Essere ciarlatani

Oggi come ieri, imperversano i ciarlatani. Un tempo si chiamavano Francesco Giuseppe Borri, Giuseppe Balsamo, alias Cagliostro o Franz Anton Mesmer. Nella contemporaneità abbiamo la “cura Di Bella”, il “siero Bonifacio”, il “metodo Stamina”.  

Ma chi è il ciarlatano? Quali sono i tratti che lo caratterizzano? Come possiamo riconoscerlo? Perché ancora oggi tante persone continuano a credere in chi promette loro la luna a dispetto delle assurdità delle sue teorie? A che cosa si devono i suoi apparenti successi? E se la storia della ciarlataneria rivelasse alcune caratteristiche profonde dell’atteggiamento mentale delle persone?

A tutte queste domande tento di rispondere in questo breve articolo che mette insieme una serie di riflessioni e classificazioni di esperti in materia.

Un modo rapido ma importante di riconoscere chi tenta di ingannarci, propinandoci tesi bizzarre di ogni tipo.

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Anche i pettegolezzi servono: parola di Max Gluckman

Non c’è dubbio che un consenso morale diffuso individui nel pettegolezzo una sventura comunicativa, un’ulcera linguistica, una carie sociale da evitare e rimuovere senza indugi dal repertorio delle interazioni quotidiane. Il/la pettegolo/pettegola – colui/colei che ritiene di essere in diritto di soppesare i suoi simili, sovente alle loro spalle, atto supremo di vigliaccheria secondo i canoni etici dominanti – giudica negativamente il prossimo quando si trova in sua compagnia, sparla di questo e quello come se non fossero umani come lui (o lei), diffondendo malignità, svalutazioni, calunnie, diffamazioni, seminando zizzania, innescando conflitti, incomprensioni, rotture tra amici e conoscenti, mettendo a dura prova i legami sociali.

Se esaminato con la lente dello psicologo, agisce spinto/spinta da moventi inconfessabili che si chiamano, secondo i casi, invidia, pessimismo, aggressività, frustrazione, odio, rancore, risentimento, vendetta, bigottismo o, più banalmente, maleducazione. A volte, giudica gli altri per coprire le sue colpe, per evitare di assumersi la responsabilità del proprio comportamento, di mettersi in discussione o di fare ricadere l’attenzione su di lui (o lei).

Per il/la pettegolo/pettegola ogni occasione è buona per dire male dell’altro: un modo particolare di vestirsi, un taglio di capelli estroso, una predilezione alimentare, un determinato gusto musicale. A volte, le sue parole sono espresse per abitudine: chi parla frequentemente male degli altri crede che sia “normale” farlo, che non ci sia niente di sbagliato nelle sue chiacchiere, che, in fondo, si tratti di una condotta innocua, un modo per passare il tempo. La sua inclinazione alla maldicenza riflette spesso un egocentrismo estremo, racchiuso nella celebre frase biblica di Luca 6, 41: vede la pagliuzza nell’occhio del prossimo, ma non la trave nel suo. Così facendo, proietta negatività e disperazione sugli altri per allontanarle da sé.

Così facendo, il pettegolezzo rischia di avere effetti dirompenti sul tessuto sociale, di costituire una sorta di lallazione esulcerante. La chiacchiera, in altre parole, non interessa solo la dimensione psicologica, ma anche quella sociologica. Una parola o una critica fuori posto possono disgregare in maniera irreparabile una relazione sentimentale, un gruppo sociale, un’organizzazione, la stabilità politica di una nazione, un assetto economico. Possono generare un conflitto intestino o con un nemico esterno; distruggere un rapporto di fiducia; alimentare odio intergruppale, minare una istituzione sociale faticosamente costruita. Quanti conflitti sono nati in seguito a un “si dice che…” sussurrato (casualmente o no) nell’orecchio!

Insomma, sembra esserci un giudizio negativo unanime sul pettegolezzo, vizio, malcostume da purificare con cospicue dosi di buona educazione e consapevolezza dei danni che può provocare alle persone, alle comunità, alla società tutta.

E, però.

Nel senso comune, un pregiudizio molto diffuso vuole che ci sia un profondo isomorfismo tra ciò che è negativo – crimine, devianza, violenza – e i suoi effetti. In altre parole, da ciò che è negativo non può che derivare altro negativo. Questa fallacia è conosciuta nel mondo anglosassone con il nome di pestilence fallacy e può essere descritta come l’idea che all’origine di ogni cosa che è negativa non possano che esservi cagioni altrettanto negative e dunque che le principali cause, ad esempio, della criminalità sono l’analfabetismo, la miseria, la disoccupazione, le disuguaglianze sociali. Questa fallacia ha perso oggi quasi ogni credibilità: è noto a tutti, ad esempio, che anche i cittadini danarosi (i “colletti bianchi”) commettono reati. Meno noto è, però, il paradosso inverso: a volte anche dal negativo possono derivare effetti positivi. Lo dimostra proprio il caso del pettegolezzo.

