Il mutuo come strumento di controllo sociale

Che cosa c’è di più ordinario e normale che accendere un mutuo, contrarre un’ipoteca, indebitarsi per acquistare una casa, un oggetto di consumo, una vacanza, un intervento chirurgico? Lo fanno tutti oggi. È così che va la vita. E poi vuoi mettere i vantaggi che ti consente di ottenere? Permetterti cose che altrimenti non potresti permetterti. Imitare i divi del momento e trascorrere un periodo di vacanze come loro. Coronare il sogno di una casa tua e solo tua per sempre.

Quanti riflettono, però, sul fatto che un mutuo, un debito, un’ipoteca sono, a tutti gli effetti, veri e propri strumenti di controllo sociale e politico? Leggiamo quello che dice in proposito Marco D’Eramo:

È solo nel XX secolo che il debito assurge a vero e proprio strumento di controllo politico. Lo fa innanzitutto come controllo delle singole persone, delle loro famiglie, attraverso l’istituzione del mutuo. L’Ottocento non conosceva ancora il mutuo per l’acquisto della casa come strumento disciplinatore di intere popolazioni: chi si addossa un mutuo quindicennale o trentennale non è propenso a rivoltarsi, e per una duplice ragione: 1) il mutuo lo rende proprietario di casa, e quindi gli fa interiorizzare l’ideologia proprietaria; 2) il mutuo lo rende in un certo senso debitore di se stesso, prigioniero della sua (futura) proprietà per anni e decenni a venire.

Il mutuo trentennale sulle case garantito dallo stato fu una delle principali innovazioni del New Deal di Franklin Delano Roosevelt, che non a caso esclamava: “Una nazione di proprietari di casa, di gente che si è guadagnata una porzione reale del proprio paese, è invincibile”. Prima di Roosevelt non esisteva il mutuo in senso moderno. Solo con quella riforma l’anticipo da dare per l’acquisto della casa fu abbassato al 10% del suo prezzo, e solo allora la durata del mutuo si dilatò fino a trent’anni, riducendo l’ammontare delle rate mensili, e permettendo a milioni di famiglie operaie e di borghesia piccola piccola (quella che negli Usa si chiama «classe media») di acquistare la propria casa (già negli anni cinquanta più di sei famiglie statunitensi su dieci erano proprietarie della propria dimora) (D’Eramo, M., 2023, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano, p. 129).

La durata del mutuo

si estende su venti, anche trent’anni, nel corso dei quali il debitore è supposto organizzare, in modo libero e autonomo, la sua vita in vista del rimborso. La questione del tempo, della durata è al cuore del debito. Non solo il tempo di lavoro o il tempo di vita, ma anche il tempo come possibile, come avvenire. Il debito getta un ponte tra il presente e il futuro: anticipa ed esercita una prelazione sull’avvenire. Il debito […] ipoteca nello stesso tempo comportamenti, salari, redditi futuri (D’Eramo, M., 2023, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano, p. 132).

Al mutuo bisogna aggiungere le rate per l’acquisto di qualsiasi cosa, i black Fridays, gli sconti convenienza, i vouchers, i buoni, le offerte sensazionali: tutti strumenti per plasmare l’identità del consumatore e del piccolo borghese.

Strumenti che accogliamo con favore in quanto ci consentono di raggiungere dei vantaggi si rivelano, dunque, mezzi di disciplinamento sociale, finalizzati a renderci docili nei confronti della struttura di potere in cui viviamo, a garantire la nostra fedeltà a un sistema che fa di noi dei prigionieri a vita, instillando in noi l’illusione di essere liberi e autonomi.

Il potere non ha bisogno di agire su di noi in modo platealmente coercitivo, segregandoci in celle o imponendo condotte acquiescenti in maniera brutale. Ci sono modalità più sottili e pervasive di controllo sociale che ci sorridono nel momento in cui fanno di noi degli schiavi; che ammiccano nel momento in cui rafforzano la nostra servitù; che vellicano i nostri più intimi desideri mentre ci stringono sempre più in una morsa di acciaio.

Pochi pensano al mutuo come strumento di controllo sociale e politico. I pochi che lo fanno vengono accusati di iperbole o follia. Significa che ormai, come afferma D’Eramo, abbiamo interiorizzato perfettamente i dogmi dell’individualismo proprietario su cui si regge la nostra società turbocapitalistica. E guai chi ci tocca la casa, la vacanza o gli altri oggetti acquistati con tanta fatica e dopo tanto tempo. Preferiremmo morire piuttosto che cedere di fronte alle subdole coercizioni del sistema in cui viviamo.

Pubblicato in Sociologia | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

Disgrace ≠ disgrazia

“Fucking disgrace, fucking disgrace”. Con queste parole l’allenatore della Roma José Mourinho si è rivolto all’arbitro della finale di Europa League Siviglia-Roma, persa dai giallorossi ai rigori (5-2) alla Puskas Arena di Budapest il 31 maggio scorso. L’arbitro inglese Taylor ha ricevuto insulti e parolacce anche dai tifosi romanisti, che lo hanno accusato di dirigere a senso unico – ossia a favore degli spagnoli – l’importante gara internazionale.

L’espressione fucking disgrace è stata tradotta da tantissimi quotidiani cartacei e digitali con “fottuta disgrazia”. In realtà, disgrace significa “vergogna”, “scandalo”, “disonore” e non certo “disgrazia”, intesa nel senso di “sventura”, “calamità” o “sciagura”.

Può significare “disgrazia” nel senso di “perdita di favore”, come quando si dice “cadere in disgrazia” (to fall into disgrace), ma evidentemente non è questo il significato del termine nell’espressione adoperata da Mourinho. Si tratta di un classico false friend, che, come capita ai false friends, ha tratto in inganno i giornalisti.

