake ecc. La maggior parte di queste proposte non ebbe mai seguito.

La battaglia si estese alle minoranze linguistiche e ai dialetti, avvertiti come gravi attentati alla vera italianità.

In realtà, furono gli stessi gerarchi fascisti a tradire spesso la purezza linguistica che pure tentarono di imporre con ogni mezzo. Ad esempio, nel suo Diario, alla data del 14 luglio 1938, Galeazzo Ciano, Ministro degli affari esteri, scrive:

Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del «Giornale d’Italia» di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui.

Che uno dei principali esponenti di un regime passato alla storia per aver intrapreso una battaglia contro ogni forestierismo utilizzi l’inutile statement al posto dell’italiana “dichiarazione”, peraltro in un contesto informale come può essere una scrittura diaristica, è segno di come, allora come oggi, si predicasse in un modo e si agisse in un altro. Proprio come gli esponenti del partito di maggioranza di oggi che propongono leggi puristiche nel momento stesso in cui ricorrono a parole straniere di ogni genere per conferire importanza, lustro ed esoticità al proprio operato. Un vezzo ipocrita che sconfessa l’assioma di fondo di questi “tentativi purificatori”: quello dell’esistenza di una lingua pura.

Non esistono lingue pure così come non esistono razze pure. Dovremmo averlo imparato da tempo, ma evidentemente certe lezioni non si apprendono mai.

Fonte: Valeria Della Valle, Riccardo Gualdo, 2023, Le parole del fascismo. Come la dittatura ha cambiato l’italiano, Accademia della Crusca – la Repubblica, GEDI, Torino, pp. 27; 74-96).

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Uno smascheratore del Quattrocento

La cosiddetta Donazione di Costantino, o Constitutum Constantini o Privilegium Sanctae Romanae Ecclesiae, datata 30 marzo 315, è un falso, forse il più celebre della storia occidentale insieme ai cosiddetti Protocolli dei savi anziani di Sion e con questi condivide il dubbio merito di essere la contraffazione che ha generato il maggior numero di conseguenze concrete sul maggior numero di persone.

Per secoli essa è stata brandita opportunisticamente a sostegno delle pretese temporali della Chiesa di Roma, assurgendo a pezza d’appoggio di rivendicazioni senza fondamento. Un caso quasi unico di testo in cui forse nemmeno i suoi sostenitori più accaniti hanno mai creduto fino in fondo, ma che ha prodotto, nondimeno, effetti reali e, come detto, non di poco conto.

Siamo abituati a pensare, secondo le coordinate manichee impartiteci sin dall’infanzia, che ciò che è finto o falso sia destinato ad avere conseguenze altrettanto false, irreali. La storia ci ha insegnato da tempo che questo pilastro dell’istruzione scolastica tradizionale si regge su piedi di argilla, che si sgretolano facilmente a contatto con la realtà dei fatti. La verità è che, per secoli, l’umanità ha condotto la propria esistenza in base a credenze false di ogni genere; cosa che accade ancora oggi. Non a caso, sistemi filosofici e religiosi insistono sul fatto che la vita è illusione e che non potremmo vivere senza la rassicurante presenza del falso.

È per questo che una falsificazione può guidare la condotta umana, a condizione, ovviamente, che sia creduta vera. Come già sospettava Matteo 13, 58: «E non fece molti miracoli a causa della loro incredulità». La fede, la credenza, la credulità, ovvero fattori psicologici, sono in grado di rivestire di verità la finzione, facendola apparire in una luce autentica. E facendo scaturire da essa miracoli di ogni sorta.

Lo scritto che troverete qui descrive che cosa fu la Donazione di Costantino, come fu usata, quali furono le conseguenze del suo utilizzo, come fu smascherata da Lorenzo Valla, homo rixosus, filologo e umanista del Quattrocento, polemico e inquieto, autore di un opuscolo dissacratorio ancora oggi attualissimo per il quale fu costretto anche a comparire davanti all’Inquisizione.

Una lettura necessaria che ci mostra come già nel Medioevo, l’epoca del falso, intellettuali e filologi dedicassero il loro tempo a demolire imposture e fake news.

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Distanza e inversione rituale nella psicologia del turista

Noi viaggiamo per strade e mari al fine di vedere ciò che non degniamo di uno sguardo quando si trova sotto i nostri occhi. Ciò accade perché la natura ha così fatto le cose che noi prediligiamo ciò che è lontano e restiamo indifferenti a ciò che è vicino oppure perché ogni desiderio perde d’intensità quando è facile soddisfarlo, o perché ci disinteressiamo di ciò che possiamo vedere quando ci piace, sicuri che ben presto avremo l’occasione di capitarci davanti (Plinio il giovane, Epistolario, Lettera ai familiari).