Una tradizione psicologica, sociologica e antropologica consolidata, sebbene quasi di nicchia, ha dimostrato da tempo che il gossip non è un cicaleccio vuoto e odioso come ordinariamente e moralisticamente si crede, ma svolge una serie di importanti, quanto sottovalutate, funzioni psicologiche, antropologiche e sociali.

Uno dei sostenitori di questa interpretazione è l’antropologo di origine sudafricana Max Gluckman (1911-1975). Sfruttando alcune intuizioni di antropologi e sociologi come Paul Radin, Melville Jean Herskovits, Elizabeth Colson, Ronald Frankenberg, Gluckman afferma che gossip and scandal (“pettegolezzi e maldicenze”) – questo il titolo del suo seminale articolo del 1963 – possiedono insospettabili virtù positive in quanto preservano l’unità, la morale e i valori dei gruppi sociali. Essi, inoltre, consentono di tenere sotto controllo i gruppi concorrenti e gli individui che aspirano ad essere loro membri, “calmierando” sogni e ambizioni.

Le maldicenze possono essere utilizzate anche per segnare e confermare divisioni di gruppo, per individuare il nemico da contrastare, per far sì che l’ostilità diventi un modo per tenere saldo il gruppo. 

I pettegolezzi possono essere considerati come una raffinata forma di aggressione verbale, da condursi immancabilmente “alle spalle” in quanto gli insulti a viso aperto metterebbero in serio pericolo la continuazione del rapporto, sebbene solo apparentemente amichevole, tra pettegolo/pettegola e spettegolato/spettegolata.

Gluckman individua altre funzioni positive di pettegolezzi e maldicenze. Qui trovi la traduzione integrale – per la prima volta in italiano – di Gluckman, M., 1963, “Papers in honor of Melville J. Herskovits: Gossip and Scandal”, Current Anthropology, vol. 4, n. 3, pp. 307-316 con una mia introduzione al tema delle funzioni positive del pettegolezzo. Qui, invece, il testo originale affiancato alla mia traduzione.

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Agiatezza e comportamenti illeciti

Sono numerosi i film e le serie televisive che ritraggono coloro che appartengono alle classi sociali agiate come individui avidi, disposti a tutto pur di prevalere sul prossimo e poco inclini a rispettare le “banali” norme etiche della vita quotidiana.

Nel 2012, data di pubblicazione dell’articolo degli psicologi Piff, Stancato, Mendoza-Denton, Keltner e Côté, Higher social class predicts increased unethical behavior, tale rappresentazione ha avuto una conferma scientifica.

Dopo aver condotto ben sette esperimenti, alcuni dei quali molto creativi, i cinque ricercatori della University of California e della University of Toronto hanno rilevato che coloro che appartengono alle classi più agiate tendono effettivamente a esibire comportamenti sociali poco etici in misura maggiore rispetto a coloro che appartengono alle classi sociali inferiori.

In particolare, la ricerca ha dimostrato che, rispetto agli omologhi appartenenti alla lower class, gli individui della upper class hanno una maggiore probabilità di infrangere le norme di guida, di pervenire a decisioni poco etiche, di sottrarre beni di valore, di mentire durante una negoziazione, di raggirare il prossimo per accrescere le probabilità di vincere un premio e di approvare condotte di lavoro illecite.

Secondo gli studiosi, ciò è dovuto al fatto che, negli ambienti altolocati, vi sarebbe un atteggiamento più positivo nei confronti dell’avidità e del perseguimento di fini egoistici. I privilegi di cui si gode in queste classi stimolerebbero una condotta indipendente dagli altri e una tendenza a conferire uno status prioritario a se stessi e al proprio benessere rispetto a quello degli altri. Le persone facoltose, dunque, violerebbero le norme perché, in qualche modo, si reputerebbero “al di sopra della legge”.

Tra i sette studi eseguiti dai ricercatori, è opportuno considerare due ricerche sul campo, condotte tramite osservazione naturalistica, che hanno preso ad esame lo stile di guida dei soggetti studiati. Deducendo la classe sociale dal tipo di auto guidata, Piff e colleghi hanno evidenziato che chi guida auto costose tende a tagliare la strada agli altri automobilisti e a non fermarsi alle strisce pedonali in misura quattro volte maggiore rispetto a chi conduce auto più modeste.

In un altro studio, i ricercatori hanno manipolato i partecipanti facendo in modo che questi “sentissero” di appartenere a una classe agiata o deprivata. Il risultato è stato che i primi hanno sottratto, due volte più dei secondi, caramelle destinate ai bambini e contenute in un barattolo: un comportamento davvero poco etico!

In tutte le sette ricerche, concludono gli studiosi, la tendenza generale è che più aumenta la classe sociale di un individuo, più aumenta la sua probabilità di comportarsi in maniera poco etica.

Si tratta, ovviamente, di una ricerca di tipo esplorativo a cui sarebbe errato attribuire significati definitivi. È inevitabile, però, riandare con la memoria agli antichi imperatori che, con un semplice gesto, erano in grado di decidere la vita dei loro subalterni o al celebre “Lei non sa chi sono io” con cui tanti ricchi segnala(va)no ai loro interlocutori il diritto a privilegi non riconosciuti dalla legge o al celebre sonetto del Belli Li soprani der monno vecchio in cui compare il famoso verso “Io sò io, e vvoi nun zete un cazzo”, poi ripreso anche da Alberto Sordi.