Siamo di fronte, dunque, a un palese errore di traduzione, motivato probabilmente da sciatteria, come spesso accade nel giornalismo. Sarebbe bastato consultare un qualsiasi dizionario bilingue per rendersene conto. Ma sembra che per i giornalisti l’unica cosa che conti sia dare quanto prima la notizia. Poi, se si commette un errore di traduzione che vuoi che sia? Il paese ha ben altri problemi a cui pensare.  

Tanto gli italiani, l’inglese non lo conoscono!

Pubblicato in errori di traduzione | Contrassegnato , , , , , | Lascia un commento

Il capitalismo è una religione

Sono d’accordo. Il capitalismo, come diceva Walter Benjamin in un abbozzo del 1921 (che potete leggere in appendice), è una religione, un sistema simbolico che soddisfa “ansie, tormenti, inquietudini”.

Non sono d’accordo. Il capitalismo non è una religione “puramente cultuale”, priva di dogmi e di teologie. Dogmi e teologie – e anche teologi – esistono e come.

Il dogma principale su cui si regge il capitalismo è quello del “mercato”, entità ontologica e misteriosa che tutto vede e tutto decide, coerentemente assimilata a una divinità nei nostri discorsi: “Lo vuole il mercato”; “I mercati sono in fermento”; “Sarà il mercato a stabilirlo”. Per rendersi conto della dimensione teologica in cui si muove il capitalismo, basta sostituire in queste frasi la parola “mercato” con la parola “dio”. Il mercato – o politeisticamente “i mercati” – è panteisticamente presente nelle nostre vite. Non vi è nulla che gli sfugga, nulla che non abbia già stabilito e il suo trucco più abile consiste nel fatto che è disposto a tutto pur di farci credere che non esiste. Del resto, la sua metafora più nota è quella della smithiana “mano invisibile”. Il mercato è a noi invisibile, ma vede tutti noi benissimo.

Il capitalismo ha anche i suoi officianti: gli imprenditori. Gli imprenditori indossano i loro paramenti: giacca e cravatta, il novello saio della modernità. Gli imprenditori seguono una loro liturgia consacrata dall’uso: metodi consolidati per fare soldi che si chiamano produzione e marketing. Gli imprenditori hanno un unico fine: conseguire profitti. Il profitto sta al capitalista, come la salvezza sta al cristiano. Oggi, tutti vogliono essere imprenditori, così come un tempo tutti volevano farsi preti. Per sopravvivere e ottenere prestigio.  Sono finiti perfino i tempi in cui venivano chiamati oltraggiosamente “padroni”. Oggi, “imprenditore” è una “bella” parola.

Il capitalismo ha i suoi luoghi di culto: le borse, le grandi aziende, le multinazionali dove, giorno dopo giorno, viene celebrata la religione del capitale-sempre-investito perché il capitale non sta mai fermo. Tuttavia, come il dio delle religioni, il capitale è “in cielo, in terra e in ogni luogo”: si espande e moltiplica i suoi tentacoli di piovra senza soluzione di continuità così che, in realtà, il mondo tutto è il suo luogo sacro. Dove sono due o tre riuniti nel suo nome, esso è in mezzo a loro. E all’umanità piace riunirsi nel suo nome.   

Come afferma Benjamin, il capitalismo è una religione per la quale “non esistono “giorni feriali”: ogni giorno è festivo”. Ogni giorno è utile per conseguire profitti. Non esistono barriere o laccioli. Tutto il resto è noia, o meglio, vuoto. Il capitalismo è sempre attivo, non dorme mai, non si concede licenze o moratorie. Sfuggirgli è praticamente impossibile. Perfino i nostri sogni possono essere capitalizzati. Tutto può essere mercificato, ossia asservito al capitalismo. Anche il corpo e la dignità.

Il capitalismo è talmente pervasivo che si insinua e domina perfino il linguaggio, che non a caso mutua molti suoi termini dalla religione. Parole come mission, redemption, vision, vocazione, community, fidelizzazione (loyalty), customer loyalty, fidelity card/programs, follower (seguace), ricompensa (reward), sofferenza (quando il cliente è valutato dalla banca come “insolvente”), valori e conversione vengono oggi disinvoltamente adoperati nel gergo degli addetti ai lavori per descrivere le loro azioni e conferire loro un senso ieratico di cui sembrano molto fieri. Non esiste una lingua neutra e le alternative rimandano a epoche pregresse che non torneranno più. Anche l’onore appare un sentimento vetusto, sostituito dalla reputazione, asset indispensabile dell’esistenza produttiva nella contemporaneità.

Al tempo stesso, in ambito scolastico, è tutto un parlare di “crediti” e “debiti”. In ambito lavorativo, si esibiscono termini come management e performance. In medicina e in psicoterapia, i “clienti” hanno ormai sostituito i “pazienti”. Nel linguaggio quotidiano si usano acriticamente termini come “il tempo è denaro”, “al netto di”, “fare il bilancio della propria vita”, “mercato dei sentimenti”, “rendimento scarso”, “prestazione”, “essere competitivi”, “acquistare credito”, “essere produttivo”, “ogni cosa ha il suo prezzo”, “sono in deficit”, “come sei fiscale!”  ecc.

La verità è che il capitalismo ha ormai raggiunto la più perfetta egemonia culturale, ossia gramscianamente la direzione e il dominio assoluto delle idee. Basta provare a proporre ideali diversi, lontani dal credo capitalistico, che le persone vi guarderanno come si guarda un folle, un idiota o, al meglio, un passatista. È questo che fa una religione (o un’ideologia) quando prevale sulle altre: si spaccia per senso comune, per si-è-sempre-creduto-così e fa pensare a tutti che concepire idee diverse sia profondamente sbagliato, se non, come detto, folle.