Questa frase di Plinio il Giovane, citatissima da agenzie e guide turistiche, al punto da essere diventata un luogo comune per gli addetti ai lavori, richiama condotte e atteggiamenti con cui tutti abbiamo estrema familiarità. Più un luogo è lontano, “esotico”, e non solo geograficamente, più ci appare appetibile e più desideriamo visitarlo. E questo da sempre, stando a Plinio, che attribuisce questa caratteristica addirittura alla natura umana.

Così, se, nell’antichità, i romani preferivano come mete turistiche la Grecia, l’Egitto e l’Asia, noi contemporanei preferiamo le Maldive, Zanzibar e gli Stati Uniti, non solo perché distanti, ma anche perché distanti. Più remoto è un luogo, più impegno e tempo richiede arrivarci, maggiore sarà il suo fascino.

La distanza finisce con il conferire valore a una meta turistica solo in quanto distanza. Questo perché «la distanza provoca un effetto alone sui prodotti, trasforma agli occhi dell’osservatore una destinazione in un’esperienza più coinvolgente e meno scontata, in altre parole più “autentica” della solita località di massa, vicina, dove vanno tutti» (Dall’Ara, G., 1990, Perché le persone vanno in vacanza?, Franco Angeli, Milano, p. 48).

Questo fenomeno si accompagna a un altro che è definito “inversione rituale” in base al quale, quando andiamo in vacanza, tendiamo a mettere in atto comportamenti inversi rispetto alla ordinarietà, quasi che il tempo trascorso in luoghi distanti imponesse una sospensione della normalità quotidiana.

Così, se viviamo in un luogo freddo, privilegiamo mete calde. Se adottiamo abitualmente una dieta morigerata, ci diamo alla golosità sfrenata. Se la nostra vita è fin troppo tranquilla, desideriamo il rischio e l’avventura. Se abitiamo nel sud del mondo, siamo attratti dal nord e viceversa (Dall’Ara, 1990, pp. 90-93).

È come se il tempo della vacanza fosse un tempo speciale, un tempo “sacro”, liminale, in cui ritmi e stili di vita si capovolgono rispetto all’ordinario e sperimentiamo inversioni antropologiche, che assegnano un significato diverso alle nostre esistenze.

Si potrebbe quasi dire, al riguardo, che il desiderio di terre lontane e l’inversione rituale abbiano un valore religioso per noi, forse uno dei pochi a cui ancora ci affidiamo nella nostra contemporaneità.

E forse questo vuol dire che andiamo in vacanza non solo per evadere dalla routine quotidiana, per svago, per ricaricare le energie, per compensazione (nel senso che la vita ordinaria genera tensioni che il turismo permette di compensare per sopravvivere), per emulazione, ma anche perché il turismo rappresenta per alcuni di noi l’ultimo rituale che ci consente di muoverci in una situazione fuori dal tempo ordinario, l’ultima Thule della religione, la dimensione postrema in cui solo riusciamo ad avvertire qualcosa di affine a un sentimento numinoso.

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L’atto ideomotorio in William James

La domanda è: la mera idea degli effetti sensibili di un movimento è sufficiente mentalmente a stimolarlo o è necessario un ulteriore antecedente mentale, sotto forma di una risoluzione, una decisione, un consenso, un mandato della volontà o altro fenomeno simile della coscienza, prima che si verifichi il movimento?

Rispondo: talvolta la mera idea è sufficiente, ma altre volte è necessario che intervenga e preceda il movimento un ulteriore elemento conscio, sotto forma di una risoluzione, un mandato o un consenso espresso. I casi in cui non si manifesta una decisione rappresentano la varietà più fondamentale, perché più semplice. Gli altri, che dovranno essere esaminati al momento opportuno, hanno una natura più complessa. Per il momento, dedichiamoci all’atto ideomotorio, come è stato definito, ossia a quel tipo di processo volitivo che si traduce nella sequenza del movimento conseguente alla sua mera idea.