Nobili e altolocati si sono sempre sentiti superiori al resto della popolazione e, nonostante i tempi siano diversi e i nobili non ci siano più, è probabile che i loro omologhi contemporanei continuino a sentirsi allo stesso modo. Anche se, forse, non hanno più la spudoratezza di dirlo in pubblico.

Fonte: P. K. Piff, D. M. Stancato, S. Cote, R. Mendoza-Denton, D. Keltner. “Higher social class predicts increased unethical behavior”. Proceedings of the National Academy of Sciences, 2012.

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Le preghiere del precario

“Precario”: “Incerto”, “instabile”, dal latino: precarius “ottenuto con preghiere”, “per grazia” (da prex “preghiera”).

L’etimologia tradisce immediatamente che si è precari perché ciò che si può ottenere è raggiungibile solo pregando altri. Chi prega lo fa perché ha bisogno dell’altro per avere ciò che desidera. Allo stesso modo, chi è precario ha bisogno di rivolgersi umilmente, servilmente, ad altri per avere un lavoro, per guadagnarsi da vivere o per altri motivi.

Se pensiamo che oggi la precarietà è la cifra della nostra esistenza liquida e incerta – incerta lavorativamente, sentimentalmente, esistenzialmente, politicamente, economicamente – è agevole trarre la conclusione che, nella nostra epoca apparentemente dissacrata, distante da ogni divinità e gesto di supplica, siamo tutti fedeli oranti che preghiamo per un modicum di stabilità, umiliandoci e implorando il potente di turno – o almeno chi ha più potere di noi – per una concessione che ci permetta di vivere nell’illusione di un’àncora esistenziale, per quanto effimera.

E così preghiamo, supplichiamo. E non solo per il lavoro. Supplichiamo il politico di raccomandarci per quella multa che non vogliamo pagare. Ci rivolgiamo umilmente al(la) nostro(a) partner del momento affinché rimanga sempre al nostro fianco “finché morte non ci separi”. Uniamo le mani e piangiamo per chiedere giustizia in seguito a un torto (reale o immaginario) subito. Ci inginocchiamo di fronte alla nostra attrice preferita perché regali un sorriso rivolto unicamente a noi. Imploriamo la nostra diva del porno di poter baciare le sue escrescenze carnose. Chiediamo all’influencer preferito di spendere una parola per noi. Invochiamo il nostro brand prediletto affinché lo indossiamo nella convinzione che essere marchiati da quello ci garantirà l’eternità della nostra condizione di consumatori.

Insomma, precari preghiamo. Spesso anticipando la preghiera con un altro termine di origine religiosa: “Mi perdoni, vorrei chiederle…”. Chi l’avrebbe detto che il vocabolo simbolo della nostra epoca instabile e irreligiosa affonda le proprie radici in una dimensione che a noi contemporanei sembra estranea e inattuale: quella religiosa? A volte è proprio vero che gli estremi – o almeno i distanti – si toccano.

O, forse, semplicemente, la preghiera è talmente connaturata a noi umani che, perfino in un tempo secolarizzato come il nostro, abbiamo bisogno di ripetere i medesimi gesti di umiliazione che ci caratterizzano da secoli, sebbene travestendoli in una nuova forma nominale: quella del precariato.

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Ansia, astronauti e superstizioni

Secondo il celebre antropologo di origine polacca Bronislaw Malinowski, che esaminò le pratiche degli abitanti dell’arcipelago delle Trobriand nel libro Magic, Science and Religion (1948), «troviamo la magia dovunque gli elementi del caso e dell’imprevisto e il gioco emotivo tra speranza e timore dominano in lungo e in largo. Non troviamo la magia dove l’obiettivo è certo, sicuro e governato da metodi razionali e processi tecnologici. Inoltre, troviamo la magia dove l’elemento del pericolo è ben presente. Non la troviamo dove la sicurezza assoluta elimina ogni elemento di presagio». Malinowski cita l’esempio della pesca nelle Trobriand. Gli abitanti dei villaggi presso la laguna interna, dove la pesca è abbondante e non presenta pericoli, non ricorrono a procedure magiche per favorire questa attività; al contrario nei villaggi sul mare aperto, dove la pesca è più rischiosa e incerta, il ricorso al rituale magico è comune. Lo stesso avviene in guerra. I trobriandesi usano forza, coraggio e agilità per avere la meglio sui nemici, ma quando la fortuna e il caso sono decisivi, la magia diventa un grosso aiuto.