Il capitalismo dominante impone a tutti una religione unica, quella incarnata, in politica, dal liberalismo (nelle sue varianti post-) e, in economia, dal liberismo (nelle stesse varianti). La sua struttura ideale è molto semplice e non richiede alcuno sforzo particolare, al limite nessun sacrificio. Il sacrificio è sostituito dal consumo: più si consuma, più si esprime appartenenza e meno si corrono rischi di deragliare. Il consumo ha sostituito, a tutti gli effetti pratici, gli antichi riti espiatori, sacrificali e propiziatori. Se si vuole guadagnare piena appartenenza alla società odierna, è necessario dimostrare di essere un buon consumatore. Sempre e ovunque.

Come la religione crea la colpa con il peccato originale, così il capitalismo crea il debito come colpa suprema da espiare e l’indebitato (verschuldend nel linguaggio di Benjamin) come suo sommo rappresentante. Siamo tutti perennemente in debito grazie al mutuo, alla rata e a tutti gli strumenti tramite cui il capitalismo ci avvinghia al proprio sistema, rendendocene fedeli servitori, impadronendosi del tempo e dei soldi che abbiamo.

Come tutte le religioni finora conosciute, il capitalismo è una religione che non tollera eresie, scostamenti dai suoi dogmi, pensieri alternativi. Ogni difformità è presto ridicolizzata, marginalizzata, criminalizzata o – tattica sublime – incorporata e resa docile, incanalata nei melliflui circuiti mercificanti del “sistema” (parola oggi inattuale). Ogni intellettuale che osi mettere in discussione le fondamenta del capitalismo, ad esempio, verrà disinnescato attraverso la concessione di una posizione all’interno dell’università, la pubblicazione di un libro di successo, il conseguimento dello status di “pensatore indipendente”, tutte strategie utilizzate per cooptare il dissenziente all’interno del “sistema” e ricondurlo a più miti consigli. L’arma della cooptazione è più subdola ed efficace di quella della marginalizzazione o della criminalizzazione e rappresenta una caratteristica vincente della religione ecumenica del capitalismo.

Abbiamo bisogno di un ateismo radicale che ci consenta di liberarci definitivamente da questa religione onnipervasiva che si chiama capitalismo, riconducendola a uno dei tanti modi di vedere il mondo. È una impresa difficile, titanica, apparentemente impossibile. Per compierla abbiamo bisogno di un’eresia, forse di una nuova religione, sicuramente di una nuova inquietudine, che oggi, assuefatti come siamo ai dogmi del capitalismo trionfante, non siamo nemmeno in grado di concepire. Siamo tutti morfinomani in questo sistema. E disintossicarci è difficile in questa valle di lacrime.

In appendice a queste riflessioni: Walter Benjamin, Il capitalismo come religione (1921).

Il capitalismo come religione

Walter Benjamin (1921)

Versione di: Leonardo Maria Battisti, febbraio 2020.

Nel capitalismo va scorta una religione; cioè il capitalismo serve essenzialmente a soddisfare le stesse ansie, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni.

Provare tale struttura religiosa del capitalismo (non à la Weber, come costruzione in guisa religiosa, bensì come fenomeno in sé religioso) sarebbe inutilmente polemogeno perché prematuro. Non si può sciogliere la rete su cui stiamo sospesi. Solo il futuro ne darà una visione d’insieme.

Eppure il presente già offre tre tratti di questa struttura religiosa del capitalismo.

PRIMO. Il capitalismo è una religione puramente cultuale, forse la più estrema mai esistita. In esso tutto ha significato solo in rapporto diretto col culto; senza alcuna specifica dogmatica, né teologia. L’utilitarismo ottiene, da questo punto di vista, la sua tonalità religiosa.

SECONDO. A tale concrezione del culto segue: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci [senza tregua e senza pietà]. Non esistono “giorni feriali”: ogni giorno è festivo nel terribile senso di: dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estremo sforzo del venerante.

TERZO. Tale culto “colpevolizza e indebita” [verschuldend]. Il capitalismo è forse il primo culto a non espiare, bensì creare “colpa & debito” [verschuldend]. Così tale sistema religioso è immesso in un movimento immane. Una piena coscienza della colpa [Schuldbewuβtsein], irredimibile, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per includere Dio stesso in questa colpa, per render pur esso bisognoso di espiazione. Espiazione che non va attesa dal culto stesso, né da una riforma di tale religione (che dovrebbe reggersi su qualcosa di saldo in essa), né da una sua abiura. Essenza di questo movimento religioso (il capitalismo) è procedere fino alla totale e completa colpevolizzazione di Dio: sperare di raggiungere lo stato di disperazione cosmica. Novità storica del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, bensì la sua tabe. Dilatare la disperazione a stato religioso cosmico; e da ciò aspettarsi la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma non è morto; bensì subisce il destino umano. Tale transito del pianeta Uomo per la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della sua orbita, è l’ethos trovato da Nietzsche. L’oltreuomo è chi per primo inizi di proposito a compiere la religione capitalistica.

Ecco un QUARTO tratto di questa religione: il suo Dio va occultato finché non sarà permesso invocarlo solo allo zenit della sua “colpevolizzazione & indebitamento”. Il culto è celebrato ante una divinità immatura: farsene un’immagine o un’idea lede il segreto della sua maturità.

Pure la psicanalisi costituisce la ierocrazia di questo culto. Freud pensa in guisa affatto capitalistica. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è analogo (come non è stato ancora studiato) al capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga un interesse.

Il tipo di pensiero religioso capitalistico trova espressione grandiosa nella filosofia di Nietzsche. L’idea dell’oltreuomo pone il “salto” apocalittico (anziché nel trasmutarsi [Umkehr], nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza) in una crescita del quarto tratto apparentemente continua, ma in realtà esplosiva e discontinua. Crescita ed evoluzione sono incompatibili nel senso del “non facit saltum”. L’oltreuomo è l’uomo storico cresciuto fino ad attraversare il cielo senza trasmutarsi. Nietzsche ha pronosticato questo sfondamento del cielo da parte di un elemento umano cresciuto, che (pure per Nietzsche) è e resta sul piano religioso colpevolizzazione.

Lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non si trasmuta diviene socialismo grazie agli interessi semplici e composti che sono funzioni della colpa-debito (tale è l’ambiguità demoniaca del termine Schuld).

Il capitalismo è una religione di puro culto, senza dogma.

Il capitalismo occidentale (come provato per il calvinismo; ma provabile per le altre correnti cristiane) si è sviluppato come parassita del cristianesimo, tant’è che la storia del cristianesimo è in sostanza la storia del suo parassita: il capitalismo.

(Da paragonare: le immagini sacre delle diverse religioni da un lato e dall’altro le banconote dei vari Stati. Lo spirito che parla dall’ornamento delle banconote).

Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto: Sorel, Réflexions sur la violence, p. 262.

Superamento del capitalismo mediante la migrazione: Unger, Politik und Metaphysik, p. 44.
Fuchs: Struktur der kapitalistischen Gesellschaft (o qualcosa di simile).

Max Weber: Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 2 voll., 1919-1920.

Ernst Troeltsch: Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. I, 1912).

Si vedano le indicazioni bibliografiche di Schönberg, II.
Landauer, Aufruf zum Sozialismus, p. 144.

Inquietudini: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica. Spirituale (non materiale) assenza di scampo: monachesimo errante e mendicante. Una situazione così senza scampo è colpevolizzante-indebitante. Le “inquietudini” sono l’indice di tale coscienza della colpa-di-non-aver-scampo. Le “inquietudini” sorgono dall’angoscia che non c’è scampo a livello comunitario (non individuale-materiale).

Il cristianesimo nell’epoca della Riforma si è fatto capitalismo (anziché favorir il sorger del capitalismo).

Sul piano metodologico andrebbero anzitutto indagati quali legami col mito il denaro abbia stretto lungo la storia, finché ha poi tratto dal cristianesimo così tanti elementi mitici da costruirsi un proprio mito.

Guidrigildo / thesaurus delle buone opere / compenso dovuto al prete. Pluto come dio della ricchezza.

Adam Müller: Reden über die Beredsamkeit, 1816, p. 56 sgg.

Nesso fra capitalismo & dogma della natura dissolutrice del sapere (la quale è in grado di redimerci e insieme di ucciderci): il bilancio quale sapere che redime e che liquida.

Per capire che il capitalismo è una religione, giova rammentare che il paganesimo originario concepisse la religione non come un interesse “superiore” e “morale”, bensì come il più immediato interesse pratico. Cioè, come il capitalismo odierno, esso non aveva chiara la sua natura “ideale” o “trascendente”, bensì stimava l’individuo irreligioso o eterodosso della sua comunità un membro indubitabile della comunità, proprio nel senso in cui la borghesia di oggi considera i suoi membri senza reddito.

Fonte: https://www.marxists.org/italiano/benjamin/capitalismo-religione.htm

 

Pubblicato in religione, Sociologia | Contrassegnato , , , , , , | Lascia un commento

Essere ciarlatani

Oggi come ieri, imperversano i ciarlatani. Un tempo si chiamavano Francesco Giuseppe Borri, Giuseppe Balsamo, alias Cagliostro o Franz Anton Mesmer. Nella contemporaneità abbiamo la “cura Di Bella”, il “siero Bonifacio”, il “metodo Stamina”.  

Ma chi è il ciarlatano? Quali sono i tratti che lo caratterizzano? Come possiamo riconoscerlo? Perché ancora oggi tante persone continuano a credere in chi promette loro la luna a dispetto delle assurdità delle sue teorie? A che cosa si devono i suoi apparenti successi? E se la storia della ciarlataneria rivelasse alcune caratteristiche profonde dell’atteggiamento mentale delle persone?

A tutte queste domande tento di rispondere in questo breve articolo che mette insieme una serie di riflessioni e classificazioni di esperti in materia.

Un modo rapido ma importante di riconoscere chi tenta di ingannarci, propinandoci tesi bizzarre di ogni tipo.

Pubblicato in Sociologia | Contrassegnato , , , , | Lascia un commento

Anche i pettegolezzi servono: parola di Max Gluckman

Non c’è dubbio che un consenso morale diffuso individui nel pettegolezzo una sventura comunicativa, un’ulcera linguistica, una carie sociale da evitare e rimuovere senza indugi dal repertorio delle interazioni quotidiane. Il/la pettegolo/pettegola – colui/colei che ritiene di essere in diritto di soppesare i suoi simili, sovente alle loro spalle, atto supremo di vigliaccheria secondo i canoni etici dominanti – giudica negativamente il prossimo quando si trova in sua compagnia, sparla di questo e quello come se non fossero umani come lui (o lei), diffondendo malignità, svalutazioni, calunnie, diffamazioni, seminando zizzania, innescando conflitti, incomprensioni, rotture tra amici e conoscenti, mettendo a dura prova i legami sociali.

Se esaminato con la lente dello psicologo, agisce spinto/spinta da moventi inconfessabili che si chiamano, secondo i casi, invidia, pessimismo, aggressività, frustrazione, odio, rancore, risentimento, vendetta, bigottismo o, più banalmente, maleducazione. A volte, giudica gli altri per coprire le sue colpe, per evitare di assumersi la responsabilità del proprio comportamento, di mettersi in discussione o di fare ricadere l’attenzione su di lui (o lei).