Ogni volta che un movimento segue immediatamente e senza esitazioni alla sua idea, abbiamo un atto ideomotorio. Non siamo, dunque, consapevoli di che cosa intercorra tra la concezione e la sua esecuzione. Intervengono, ovviamente, numerose reazioni neuromuscolari, ma non sappiamo assolutamente nulla di esse. Pensiamo all’atto ed esso ha luogo; e questo è tutto ciò che l’introspezione ci rivela della questione. Il dr. Carpenter, che per primo, credo, ha adoperato l’espressione atto ideomotorio, l’ha collocato, se non mi sbaglio, tra le curiosità della nostra vita mentale. La verità è che non si tratta di una curiosità, ma semplicemente di un normale processo spogliato di ogni apparenza. Mentre parlo, mi accorgo di uno spillo sul pavimento o di alcuni granelli di polvere sulla mia manica. Senza interrompere la conversazione, rimuovo la polvere o raccolgo lo spillo. Non formulo una decisione espressa, ma la mera percezione dell’oggetto e la fugace idea dell’atto sembrano sufficienti di per sé a provocare il fatto. Allo stesso modo, siedo a tavola dopo pranzo e mi trovo, di tanto in tanto, a spiluccare noci o uva passa da un piatto. In realtà, il pranzo è finito e, preso dalla conversazione, quasi non me ne rendo conto, ma la percezione della frutta e la fugace idea di mangiarla sembrano inevitabilmente provocare il fatto. Certamente, non siamo qui di fronte a una decisione, non diversamente da quanto capita in tutti gli accadimenti abituali e nei riassestamenti che riempiono ogni ora della nostra vita e che le sensazioni che ci giungono provocano in maniera talmente immediata che è spesso difficile decidere se chiamarli riflessi o atti volontari (James, W, 1890, “Ideo-Motor Action”, in Principles of Psychology, vol. II, Dover Publications, New York., pp. 522).

Sono queste le parole con cui William James inizia il paragrafo dei suoi Principles of psychology dedicato all’atto ideomotorio, nel capitolo riguardante l’analisi della volontà.

Si tratta di poche pagine che testimoniano dell’interesse del grande psicologo americano per un tema apparentemente banale come quello dei piccoli movimenti involontari che intervengono in tante situazioni della vita quotidiana e che permettono di spiegare fenomeni banali e apparentemente straordinari, come ho osservato qui in una raccolta di scritti di autori vari dedicati al tema.

La raccolta è ora completa, almeno per quanto mi riguarda, e qui potete trovare il libricino comprensivo della traduzione di queste pagine di James. Chissà che non ne nasca una pubblicazione in futuro!

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Cambiare identità attraverso errori di interpretazione

Ellis Island è una piccola isola della baia di New York che, dal 1892 al 1954, ha “accolto” milioni di immigrati provenienti dall’Europa. Qui, i nuovi arrivati venivano identificati, visitati da medici e psichiatri, registrati e accompagnati al molo per imbarcarsi sul traghetto per Manhattan. Se giudicati deformi, ciechi, sordi, portatori di malattie contagiose o affetti da malattie mentali, venivano espulsi dal suolo americano. Una iattura per tanti, se si pensa che il viaggio dall’Europa agli Stati Uniti durava più di un mese e spesso l’aspirante migrante aveva speso tutto ciò che aveva per il viaggio. Attualmente, Ellis Island è sede di un importante museo che ricorda quei giorni.

Le procedure di ammissione agli Stati Uniti erano disciplinate da regole burocratiche, spesso sbrigative e brutali, oltre che disumane. Tale brutalità era evidente durante le fasi di registrazione e delle visite mediche in cui i migranti erano esaminati come carne da macello. Il grande numero di essi non contribuì certamente a mitigare le procedure di ammissione, che si svolgevano spesso in un clima di incomprensione e indifferenza nei confronti delle sorti di quegli uomini e donne, che per gli americani non erano altro che poveri straccioni analfabeti in cerca di un’occupazione.

Durante la fase di registrazione, in particolare, che prevedeva l’annotazione di nome, luogo di nascita, stato civile, professione e precedenti penali, era facile che l’incontro con tante lingue diverse e la frettolosità delle operazioni inducesse il personale addetto a vari tipi di errori. Alcuni di questi finivano con il cancellare per sempre l’identità del nuovo venuto, trasformando il nome o il luogo di provenienza con effetti tanto tragici quanto ridicoli.