La tesi di Malinowski, semplice ed elegante, presta il fianco a numerose critiche. Sappiamo, ad esempio, che lo studente ricorre al rituale superstizioso quando deve sostenere un esame, anche se l’esito della prova dovrebbe dipendere interamente dalle conoscenze acquisite nel corso del suo apprendimento. Ugualmente, persone istruite o, comunque, in possesso di conoscenze specifiche possono aderire a rituali superstiziosi quando utilizzano quelle conoscenze per raggiungere uno scopo. Non è, dunque, del tutto vero che gli individui credono nelle superstizioni perché hanno scarsa istruzione e conoscenza e che, se sapessero davvero come funzionano le cose, non sarebbero superstiziosi. Ugualmente, non è del tutto vero che, se le persone non avessero paura dell’ignoto, non compirebbero determinate azioni. In realtà, questa concezione fa a pugni con un dato più volte confermato: chi crede nelle superstizioni può appartenere a qualsiasi strato sociale e avere qualsiasi livello di istruzione. Lo testimonia anche il detto “Non è vero, ma ci credo”, che significa che si è consapevoli della falsità della credenza superstiziosa, ma la si mette in pratica comunque.  

Tuttavia, la teoria di Malinowski si applica splendidamente a un episodio diventato leggendario.

Il 12 aprile 1961, durante il tragitto verso la rampa di lancio, Jurij Gagarin, il primo essere umano a volare intorno alla Terra, chiese all’autista dell’autobus che lo trasportava di fermarsi. Sceso dal veicolo, urinò sulla ruota posteriore dello stesso. Salì poi di nuovo a bordo e proseguì verso la sua missione che, come è noto, ebbe uno straordinario successo.

La coincidenza tra il banale gesto fisiologico e il successo della missione ha fatto sì che, ancora oggi, gli astronauti dell’ex Unione Sovietica compiano lo stesso rito propiziatorio (anche le donne!): un comportamento indubbiamente superstizioso che si spiega con l’alto tasso di incertezza che circonda ancora oggi i viaggi nello spazio. Sembra, peraltro, che questo non sia l’unico gesto superstizioso “iniziato” da Gagarin. Altre condotte sono: tagliarsi i capelli due giorni prima del lancio, non assistere al trasporto e al posizionamento dei razzi e della navicella, bere un bicchiere di champagne la mattina della partenza e firmare la porta della camera dell’hotel prima di uscire per raggiungere la rampa.

La superstizione, dunque, “funziona” perché fornisce una sensazione di prevedibilità e controllo, riducendo l’ansia; e poiché una forte ansia tende a inibire un’azione efficace in situazioni di rischio, la superstizione può avere in certe circostanze un valore positivo in termini di sopravvivenza. In questo senso, anche le persone più razionali possono soccombere al “fascino” della superstizione.

Come è evidente, non c’è poi tanta distanza tra uomini “primitivi” e uomini “civilizzati”. Entrambi possono ricorrere al pensiero magico e superstizioso quando ne hanno cognitivamente bisogno, anche se, in altre dimensioni della vita, riescono a essere del tutto razionali

Sono le circostanze a indurci a questo o quel comportamento: se abbiamo conoscenza e controllo viriamo verso il pensiero scientifico, se viviamo situazioni dominate dall’imprevedibilità, optiamo, spesso irresistibilmente, verso il pensiero magico.

Possiamo dire che siamo esseri superstiziosi perché siamo creature ansiose. La superstizione è un potente ansiolitico e, in quanto tale, è probabile che non morirà mai.

Per una trattazione dettagliata della propensione alla superstizione degli esseri umani, rimando al mio Aloni, stregoni e superstizioni, di cui nell’immagine vedete la copertina.

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La tirannia del normale

Prima del 1800, ricorda la ricercatrice Sarah Chaney, autrice di Sono normale? Due secoli di ricerca ossessiva della “norma” (Bollati Boringhieri, Torino, 2023), la parola “normale” per descrivere un tipo di comportamento umano o sociale non esisteva. Era un termine matematico adoperato per descrivere angoli, equazioni, formule. Nessuno parlava di persone normali, ma di linee e calcoli normali.

L’aggettivo “normale” è entrato a pieno titolo nel nostro lessico quotidiano solo nel XX secolo inoltrato, quando i concetti di normalità come media statistica e normalità come ideale stato di salute sono diventati una cosa sola. Da allora, l’opposizione binaria tra normale e patologico – ossia, tra normale e non normale – ha condizionato i nostri atteggiamenti verso il corpo, la mente, il sesso, la malattia (Chaney, 2023, pp. 9; 18; 21).

Oggi, l’idea di normalità è penetrata in maniera talmente ossessiva nel nostro modo di vedere il mondo che tendiamo ad applicarla ad ogni nostro atteggiamento e comportamento.

Il mio mal di testa è un malanno temporaneo, dovuto allo stress, una cosa “normale”? O devo preoccuparmi? Il mio interesse sessuale per la vicina che ha dieci anni meno di me è da considerarsi “normale” o patologico? Se mio figlio prende brutti voti a scuola, non sarà perché non è “normale”? Del resto, tutti suoi compagni ottengono buoni risultati: statisticamente è forse fuori norma? Sono troppo grasso/magro o sono nella normalità? Quelle voci che ieri ho sentito nella mia testa fanno di me un soggetto psichiatrico e quindi anormale? È normale che mio cugino abbia problemi con la legge? La criminalità è di per sé sintomo di anormalità? Se non ho voglia di lavorare, è perché non sono normale?