Per il/la pettegolo/pettegola ogni occasione è buona per dire male dell’altro: un modo particolare di vestirsi, un taglio di capelli estroso, una predilezione alimentare, un determinato gusto musicale. A volte, le sue parole sono espresse per abitudine: chi parla frequentemente male degli altri crede che sia “normale” farlo, che non ci sia niente di sbagliato nelle sue chiacchiere, che, in fondo, si tratti di una condotta innocua, un modo per passare il tempo. La sua inclinazione alla maldicenza riflette spesso un egocentrismo estremo, racchiuso nella celebre frase biblica di Luca 6, 41: vede la pagliuzza nell’occhio del prossimo, ma non la trave nel suo. Così facendo, proietta negatività e disperazione sugli altri per allontanarle da sé.

Così facendo, il pettegolezzo rischia di avere effetti dirompenti sul tessuto sociale, di costituire una sorta di lallazione esulcerante. La chiacchiera, in altre parole, non interessa solo la dimensione psicologica, ma anche quella sociologica. Una parola o una critica fuori posto possono disgregare in maniera irreparabile una relazione sentimentale, un gruppo sociale, un’organizzazione, la stabilità politica di una nazione, un assetto economico. Possono generare un conflitto intestino o con un nemico esterno; distruggere un rapporto di fiducia; alimentare odio intergruppale, minare una istituzione sociale faticosamente costruita. Quanti conflitti sono nati in seguito a un “si dice che…” sussurrato (casualmente o no) nell’orecchio!

Insomma, sembra esserci un giudizio negativo unanime sul pettegolezzo, vizio, malcostume da purificare con cospicue dosi di buona educazione e consapevolezza dei danni che può provocare alle persone, alle comunità, alla società tutta.

E, però.

Nel senso comune, un pregiudizio molto diffuso vuole che ci sia un profondo isomorfismo tra ciò che è negativo – crimine, devianza, violenza – e i suoi effetti. In altre parole, da ciò che è negativo non può che derivare altro negativo. Questa fallacia è conosciuta nel mondo anglosassone con il nome di pestilence fallacy e può essere descritta come l’idea che all’origine di ogni cosa che è negativa non possano che esservi cagioni altrettanto negative e dunque che le principali cause, ad esempio, della criminalità sono l’analfabetismo, la miseria, la disoccupazione, le disuguaglianze sociali. Questa fallacia ha perso oggi quasi ogni credibilità: è noto a tutti, ad esempio, che anche i cittadini danarosi (i “colletti bianchi”) commettono reati. Meno noto è, però, il paradosso inverso: a volte anche dal negativo possono derivare effetti positivi. Lo dimostra proprio il caso del pettegolezzo.

Una tradizione psicologica, sociologica e antropologica consolidata, sebbene quasi di nicchia, ha dimostrato da tempo che il gossip non è un cicaleccio vuoto e odioso come ordinariamente e moralisticamente si crede, ma svolge una serie di importanti, quanto sottovalutate, funzioni psicologiche, antropologiche e sociali.

Uno dei sostenitori di questa interpretazione è l’antropologo di origine sudafricana Max Gluckman (1911-1975). Sfruttando alcune intuizioni di antropologi e sociologi come Paul Radin, Melville Jean Herskovits, Elizabeth Colson, Ronald Frankenberg, Gluckman afferma che gossip and scandal (“pettegolezzi e maldicenze”) – questo il titolo del suo seminale articolo del 1963 – possiedono insospettabili virtù positive in quanto preservano l’unità, la morale e i valori dei gruppi sociali. Essi, inoltre, consentono di tenere sotto controllo i gruppi concorrenti e gli individui che aspirano ad essere loro membri, “calmierando” sogni e ambizioni.

Le maldicenze possono essere utilizzate anche per segnare e confermare divisioni di gruppo, per individuare il nemico da contrastare, per far sì che l’ostilità diventi un modo per tenere saldo il gruppo. 

I pettegolezzi possono essere considerati come una raffinata forma di aggressione verbale, da condursi immancabilmente “alle spalle” in quanto gli insulti a viso aperto metterebbero in serio pericolo la continuazione del rapporto, sebbene solo apparentemente amichevole, tra pettegolo/pettegola e spettegolato/spettegolata.

Gluckman individua altre funzioni positive di pettegolezzi e maldicenze. Qui trovi la traduzione integrale – per la prima volta in italiano – di Gluckman, M., 1963, “Papers in honor of Melville J. Herskovits: Gossip and Scandal”, Current Anthropology, vol. 4, n. 3, pp. 307-316 con una mia introduzione al tema delle funzioni positive del pettegolezzo. Qui, invece, il testo originale affiancato alla mia traduzione.

Pubblicato in Antropologia, criminologia | Contrassegnato , , , | Lascia un commento

Agiatezza e comportamenti illeciti

Sono numerosi i film e le serie televisive che ritraggono coloro che appartengono alle classi sociali agiate come individui avidi, disposti a tutto pur di prevalere sul prossimo e poco inclini a rispettare le “banali” norme etiche della vita quotidiana.

Nel 2012, data di pubblicazione dell’articolo degli psicologi Piff, Stancato, Mendoza-Denton, Keltner e Côté, Higher social class predicts increased unethical behavior, tale rappresentazione ha avuto una conferma scientifica.

Dopo aver condotto ben sette esperimenti, alcuni dei quali molto creativi, i cinque ricercatori della University of California e della University of Toronto hanno rilevato che coloro che appartengono alle classi più agiate tendono effettivamente a esibire comportamenti sociali poco etici in misura maggiore rispetto a coloro che appartengono alle classi sociali inferiori.

In particolare, la ricerca ha dimostrato che, rispetto agli omologhi appartenenti alla lower class, gli individui della upper class hanno una maggiore probabilità di infrangere le norme di guida, di pervenire a decisioni poco etiche, di sottrarre beni di valore, di mentire durante una negoziazione, di raggirare il prossimo per accrescere le probabilità di vincere un premio e di approvare condotte di lavoro illecite.