Al riguardo, Corrado Augias, nel libro I segreti di New York, racconta un aneddoto esemplare, non si sa se inventato, tratto da un’operetta dello scrittore francese George Perec, che vale la pena di citare per intero:

A un vecchio ebreo russo era stato suggerito di dichiarare un nome americano, in modo che gli agenti dell’immigrazione non faticassero a trascriverlo. Il vecchio chiese consiglio alla prima persona incontrata che gli suggerì “Rockefeller”. Continuò a ripetersi quel nome per tutto l’interminabile tempo in cui rimase in fila, con il risultato che quando arrivò davanti ai commissari dell’immigrazione se l’era dimenticato. Alla domanda di come si chiamasse balbettò desolato in yiddish “Schon vergessen”, l’ho dimenticato. Impassibile il commissario scrisse sul registro “John Ferguson”.

In questo modo, attraverso un tratto di penna mistificatore, il nuovo venuto veniva ribattezzato, la sua storia cancellata, la sua identità contraffatta, la sua umanità affidata allo sbadiglio di un agente dell’immigrazione.

Equivoci del genere, di cui oggi ridiamo, hanno avuto un impatto devastante sulle esistenze di milioni di persone, costrette a reinventarsi in un ambiente culturale, sociale, linguistico alieno e, frequentemente, ostile. Chissà quanti John Ferguson sono entrati negli Stati Uniti. Chissà quanti di essi hanno avuto figli che continuano ad avere un nome inventato per un errore di interpretazione!

Fonte:

Augias, C., 2001, I segreti di New York, Oscar Mondadori, Milano, p. 191.

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Che cos’è la lettura del pensiero

La “lettura del pensiero”, detta anche “cumberlandismo”, dal nome del celebre mentalista inglese Stuart Cumberland (1857-1922), è una forma di esibizione artistica in cui il performer è chiamato a trovare un oggetto nascosto in una stanza mentre si trova in un’altra. Ciò viene fatto tramite varie tecniche, ad esempio prendendo per mano una delle persone che hanno visto nascondere l’oggetto e lasciandosi guidare dalla tensione muscolare dello spettatore. Una tecnica indubbiamente di non facile esecuzione, che è valsa onori e gloria a tanti mentalisti.

La “lettura del pensiero” fu studiata in particolare dal neurologo e fisiologo americano George Miller Beard (1839-1883), il quale analizzò con particolare attenzione le prestazioni del mentalista, e suo connazionale, John Randall Brown (1851-1926), uno dei più celebri dell’epoca, e condusse numerosi esperimenti in prima persona con vari soggetti.

Brown chiedeva ai partecipanti ai suoi spettacoli di nascondere un oggetto in un luogo scelto da loro e di poggiare il dorso della loro mano sulla sua fronte. Toccando la mano e lasciandosi guidare dai movimenti non deliberati dei suoi “complici”, Brown riusciva a localizzare l’oggetto nascosto tra lo stupore degli spettatori, alcuni dei quali non esitavano ad attribuirgli doti magiche. La spiegazione, tuttavia, di tali capacità era molto più “secolare” di quanto essi pensassero, come dimostrò Beard in vari suoi scritti.

Perché riuscivano gli spettacoli di Brown? A causa, rispose Beard, dei movimenti muscolari involontari e inconsci dei soggetti che vi partecipavano e da cui Brown si lasciava guidare nelle sue performance. Sulla scia di scienziati famosi come Carpenter e Faraday, Beard riuscì così a fornire una spiegazione razionalmente e scientificamente soddisfacente per la comprensione di fenomeni “misteriosi” che i più attribuivano all’azione di aure, vibrazioni misteriose e al “magnetismo animale” di cui parlava, più di mezzo secolo prima, Franz Anton Mesmer. In altre parole, la cosiddetta “lettura del pensiero” non era altro che “lettura muscolare”.

Per comprendere questo affascinante aspetto del pensiero umano, ho tradotto qui vari testi di autori che si sono occupati della cosiddetta “azione ideomotoria”. Si parte dal testo di William Carpenter (1852) “On the influence of suggestion in modifying and directing muscular movement, independently of volition”, atto battesimale di questo interessante meccanismo psico-fisiologico; dei due testi seminali di Michael Faraday (1853), “Table-turning” e “Experimental Investigation on Table-Moving”; per finire con “Physiology of mind-reading” (1877) di George Beard, scritti che, insieme, decretarono la “morte” di fenomeni misteriosi come i “tavoli giranti” e la “lettura del pensiero” e che conservano una straordinaria importanza attuale se pensiamo alle pretese degli attuali sostenitori di pseudomedicine, pseudoscienze e pseudoteorie scientifiche.