Gli interrogativi che ogni giorno ci poniamo su noi stessi e gli altri vertono, per lo più, su una qualche idea di normalità a cui desideriamo ardentemente conformarci (e conformare gli altri). la norma è il fattore tossico che condiziona tutta la nostra vita, rendendola degna o indegna di essere vissuta. La norma è il verbo dominante dei nostri tempi, la bussola che ci orienta nella vita, la bibbia laica che ha sostituito quella religiosa. Senza un’idea di normalità, semplicemente pensiamo di non potere esistere.

Non sarà che la normalità è divenuta un tiranno insopportabile di cui faremmo bene a sbarazzarci? Del resto, se l’umanità ha vissuto per tanto tempo senza un’idea di normalità, ciò può voler dire che non ne abbiamo davvero bisogno per vivere. Certo, ci sentiremmo probabilmente vuoti e spaesati a rinunciare a un concetto tanto potente e presuntuoso. Ma potremmo vivere meglio? La nostra vita sociale, affettiva, sessuale, professionale ne avrebbe vantaggio?

Però… un momento. E se il fatto puro e semplice di pormi tutti questi interrogativi facesse di me una persona irrimediabilmente anormale?

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Il bias della proporzionalità

Come inferiamo le cause degli eventi che accadono intorno a noi? Come stabiliamo che a una determinata conseguenza corrisponde una determinata causa e non altre? Quali sono i meccanismi di senso comune che ci portano a individuare in maniera sicura l’antecedente di eventi banali o gravi?

Una delle conclusioni più interessanti della recente ricerca in psicologia è che le persone tendono a considerare le conseguenze degli eventi al momento di inferire le cause di questi. In particolare, tendono a ritenere che debba esserci una qualche similarità o proporzionalità tra cause e conseguenze, per cui se le conseguenze sono grandi le cause “devono” essere altrettanto grandi e viceversa. Ciò anche quando le conseguenze non forniscono oggettivamente alcuna informazione sulle cause.

Ad esempio, come dimostrano nei loro esperimenti LeBoeuf e Norton (2012), se da un malfunzionamento del computer discendono conseguenze importanti (il licenziamento di una persona), le persone tendono a ritenere che la causa del malfunzionamento debba essere altrettanto importante (un virus potentissimo). Se, invece, le conseguenze sono di poco conto (una banale interruzione del lavoro per pochi minuti), le persone tendono a individuare cause altrettanto banali (un problema della ventola di raffreddamento del computer).

La ragione di questo atteggiamento, che può indurre distorsioni di ragionamento non trascurabili, è che le persone sono abituate a vedere il mondo come un luogo prevedibile e a interpretare gli accadimenti secondo schemi che rendono facilmente comprensibili i fatti che capitano loro.

Allo stesso modo, come provano gli esperimenti condotti da Leman e Cinnirella (2007), gli individui tendono più facilmente a sposare teorie cospiratorie se posti di fronte a uno scenario ipotetico in cui il presidente degli Stati Uniti muore in seguito a un attentato rispetto a uno scenario in cui sopravvive all’attentato.

È facile per noi verificare l’ubiquità di questo bias. Una svista arbitrale da cui discendono conseguenze di rilievo per una squadra viene immediatamente imputata a una volontà mefistofelica di danneggiare la stessa; se invece le conseguenze sono trascurabili, viene chiamata in causa la fallibilità umana degli arbitri. In economia, una grave crisi finanziaria sollecita interpretazioni causali altrettanto gravi, che spesso assumono toni complottistici.

In ambito sanitario, come è evidente da alcune interpretazioni circolate durante la recente pandemia di Covid-19, il verificarsi di una epidemia particolarmente letale induce le persone a privilegiare spiegazioni “intenzionali” (“Qualcuno deve avere pianificato a tavolino la diffusione del virus per ridurre la popolazione mondiale”) a spiegazioni casuali (il virus come prodotto accidentale di una situazione contingente). In politica, si ha difficoltà ad attribuire a fattori contestuali e sociali lo scoppio di una rivoluzione e si tende a pensare che debba essere stata voluta dai “poteri forti” per fini inconfessabili (come accadde all’indomani della Rivoluzione francese).

È evidente come questo bias, che talvolta appare irresistibile alla mente umana, possa generare interpretazioni completamente distorte degli eventi umani. In ultima analisi, esso è imputabile alla tendenza umana ad attribuire ineluttabilmente un senso che corrisponda a un criterio di equità al mondo circostante perché l’idea di un mondo caotico, preda del caso, è semplicemente insostenibile per noi. È molto più soddisfacente attribuire una causalità che percepiamo come equa che una che avvertiamo difforme rispetto ai nostri criteri di interpretazione del mondo. Molto meglio imporre un ordine cognitivo al mondo, per quanto “inventato”, che essere in balia del non ordinato.

Quanti errori, però, nel nome dell’ordine!

Riferimenti:

LeBoeuf, R. A., & Norton, M. I. (2012). Consequence-cause matching: Looking to the consequences of events to infer their causes. Journal of Consumer Research, 39(1), 128–141.

Leman, P. & Cinnirella, M. (2007). A major event has a major cause: Evidence for the role of heuristics in reasoning about conspiracy theories. Social Psychological Review. 9, 18-28.