Secondo gli studiosi, ciò è dovuto al fatto che, negli ambienti altolocati, vi sarebbe un atteggiamento più positivo nei confronti dell’avidità e del perseguimento di fini egoistici. I privilegi di cui si gode in queste classi stimolerebbero una condotta indipendente dagli altri e una tendenza a conferire uno status prioritario a se stessi e al proprio benessere rispetto a quello degli altri. Le persone facoltose, dunque, violerebbero le norme perché, in qualche modo, si reputerebbero “al di sopra della legge”.

Tra i sette studi eseguiti dai ricercatori, è opportuno considerare due ricerche sul campo, condotte tramite osservazione naturalistica, che hanno preso ad esame lo stile di guida dei soggetti studiati. Deducendo la classe sociale dal tipo di auto guidata, Piff e colleghi hanno evidenziato che chi guida auto costose tende a tagliare la strada agli altri automobilisti e a non fermarsi alle strisce pedonali in misura quattro volte maggiore rispetto a chi conduce auto più modeste.

In un altro studio, i ricercatori hanno manipolato i partecipanti facendo in modo che questi “sentissero” di appartenere a una classe agiata o deprivata. Il risultato è stato che i primi hanno sottratto, due volte più dei secondi, caramelle destinate ai bambini e contenute in un barattolo: un comportamento davvero poco etico!

In tutte le sette ricerche, concludono gli studiosi, la tendenza generale è che più aumenta la classe sociale di un individuo, più aumenta la sua probabilità di comportarsi in maniera poco etica.

Si tratta, ovviamente, di una ricerca di tipo esplorativo a cui sarebbe errato attribuire significati definitivi. È inevitabile, però, riandare con la memoria agli antichi imperatori che, con un semplice gesto, erano in grado di decidere la vita dei loro subalterni o al celebre “Lei non sa chi sono io” con cui tanti ricchi segnala(va)no ai loro interlocutori il diritto a privilegi non riconosciuti dalla legge o al celebre sonetto del Belli Li soprani der monno vecchio in cui compare il famoso verso “Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo”, poi ripreso anche da Alberto Sordi.

Nobili e altolocati si sono sempre sentiti superiori al resto della popolazione e, nonostante i tempi siano diversi e i nobili non ci siano più, è probabile che i loro omologhi contemporanei continuino a sentirsi allo stesso modo. Anche se, forse, non hanno più la spudoratezza di dirlo in pubblico.

Fonte: P. K. Piff, D. M. Stancato, S. Cote, R. Mendoza-Denton, D. Keltner. “Higher social class predicts increased unethical behavior”. Proceedings of the National Academy of Sciences, 2012.

Pubblicato in psicologia, Sociologia | Lascia un commento

Le preghiere del precario

“Precario”: “Incerto”, “instabile”, dal latino: precarius “ottenuto con preghiere”, “per grazia” (da prex “preghiera”).

L’etimologia tradisce immediatamente che si è precari perché ciò che si può ottenere è raggiungibile solo pregando altri. Chi prega lo fa perché ha bisogno dell’altro per avere ciò che desidera. Allo stesso modo, chi è precario ha bisogno di rivolgersi umilmente, servilmente, ad altri per avere un lavoro, per guadagnarsi da vivere o per altri motivi.

Se pensiamo che oggi la precarietà è la cifra della nostra esistenza liquida e incerta – incerta lavorativamente, sentimentalmente, esistenzialmente, politicamente, economicamente – è agevole trarre la conclusione che, nella nostra epoca apparentemente dissacrata, distante da ogni divinità e gesto di supplica, siamo tutti fedeli oranti che preghiamo per un modicum di stabilità, umiliandoci e implorando il potente di turno – o almeno chi ha più potere di noi – per una concessione che ci permetta di vivere nell’illusione di un’àncora esistenziale, per quanto effimera.

E così preghiamo, supplichiamo. E non solo per il lavoro. Supplichiamo il politico di raccomandarci per quella multa che non vogliamo pagare. Ci rivolgiamo umilmente al(la) nostro(a) partner del momento affinché rimanga sempre al nostro fianco “finché morte non ci separi”. Uniamo le mani e piangiamo per chiedere giustizia in seguito a un torto (reale o immaginario) subito. Ci inginocchiamo di fronte alla nostra attrice preferita perché regali un sorriso rivolto unicamente a noi. Imploriamo la nostra diva del porno di poter baciare le sue escrescenze carnose. Chiediamo all’influencer preferito di spendere una parola per noi. Invochiamo il nostro brand prediletto affinché lo indossiamo nella convinzione che essere marchiati da quello ci garantirà l’eternità della nostra condizione di consumatori.

Insomma, precari preghiamo. Spesso anticipando la preghiera con un altro termine di origine religiosa: “Mi perdoni, vorrei chiederle…”. Chi l’avrebbe detto che il vocabolo simbolo della nostra epoca instabile e irreligiosa affonda le proprie radici in una dimensione che a noi contemporanei sembra estranea e inattuale: quella religiosa? A volte è proprio vero che gli estremi – o almeno i distanti – si toccano.

O, forse, semplicemente, la preghiera è talmente connaturata a noi umani che, perfino in un tempo secolarizzato come il nostro, abbiamo bisogno di ripetere i medesimi gesti di umiliazione che ci caratterizzano da secoli, sebbene travestendoli in una nuova forma nominale: quella del precariato.