Queste mie traduzioni, corredate da una opportuna introduzione da cui ho ricavato, fra l’altro, il post che state leggendo, completano l’opera che avevo già iniziato traducendo lo scritto di Carpenter sopra citato.

Potrei in futuro tradurre altri testi classici dedicati all’azione ideomotoria, fino a realizzare un vero e proprio libretto. Vedremo. Nel frattempo buona lettura con Carpenter, Faraday e Beard.

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Uteri biblici in affitto

Da Wikipedia:

La surrogazione di maternità, maternità surrogata, detta anche gestazione d’appoggio o gestazione per altri (spesso abbreviata in GPA) è una forma di procreazione assistita in cui una donna (definita madre surrogata, gestante d’appoggio, gestante per altri o portatrice gestazionale) provvede alla gestazione per conto di una o più persone, che saranno il genitore o i genitori del nascituro.

Il ricorso a tale metodo viene solitamente sancito attraverso un contratto, in cui il futuro genitore (o i futuri genitori) e la gestante dettagliano il procedimento, le sue regole, le sue conseguenze, il contributo alle spese mediche della gestante e, solo in alcuni Paesi, l’eventuale retribuzione della gestante stessa per il servizio offerto: in quest’ultimo caso è comune la locuzione «utero in affitto», talvolta impropriamente usata per indicare in senso negativo la surrogazione di maternità in generale. Ci si riferisce alla surrogazione di maternità come “altruistica” per descrivere le leggi delle realtà dove non è permesso un contributo pecuniario alla gestante, come ad esempio negli Stati membri dell’Unione europea ove è legale la pratica; per contro, dove esistono leggi che permettono la remunerazione, essa si definisce “retribuita” o “lucrativa”. In alcuni sistemi sono legali entrambi i tipi di pratica; in Russia e Ucraina ad esempio esistono norme che regolano sia la surrogazione altruistica che retribuita.

Siamo abituati a vedere la surrogazione di maternità come qualcosa di moderno, se non contemporaneo. Crediamo che tale formula sottenda un modo tutto attuale di interpretare la maternità e la genitorialità in genere. Istintivamente, siamo propensi a ritenere che tale pratica non potesse trovare piede in epoche lontane, convinti che il concetto di famiglia, oggi a dir il vero, traballante, un tempo fosse più saldo ed esclusivo.

Del resto, la Chiesa cattolica condanna da sempre la maternità surrogata, ritenendola una pratica che “offende la dignità umana”, una forma di “mercificazione del corpo delle donne, ridotto ad una semplice funzione del mercato, e di una dissociazione pericolosa tra persona e maternità”.

Eppure, è proprio nel Vecchio Testamento che troviamo storie ed indicazioni che sembrano sostenere questa forma di maternità. L’esempio più lampante ci viene da Genesi 30, dove è possibile leggere:

Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!». Giacobbe s’irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?». Allora essa rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io una mia prole per mezzo di lei». Così essa gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei. Bila concepì e partorì a Giacobbe un figlio. Rachele disse: «Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce, dandomi un figlio». Per questo essa lo chiamò Dan. Poi Bila, la schiava di Rachele, concepì ancora e partorì a Giacobbe un secondo figlio. Rachele disse: «Ho sostenuto contro mia sorella lotte difficili e ho vinto!». Perciò lo chiamò Nèftali.

Allora Lia, vedendo che aveva cessato di aver figli, prese la propria schiava Zilpa e la diede in moglie a Giacobbe. Zilpa, la schiava di Lia, partorì a Giacobbe un figlio. Lia disse: «Per fortuna!» e lo chiamò Gad. Poi Zilpa, la schiava di Lia, partorì un secondo figlio a Giacobbe. Lia disse: «Per mia felicità! Perché le donne mi diranno felice». Perciò lo chiamò Aser (Genesi 30, 1-13).

Come è possibile sostenere con convinzione una posizione contraria al proprio libro religioso di riferimento? Come è possibile per un cattolico condannare la maternità surrogata, quando è proprio di questo che parla (e che ratifica) il suo libro sacro?

Chi si meravigliasse di questo, dovrebbe ricordare che la religione è piena zeppa di contraddizioni di ogni tipo. La Bibbia, in particolare – il testo sacro dei cattolici per eccellenza – è piena di incoerenze, dovute anche al fatto che in essa confluiscono autori, periodi e credenze diverse. Qualche anno fa pubblicai la traduzione di un libro che presentava parecchie di queste antinomie. È il libro che vedete nell’immagine, ormai disponibile solo nel circuito dei remainders.