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Sul proverbio: “L’abito non fa il monaco”

Lo sanno tutti: le apparenze, e in particolare gli abiti, ingannano. Spesso le persone non sono come si mostrano a prima vista, anzi molte volte si rivelano l’esatto contrario. Dobbiamo, dunque, essere cauti nel giudicarle. In alcuni casi, ci si veste o traveste in un certo modo per fini specifici. I truffatori si celano dietro divise delle forze dell’ordine per ingannare il prossimo. I killer professionisti si camuffano da umili inservienti per portare a termine il proprio lavoro. Ci si traveste a Carnevale e in occasione di alcuni festeggiamenti. Gli attori si mascherano per recitare la propria parte. Insomma, l’abito non fa il monaco. Lo sapeva anche il Manzoni, il quale, nei Promessi sposi, fa dire al conte zio in risposta al Padre Provinciale che aveva difeso Fra Cristoforo e la “gloria dell’abito”, in grado di far sì «che un uomo il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso diventi un altro»: «Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio… l’abito non fa il monaco».

Il tema dell’apparenza ingannatrice è talmente diffuso che i proverbi in argomento abbondano: “Non si giudica il cavallo dalla sella”, “Non è tutto oro quel che riluce”, “Il galantuomo non sta sotto il cappello”, “Il velo non fa la monaca”, “La libreria non fa l’uomo dotto”, in inglese: “Don’t judge a book by its cover” (“Non si giudica un libro dalla copertina”). Curiosamente, esistono anche proverbi di senso contrario, come il meno conosciuto “L’abito fa il monaco”, a significare che gli abiti che qualificano uno status conferiscono dignità e prestigio. In Siracide 19, 25-27 leggiamo: «Dall’aspetto si conosce l’uomo; dal volto si conosce l’uomo di senno. Il vestito di un uomo, la bocca sorridente e la sua andatura rivelano quello che è». Il sapere popolare sembra disposto a concedere agli abiti anche una funzione rivelatrice, oltre che ingannatrice.

E in effetti la contraddizione espressa dal libro biblico potrebbe essere solo apparente: un tempo, l’abito indicava con una certa sicurezza almeno lo status sociale della persona. Ricordiamo che, nel passato, le leggi proibivano di indossare abiti diversi dalla propria condizione sociale: ad esempio, i miserabili e le prostitute non potevano indossare abiti nobiliari. In taluni momenti storici, le cosiddette “leggi suntuarie” regolarono l’abbigliamento di determinati gruppi sociali imponendo loro un vestiario che divenne una sorta di segno distintivo, se non uno stigma (come nel caso di ebrei, eretici, prostitute). In questi casi, l’affidabilità identitaria degli abiti era molto più robusta di oggi.

Ordinariamente, è vero che il modo di vestire riflette chi si è o chi si vorrebbe essere in termini sociali, politici, religiosi, identitari, soggettivi. Anzi, se indossiamo un abito a noi non confacente ci sentiamo a disagio, ridicoli, imbarazzati. Tra abito e identità c’è un legame molto più stretto di quello che parrebbe dando ascolto al proverbio.

È anche vero che gli abiti contribuiscono enormemente a plasmare la percezione che gli altri hanno di noi. Essi possono incutere timore e rispetto (si pensi alle uniformi delle forze dell’ordine), eccitare (gli stupratori ricorrono spesso al meccanismo di difesa consistente nell’imputare agli abiti della vittima la loro irrefrenabile eccitazione: “Se l’è andata a cercare”), deprimere (come gli abiti che si indossano in occasioni funebri), esercitare effetti persuasivi o dissuasivi. Chi indossa abiti formali, ad esempio, viene percepito come più intelligente e competente di chi veste in maniera informale. Chi si presenta a un colloquio di lavoro in giacca e cravatta viene percepito come più serio e affidabile rispetto a chi non lo fa.

Alcune ricerche hanno dimostrato che il modo di vestire può suscitare o favorire nell’altro condotte prosociali. Già nel 1971, lo psicologo Leonard Bickman dimostrò che le persone che vestono in maniera rispettabile o sembrano essere di status superiore hanno maggiori probabilità di vedersi restituire una moneta lasciata in una cabina telefonica. Emswiller, Deaux e Willits (1971) dimostrarono che è più facile indurre comportamenti di aiuto se aiutante e aiutato vestono in maniera simile.

Altre ricerche hanno evidenziato che gli abiti possono spingere a comportamenti antisociali. Basti ricordare al riguardo il celebre esperimento sull’obbedienza condotto nel 1961 dallo psicologo statunitense Stanley Milgram (1975), il quale mostrò che, posti di fronte a un soggetto in camice bianco che impartisce loro degli ordini, gli individui sono disposti a eseguire azioni in conflitto con i loro stessi valori etici. Una dimostrazione agghiacciante di come operi nella contemporaneità il principio di autorità, incarnato dal camice bianco.