Pubblicato in religione, Sociologia | Contrassegnato , | Lascia un commento

Ansia, astronauti e superstizioni

Secondo il celebre antropologo di origine polacca Bronislaw Malinowski, che esaminò le pratiche degli abitanti dell’arcipelago delle Trobriand nel libro Magic, Science and Religion (1948), «troviamo la magia dovunque gli elementi del caso e dell’imprevisto e il gioco emotivo tra speranza e timore dominano in lungo e in largo. Non troviamo la magia dove l’obiettivo è certo, sicuro e governato da metodi razionali e processi tecnologici. Inoltre, troviamo la magia dove l’elemento del pericolo è ben presente. Non la troviamo dove la sicurezza assoluta elimina ogni elemento di presagio». Malinowski cita l’esempio della pesca nelle Trobriand. Gli abitanti dei villaggi presso la laguna interna, dove la pesca è abbondante e non presenta pericoli, non ricorrono a procedure magiche per favorire questa attività; al contrario nei villaggi sul mare aperto, dove la pesca è più rischiosa e incerta, il ricorso al rituale magico è comune. Lo stesso avviene in guerra. I trobriandesi usano forza, coraggio e agilità per avere la meglio sui nemici, ma quando la fortuna e il caso sono decisivi, la magia diventa un grosso aiuto.

La tesi di Malinowski, semplice ed elegante, presta il fianco a numerose critiche. Sappiamo, ad esempio, che lo studente ricorre al rituale superstizioso quando deve sostenere un esame, anche se l’esito della prova dovrebbe dipendere interamente dalle conoscenze acquisite nel corso del suo apprendimento. Ugualmente, persone istruite o, comunque, in possesso di conoscenze specifiche possono aderire a rituali superstiziosi quando utilizzano quelle conoscenze per raggiungere uno scopo. Non è, dunque, del tutto vero che gli individui credono nelle superstizioni perché hanno scarsa istruzione e conoscenza e che, se sapessero davvero come funzionano le cose, non sarebbero superstiziosi. Ugualmente, non è del tutto vero che, se le persone non avessero paura dell’ignoto, non compirebbero determinate azioni. In realtà, questa concezione fa a pugni con un dato più volte confermato: chi crede nelle superstizioni può appartenere a qualsiasi strato sociale e avere qualsiasi livello di istruzione. Lo testimonia anche il detto “Non è vero, ma ci credo”, che significa che si è consapevoli della falsità della credenza superstiziosa, ma la si mette in pratica comunque.  

Tuttavia, la teoria di Malinowski si applica splendidamente a un episodio diventato leggendario.

Il 12 aprile 1961, durante il tragitto verso la rampa di lancio, Jurij Gagarin, il primo essere umano a volare intorno alla Terra, chiese all’autista dell’autobus che lo trasportava di fermarsi. Sceso dal veicolo, urinò sulla ruota posteriore dello stesso. Salì poi di nuovo a bordo e proseguì verso la sua missione che, come è noto, ebbe uno straordinario successo.

La coincidenza tra il banale gesto fisiologico e il successo della missione ha fatto sì che, ancora oggi, gli astronauti dell’ex Unione Sovietica compiano lo stesso rito propiziatorio (anche le donne!): un comportamento indubbiamente superstizioso che si spiega con l’alto tasso di incertezza che circonda ancora oggi i viaggi nello spazio. Sembra, peraltro, che questo non sia l’unico gesto superstizioso “iniziato” da Gagarin. Altre condotte sono: tagliarsi i capelli due giorni prima del lancio, non assistere al trasporto e al posizionamento dei razzi e della navicella, bere un bicchiere di champagne la mattina della partenza e firmare la porta della camera dell’hotel prima di uscire per raggiungere la rampa.

La superstizione, dunque, “funziona” perché fornisce una sensazione di prevedibilità e controllo, riducendo l’ansia; e poiché una forte ansia tende a inibire un’azione efficace in situazioni di rischio, la superstizione può avere in certe circostanze un valore positivo in termini di sopravvivenza. In questo senso, anche le persone più razionali possono soccombere al “fascino” della superstizione.

Come è evidente, non c’è poi tanta distanza tra uomini “primitivi” e uomini “civilizzati”. Entrambi possono ricorrere al pensiero magico e superstizioso quando ne hanno cognitivamente bisogno, anche se, in altre dimensioni della vita, riescono a essere del tutto razionali

Sono le circostanze a indurci a questo o quel comportamento: se abbiamo conoscenza e controllo viriamo verso il pensiero scientifico, se viviamo situazioni dominate dall’imprevedibilità, optiamo, spesso irresistibilmente, verso il pensiero magico.

Possiamo dire che siamo esseri superstiziosi perché siamo creature ansiose. La superstizione è un potente ansiolitico e, in quanto tale, è probabile che non morirà mai.

Per una trattazione dettagliata della propensione alla superstizione degli esseri umani, rimando al mio Aloni, stregoni e superstizioni, di cui nell’immagine vedete la copertina.

Pubblicato in psicologia, religione, skepticism, Sociologia | Lascia un commento

La tirannia del normale

Prima del 1800, ricorda la ricercatrice Sarah Chaney, autrice di Sono normale? Due secoli di ricerca ossessiva della “norma” (Bollati Boringhieri, Torino, 2023), la parola “normale” per descrivere un tipo di comportamento umano o sociale non esisteva. Era un termine matematico adoperato per descrivere angoli, equazioni, formule. Nessuno parlava di persone normali, ma di linee e calcoli normali.

L’aggettivo “normale” è entrato a pieno titolo nel nostro lessico quotidiano solo nel XX secolo inoltrato, quando i concetti di normalità come media statistica e normalità come ideale stato di salute sono diventati una cosa sola. Da allora, l’opposizione binaria tra normale e patologico – ossia, tra normale e non normale – ha condizionato i nostri atteggiamenti verso il corpo, la mente, il sesso, la malattia (Chaney, 2023, pp. 9; 18; 21).

Oggi, l’idea di normalità è penetrata in maniera talmente ossessiva nel nostro modo di vedere il mondo che tendiamo ad applicarla ad ogni nostro atteggiamento e comportamento.