Certo, nel caso citato in precedenza, il rapporto monetario sotteso alle attuali forme di maternità surrogata non è presente nella Bibbia in quanto sostituito dal rapporto padrone-serva. Ma ciò va solo a demerito di una società, quale quella descritta in Genesi, in cui i rapporti quotidiani erano incentrati sulla schiavitù e sulla subalternità femminile.

Le attuali forme di maternità surrogata sono basate su altri presupposti, primo fra tutti quello della libertà e dell’autodeterminazione degli individui; concetti che, in periodo biblico, appaiono decisamente futuristici.

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L’incredibile storia dei “suicidi per procura”

Vi è un capitolo poco noto della criminologia suicidaria che vale la pena di raccontare. Si tratta di un fenomeno sconcertante che interessò alcuni paesi europei tra il XVI e il XIX secolo e che, per fortuna, fu abbastanza circoscritto. Ne parla la storica Kathy Stuart in un articolo del 2008 dal titolo “Suicide by Proxy: The Unintended Consequences of Public Executions in Eighteenth-Century Germany” che si legge come una storia e che lascia il lettore a bocca aperta, perché oggi, nel XXI secolo, mai immagineremmo che fenomeni del genere siano mai potuti accadere. La vicenda dei “suicidi per procura” (suicides by proxy), come li battezza la Stuart, è estremamente interessante anche perché mostra a quali aberrazioni possa condurre la salda credenza in alcuni dogmi religiosi e l’osservanza di norme morali in contrasto tra loro.

Come è noto, per i cristiani il suicidio è tradizionalmente considerato un peccato. Nel passato, questa consapevolezza induceva negli aspiranti suicidi un terribile dilemma: da un lato, la sofferenza “terrena” per una vita giudicata non più degna di essere vissuta; dall’altro, il timore, in caso di suicidio, di soffrire le pene dell’Inferno, e quindi una sofferenza ancora più atroce di quella patita in vita.

Come risolvere questo dilemma? Per alcuni, la soluzione si rivelò tanto ingegnosa quanto terribile. Dal momento che, nell’Europa moderna, la pena per l’omicidio era l’esecuzione capitale, quale migliore corso di azione che uccidere un innocente, preferibilmente un bambino – in modo che questi sarebbe andato comunque in Paradiso – , consegnarsi alla giustizia, essere condannati a morte dalle autorità, pentirsi e ricevere l’assoluzione da parte del sacerdote e morire per mano del boia nella certezza di non essere condannati all’Inferno in virtù della remissione di tutti i peccati?

Deve averla pensata così, il 24 maggio 1704, la trentenne Agnes Catherina Schickin, la quale, giunta nel villaggio di Krumhard, in Germania, si imbatte in quattro bambini che giocano al lato della strada. La donna chiede a uno di loro, Hans Michael Furch, di sette anni, figlio del bovaro locale, di accompagnarla a Schorndorf in cambio di un regalo. Giunti in una foresta, la Schickin taglia la gola al bambino per poi recarsi a Schorndorf, dove si consegna alle autorità del posto. Interrogata sul motivo della sua terribile azione, la donna risponde che «il bambino era ormai “salvo” e che lo aveva fatto solo perché anche lei potesse “lasciare questo mondo”, dato che il boia l’avrebbe certamente uccisa».

Comportamenti così aberranti, frutto di un conflitto tra norme religiose – i suicidi non potevano vedersi assolti dai propri peccati; gli omicidi sì – non furono affatto cosa rara, se molte autorità secolari emanarono editti e provvedimenti di vario genere per arginarne il numero.

Stuart dimostra che il “suicidio per procura” era più diffuso tra i protestanti che tra i cattolici e tra le donne più che tra gli uomini. I protestanti assunsero nei confronti del fenomeno un atteggiamento più ambivalente perché la ricerca dell’assoluzione prima della morte appariva un obiettivo tradizionalmente cattolico che contrastava con la dottrina della salvezza per sola grazia che tanto caratterizzò il luteranesimo. D’altro canto, i teologi cattolici, che pure credevano che i cristiani dovessero fare penitenza per espiare i loro peccati, non avevano certo in mente il caso dei suicidi per procura.