Un abito che simboleggia autorità può ispirare anche condotte sociali positive. In alcuni esperimenti descritti nell’articolo di Leonard Bickman “The Social Power of a Uniform” (1974), i soggetti ubbidirono a vari ordini (raccogliere un sacchetto di carta, dare una monetina a uno sconosciuto o allontanarsi da una fermata di autobus) impartiti da complici che indossavano una uniforme militare in misura maggiore rispetto a quando gli ordini venivano impartiti da civili o da soggetti vestiti da lattai. L’autorità incarnata dall’uniforme trova rispondenza negli individui in quanto associata all’idea che il militare sia legittimato socialmente a impartire ordini.

Non a caso, l’uniforme marziale ha lo scopo di enfatizzare, accrescere, esagerare aspetti del corpo che incutono dominanza, soggezione e timore nel nemico, quali l’altezza, la muscolatura e il portamento eretto. L’uso di copricapi alti non ha solo la funzione di proteggere il militare dalle avversità atmosferiche, ma anche e soprattutto quella di aumentarne l’altezza percepita. La visiera del copricapo che nasconde in parte gli occhi del militare serve a creare timore e disagio in chi osserva. L’uso di giubbe con spalline favorisce l’impressione di spalle potenti e larghe. Bottoni metallici e altri accorgimenti favoriscono la percezione a V del corpo che comunica forte costituzione e virilità. Ornamenti, mostrine, fregi, cordoni, pendagli ecc. trasmettono una sensazione di dominanza. Un abbigliamento che provoca rigidità fa apparire più marziali (Costa, 2006, pp. 247-253).

Se le ricerche citate ci rivelano qualcosa che, in fondo, già sappiamo, cioè che gli abiti trasmettono simboli e informazioni che influenzano le persone e l’ambiente intorno a noi, altre ricerche, forse meno note, ci dicono che gli abiti che indossiamo sono in grado di modificare le nostre stesse prestazioni cognitive, la nostra visione del mondo e perfino la nostra condotta sulla base di alcuni sorprendenti meccanismi psicosociali. In altre parole, l’abito può davvero “fare” il monaco.

La psicologia contemporanea ha ormai messo in discussione il vecchio nesso mente-corpo secondo cui questo sarebbe interpretabile solo in un’unica direzione, quella che dalla mente va al corpo. È oggi noto che anche il corpo può influire sulla mente in modi imprevisti, ma accertati dalla scienza. In particolare, alcune condizioni fisiologiche sembrano favorire o sfavorire determinati stati d’animo a scapito di altri, tanto che gli psicoterapeuti raccomandano di eseguire determinate azioni associate a determinate condizioni fisiologiche, se si vuole raggiungere una determinata condizione mentale. Facciamo qualche esempio, avvalendoci anche di testimonianze provenienti dalla filosofia, dalla letteratura e dalla psicologia.

Nella sua Arte di amare, Ovidio (43 a. C. – 17 d. C.) invitava esplicitamente a “simulare” l’innamoramento per innamorarsi davvero: «Devi agire da amante: la tua voce mostri che il cuor ti piange […] Spesso chi finse amore cadde in amore: pensava fosse un gioco essere amante, poi lo divenne» (1994, p. 97). In questo senso, perfino un sentimento “spontaneo” come l’amore può essere indotto attraverso la sua simulazione comportamentale.

Ne La lettera rubata di Edgar Allan Poe (1809-1849), il protagonista afferma: «Quando voglio sapere fino a qual punto uno è astuto o stupido, fino a qual punto è buono o cattivo, o quali sono attualmente i suoi pensieri, cerco di comporre il mio viso come il suo, di dargli la stessa espressione, per quanto mi sia possibile, e così aspetto per sapere quali pensieri o quali sentimenti nasceranno nella mia mente o nel mio cuore per corrispondere alla mia fisionomia» (1885, pp. 25-26). Una formulazione perfettamente in linea con la tesi di Ovidio: la manifestazione fisica dell’emozione provoca l’emozione stessa.

Charles Darwin (1809-1882), nel suo The expression of the emotions in man and animals, scrive: «Dando libero sfogo ai segni esteriori di un’emozione, la si intensifica. Viceversa, la repressione nei limiti del possibile di ogni loro segno esteriore attenua le nostre emozioni. Chi si abbandona a gesti esagitati aumenta la propria rabbia; chi non trattiene i segni della paura avvertirà la paura in misura ancora maggiore; e chi resta passivo allorché è sopraffatto dal dolore perde la migliore occasione per riacquistare elasticità mentale» (Darwin, 1872/1975, p. 365).

Un secolo dopo Darwin, lo psicologo Paul Ekman ha mostrato come i muscoli facciali svolgano un ruolo importante nel sorgere di alcune emozioni. In un noto esperimento, ad alcune persone era stato chiesto di tenere una matita fra i denti (cosa che li obbligava ad assumere un’espressione artificiosamente sorridente) mentre ad altri veniva chiesto di tenere una matita fra le labbra (il che impediva loro di sorridere). Il risultato fu che, dopo aver visto il medesimo film, il primo gruppo sosteneva di aver provato un divertimento maggiore di quanto non avesse provato il secondo (Ekman, Oster, 1979). Altri esperimenti hanno dimostrato che le persone che riproducono le espressioni facciali di emozioni come paura, rabbia e dolore, riferiscono in seguito di aver provato con maggiore intensità l’emozione riprodotta dal loro viso.