Il mio mal di testa è un malanno temporaneo, dovuto allo stress, una cosa “normale”? O devo preoccuparmi? Il mio interesse sessuale per la vicina che ha dieci anni meno di me è da considerarsi “normale” o patologico? Se mio figlio prende brutti voti a scuola, non sarà perché non è “normale”? Del resto, tutti suoi compagni ottengono buoni risultati: statisticamente è forse fuori norma? Sono troppo grasso/magro o sono nella normalità? Quelle voci che ieri ho sentito nella mia testa fanno di me un soggetto psichiatrico e quindi anormale? È normale che mio cugino abbia problemi con la legge? La criminalità è di per sé sintomo di anormalità? Se non ho voglia di lavorare, è perché non sono normale?

Gli interrogativi che ogni giorno ci poniamo su noi stessi e gli altri vertono, per lo più, su una qualche idea di normalità a cui desideriamo ardentemente conformarci (e conformare gli altri). la norma è il fattore tossico che condiziona tutta la nostra vita, rendendola degna o indegna di essere vissuta. La norma è il verbo dominante dei nostri tempi, la bussola che ci orienta nella vita, la bibbia laica che ha sostituito quella religiosa. Senza un’idea di normalità, semplicemente pensiamo di non potere esistere.

Non sarà che la normalità è divenuta un tiranno insopportabile di cui faremmo bene a sbarazzarci? Del resto, se l’umanità ha vissuto per tanto tempo senza un’idea di normalità, ciò può voler dire che non ne abbiamo davvero bisogno per vivere. Certo, ci sentiremmo probabilmente vuoti e spaesati a rinunciare a un concetto tanto potente e presuntuoso. Ma potremmo vivere meglio? La nostra vita sociale, affettiva, sessuale, professionale ne avrebbe vantaggio?

Però… un momento. E se il fatto puro e semplice di pormi tutti questi interrogativi facesse di me una persona irrimediabilmente anormale?

Pubblicato in Sociologia | Lascia un commento

Il bias della proporzionalità

Come inferiamo le cause degli eventi che accadono intorno a noi? Come stabiliamo che a una determinata conseguenza corrisponde una determinata causa e non altre? Quali sono i meccanismi di senso comune che ci portano a individuare in maniera sicura l’antecedente di eventi banali o gravi?

Una delle conclusioni più interessanti della recente ricerca in psicologia è che le persone tendono a considerare le conseguenze degli eventi al momento di inferire le cause di questi. In particolare, tendono a ritenere che debba esserci una qualche similarità o proporzionalità tra cause e conseguenze, per cui se le conseguenze sono grandi le cause “devono” essere altrettanto grandi e viceversa. Ciò anche quando le conseguenze non forniscono oggettivamente alcuna informazione sulle cause.

Ad esempio, come dimostrano nei loro esperimenti LeBoeuf e Norton (2012), se da un malfunzionamento del computer discendono conseguenze importanti (il licenziamento di una persona), le persone tendono a ritenere che la causa del malfunzionamento debba essere altrettanto importante (un virus potentissimo). Se, invece, le conseguenze sono di poco conto (una banale interruzione del lavoro per pochi minuti), le persone tendono a individuare cause altrettanto banali (un problema della ventola di raffreddamento del computer).

La ragione di questo atteggiamento, che può indurre distorsioni di ragionamento non trascurabili, è che le persone sono abituate a vedere il mondo come un luogo prevedibile e a interpretare gli accadimenti secondo schemi che rendono facilmente comprensibili i fatti che capitano loro.

Allo stesso modo, come provano gli esperimenti condotti da Leman e Cinnirella (2007), gli individui tendono più facilmente a sposare teorie cospiratorie se posti di fronte a uno scenario ipotetico in cui il presidente degli Stati Uniti muore in seguito a un attentato rispetto a uno scenario in cui sopravvive all’attentato.

È facile per noi verificare l’ubiquità di questo bias. Una svista arbitrale da cui discendono conseguenze di rilievo per una squadra viene immediatamente imputata a una volontà mefistofelica di danneggiare la stessa; se invece le conseguenze sono trascurabili, viene chiamata in causa la fallibilità umana degli arbitri. In economia, una grave crisi finanziaria sollecita interpretazioni causali altrettanto gravi, che spesso assumono toni complottistici.

In ambito sanitario, come è evidente da alcune interpretazioni circolate durante la recente pandemia di Covid-19, il verificarsi di una epidemia particolarmente letale induce le persone a privilegiare spiegazioni “intenzionali” (“Qualcuno deve avere pianificato a tavolino la diffusione del virus per ridurre la popolazione mondiale”) a spiegazioni casuali (il virus come prodotto accidentale di una situazione contingente). In politica, si ha difficoltà ad attribuire a fattori contestuali e sociali lo scoppio di una rivoluzione e si tende a pensare che debba essere stata voluta dai “poteri forti” per fini inconfessabili (come accadde all’indomani della Rivoluzione francese).

È evidente come questo bias, che talvolta appare irresistibile alla mente umana, possa generare interpretazioni completamente distorte degli eventi umani. In ultima analisi, esso è imputabile alla tendenza umana ad attribuire ineluttabilmente un senso che corrisponda a un criterio di equità al mondo circostante perché l’idea di un mondo caotico, preda del caso, è semplicemente insostenibile per noi. È molto più soddisfacente attribuire una causalità che percepiamo come equa che una che avvertiamo difforme rispetto ai nostri criteri di interpretazione del mondo. Molto meglio imporre un ordine cognitivo al mondo, per quanto “inventato”, che essere in balia del non ordinato.

Quanti errori, però, nel nome dell’ordine!

Riferimenti:

LeBoeuf, R. A., & Norton, M. I. (2012). Consequence-cause matching: Looking to the consequences of events to infer their causes. Journal of Consumer Research, 39(1), 128–141.

Leman, P. & Cinnirella, M. (2007). A major event has a major cause: Evidence for the role of heuristics in reasoning about conspiracy theories. Social Psychological Review. 9, 18-28.

Pubblicato in psicologia | 1 commento