Le autorità secolari cercarono di rispondere alla sfida lanciata da questa nuova fattispecie criminale in vari modi. Alcuni stati introdussero pene particolarmente atroci per questo genere di reato, come  l’impalamento invece della decapitazione. Gli stati dello Schleswig e dell’Holstein, invece, stabilirono, nel 1767, che coloro che uccidevano con l’intenzione di porre termine alla propria vita non sarebbero stati condannati a morte, ma ai lavori forzati, alla marchiatura, alla fustigazione pubblica e alla gogna annuale in catene. Anche la Prussia, nel 1794, decise di non ricorrere alla pena capitale per questo genere di reati, ma alla prigione a vita e alla fustigazione periodica. In questo modo, venne meno ogni motivo per uccidere da parte di questi “criminali”.

Il fenomeno del “suicidio per procura” scomparve gradualmente nel XIX secolo, ma lo studio della Stuart mostra come l’adesione acritica a dogmi religiosi profondamente creduti possa scatenare comportamenti distruttivi paradossali e aberranti.

Colpevoli perché troppo religiosi, potremmo aggiungere nel nostro giudizio su questi poveri infelici alle prese con le contraddizioni della dottrina cristiana.

Da questo punto di vista, la conquista della laicità appare sicuramente un modo per non cadere più in simili pervertimenti. Oggi che i dogmi religiosi non hanno più presa sui credenti come una volta, è difficile che si verifichino crimini come quelli che ho appena raccontato. Certo, esistono anche crimini di laicità, ma questa è un’altra storia.

Fonte: Kathy Stuart, 2008, “Suicide by Proxy: The Unintended Consequences of Public Executions in Eighteenth-Century Germany”, Central European History, vol. 41, n. 3, pp. 413–445.

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La disneylandizzazione del mondo

È stata l’economista Sylvie Brunei a coniare il termine «disneylandizzazione del mondo» a indicare il fatto che l’industria del turismo non fa altro che proporre simulacri di luoghi, terre esotizzate, spettacoli di pura evasione e città ridotte a uso esclusivo o quasi dei turisti che decantano una autenticità che è solo camuffamento del finto, del fasullo, del facsimile.

E così la nostra fame di autentico a tutti i costi viene soddisfatta attraverso la somministrazione di fake su misura, buoni per tutte le tasche e tutti i gusti.

Un po’ in tutto il mondo, le tradizioni diventano pura scenografia, valorizzazione dello stereotipo, ricetta da ammannire secondo canoni prevedibili e desiderati proprio perché prevedibili. Danze, costumi, ambienti, cibi vengono spettacolarizzati, semplificati e cristallizzati in forme senza tempo e senza spazio per dare luogo a «vetrine identitarie» tipiche e pittoresche, funzionali alle attese dei turisti in cerca di esotismo, impazienti di lasciarsi spaesare.

Così, chi viene a Napoli si aspetta di trovare un ambiente suggestivo e accogliente, di mangiare determinati cibi (sfogliatella, pizza ecc.) in determinati modi, di imbattersi in persone calorose e “mediterranee”, musiche eternamente melodiose e glorificate dalla immutabilità, pulcinella sempre divertiti e divertenti, una storia ferma a qualche secolo fa. Perché è questo che il turista vuole. E il territorio si adegua, realizzando una delle più incredibili profezie che si autoavverano della storia umana.

Come ricorda Gilles Lipovetsky,

gli operatori del settore portano in scena un immaginario stereotipato dei «costumi» scorporati dal loro contesto sociale di origine, abbelliscono i riti antichi, smerciano un patrimonio sclerotizzato e ricreato artificialmente, fabbricano degli universi sotto una campana di vetro, delle bolle turistiche asettiche e sicure, moralizzate e artificiali, mondate di ogni elemento potenzialmente problematico. La disneylandizzazione consacra su scala planetaria la vittoria del falso e dell’artificiale sull’autenticità, il trionfo commerciale del cliché, dello spettacolo, della turistizzazione del patrimonio (Lipovetsky, G., 2022, La fiera dell’autenticità, Marsilio, Venezia, p. 277).

Il turismo è propagandato come risorsa dei territori, fonte di ricchezza e di lavoro, ma è anche forma di evasione per masse perennemente alienate (e che continueranno a esserlo fino alla morte) e soprattutto stravolgimento del quotidiano a favore del falso-che-appare. Insomma, nel nostro mondo che pure anela l’autenticità più autentica, viviamo sommersi dal non-autentico per convenienza e perché lo esige l’economia.

Niente di male, si potrebbe obiettare. Il falso e l’illusione fanno parte della vita. Anzi, la rendono degna di essere vissuta. Disneylandizzare il mondo significa, però, renderlo merce di plastica. È questo il falso di cui abbiamo davvero bisogno?

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Cavallette nella Bibbia

Che la Bibbia sia un magma composito di testi provenienti da autori diversi, scritti in epoche diverse e con intenti diversi è un fatto noto a chi non si lascia tentare dall’illusione di credere che sia un testo ispirato da Dio, come per anni ci hanno insegnato.

Tale polifonia di voci, tempi, luoghi e intenzioni ha come conseguenza che nella Bibbia è possibile trovare contraddizioni, discordanze, incoerenze di ogni tipo che solo una fede cieca può far finta di non vedere. Tra l’altro, è possibile trovare argomentazioni a sostegno di qualsiasi tesi, per quanto bizzarra essa sia.

Nei giorni scorsi, mi è capitato di imbattermi su Facebook nelle due citazioni presenti nell’immagine sopra, che qui ripropongo nella versione CEI:

Sarà per voi in abominio anche ogni insetto alato, che cammina su quattro piedi. Però fra tutti gli insetti alati che camminano su quattro piedi, potrete mangiare quelli che hanno due zampe sopra i piedi, per saltare sulla terra. Perciò potrete mangiare i seguenti: ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di acridi e ogni specie di grillo (Levitico 11, 20-22)

Giovanni portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano locuste e miele selvatico (Matteo 3, 4).

Queste due citazioni, prelevate forzosamente dal loro contesto, vengono divulgate allo scopo di mostrare che, perfino nei testi biblici, è possibile rinvenire argomentazioni a favore del consumo di insetti, tema, come sappiamo, piuttosto attuale e che trova opposizione fra i più tradizionalisti, convinti che cibarsi di farina di grillo, ad esempio, sia qualcosa di aberrante e innaturale, oltre che inaudito.

Le due citazioni bibliche ci dicono esattamente il contrario: perfino gli “eroi” dei Testi Sacri si cibavano di insetti, anzi un certo consumo era addirittura raccomandato e certamente non era considerato aberrante. Grazie a tale avallo, dunque, cibarsi di insetti dovrebbe essere riconosciuto dalla tradizione, soprattutto da quella che individua nella Bibbia un testo di riferimento essenziale.

Nella Bibbia, tuttavia, possiamo rinvenire altri significati associati agli insetti. Ad esempio, le cavallette sono considerate da Esodo una piaga nefasta, come ricorda il seguente passo:

Allora il Signore disse a Mosè: «Stendi la mano sul paese d’Egitto per mandare le cavallette: assalgano il paese d’Egitto e mangino ogni erba di quanto la grandine ha risparmiato!». Mosè stese il bastone sul paese di Egitto e il Signore diresse sul paese un vento d’oriente per tutto quel giorno e tutta la notte. Quando fu mattina, il vento di oriente aveva portato le cavallette. Le cavallette assalirono tutto il paese d’Egitto e vennero a posarsi in tutto il territorio d’Egitto. Fu una cosa molto grave: tante non ve n’erano mai state prima, né vi furono in seguito. Esse coprirono tutto il paese, così che il paese ne fu oscurato; divorarono ogni erba della terra e ogni frutto d’albero che la grandine aveva risparmiato: nulla di verde rimase sugli alberi e delle erbe dei campi in tutto il paese di Egitto (Esodo 10, 12-15).

Per la Bibbia, le cavallette sono qualcosa che si può divorare, ma, contemporaneamente, qualcosa che può divorare noi. Sono creature da cui possiamo tratte alimento e vita, ma anche distruzione e morte. Sono luce e ricchezza, ma anche tenebra e miseria.

La Bibbia è piena di tali contraddizioni. Ad esempio, secondo il passo prescelto, sappiamo che Dio è dappertutto, vede e conosce tutto, ma anche che non è dappertutto, non vede né conosce tutto. Così pure, leggiamo brani che autorizzano la rapina, la violenza e lo stupro, e brani che proibiscono radicalmente simili comportamenti; brani che consentono agli uomini di portare capelli lunghi e brani che lo vietano; passi che incoraggiano l’uso di bevande inebrianti e brani che scoraggiano tale uso.

Retoricamente, la Bibbia è uno straordinario testo giustificazionista. Se volete sostenere la verità di un argomento a cui tenete, appoggiatevi alla Bibbia. I suoi contenuti non sono persuasivi come un tempo, ma sono ancora tremendamente efficaci.

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