Infine, un testo sul linguaggio dei sintomi ci informa che: «È stato provato, per esempio, che camminare seguendo percorsi irregolari può aumentare la nostra creatività, stringere un pugno può accrescere costanza e determinazione, assaggiare una bevanda dolce può renderci più romantici e sedere su una sedia traballante mentre parliamo del nostro rapporto di coppia ce lo fa percepire più instabile» (Pacori, 2016, p. 3). Inoltre, camminare nella natura inibisce la tendenza a rimuginare, fare jogging impedisce la depressione e infonde buon umore e tante altre attività fisiche hanno un impatto rilevante – e spesso imprevisto – sulle condizioni mentali.

Anche la teoria dell’embodied cognition (“cognizione incarnata”, in italiano) suggerisce che corpo e mente non sono due entità cartesianamente distinte e separate, ma interagiscono in modi sorprendenti. Il corpo condiziona o stimola i processi cognitivi, nel senso che esso può vincolare, agevolare o frenare questo o quel processo cognitivo. Addirittura, le abilità cognitive che si possiedono possono essere determinate dalle caratteristiche morfologiche e dinamiche del proprio corpo (Shapiro, 2011). Ad esempio, è accertato che gesticolare durante una conversazione aiuta la comunicazione e non è un semplice orpello fisico perché indirizza il pensiero in una certa direzione. Allo stesso modo, apprendere un concetto sedendo in posizione immobile (come avviene a scuola), non è la stessa cosa che apprenderlo passeggiando. Ancora, tenere in mano la tazza di una bevanda bollente spinge a ritenere gli altri più cordiali e “caldi”, camminare lentamente attiva lo stereotipo dell’anziano, annuire con il capo mentre si ascolta un messaggio persuasivo aumenta la suscettibilità alla persuasione.

La teoria dell’embodied cognition insegna che questi principi si applicano anche al modo di vestire: se vestiamo punk ci sentiremo in un modo; se vestiamo nerd ci sentiremo in un altro; se vestiamo una tuta ci sentiremo più scattanti; se indossiamo un paio di occhiali ci sentiremo più intellettuali; se mettiamo su una divisa militare avvertiremo una maggiore rigidità e così via. E, se indossiamo un saio, la nostra condizione spirituale avvertirà un cambiamento. Il modo in cui pieghiamo il nostro corpo e i nostri muscoli, anche attraverso gli abiti, non lascia indifferente la nostra mente.

Hajo e Galinsky hanno coniato al riguardo il termine enclothed cognition per descrivere l’influenza sistematica che gli abiti esercitano sui processi psicologici di chi li indossa. Per i due ricercatori, la enclothed cognition comporta l’azione simultanea di due fattori indipendenti: il significato simbolico associato agli abiti e l’esperienza fisica dell’indossarli. In una serie di esperimenti virtuali, effettuati somministrando una prova Stroop (si tratta di un esercizio in cui ai soggetti vengono mostrate delle parole stampate con inchiostro di vari colori, e viene loro chiesto di dire di che colore è l’inchiostro, ignorando le parole. I soggetti eseguono il compito abbastanza facilmente, tranne quando si imbattono in parole che indicano colori diversi da quelli dell’inchiostro con cui le parole sono stampate. Per esempio, se la parola rosso è stampata in inchiostro verde, i soggetti spesso esitano o si confondono nel dire verde, come se non riuscissero ad ignorare il significato della parola. Il risultato finale è che occorre molto più tempo per dire che la parola “verde” è scritta in rosso piuttosto che per denominare il colore con cui è scritta qualunque altra parola che nulla ha a che fare con i colori), Hajo e Galinsky mettono alla prova l’ipotesi secondo cui indossare un camice di laboratorio aumenta la prestazione in compiti che hanno a che fare con l’attenzione ai dettagli. I risultati dimostrano che nelle situazioni in cui si indossa un camice aumenta l’attenzione selettiva rispetto a quando non si indossa un camice. Indossare il camice di un dottore aumenta l’attenzione sostenuta rispetto a quando si indossa un camice di laboratorio. In poche parole, indossare un abito ha un effetto potente sulla psiche: i vestiti che indossiamo “invadono” corpo e cervello, modificando il nostro stato psicologico.

Indossare determinati abiti induce le persone a “incorporare” il significato simbolico degli abiti. Gli abiti esercitano una profonda influenza sui processi psicologici delle persone attivando concetti astratti associati tramite i loro significati simbolici. Così, indossare il saio di un monaco ci rende persone più etiche perché questo tipo di indumento è associato, nella nostra mente e nella nostra cultura, a una condotta spirituale non ordinaria.

Di questo meccanismo era già consapevole il giornalista Indro Montanelli, il quale, nel lontano 1959, aveva individuato la seguente soluzione per debellare la “piaga” dei teddy-boys (Montanelli, 1959, cit. in Triani, 1990, p. 144):

Cosa succederebbe se si proibisse la vendita dei blue jeans? Io non ho creduto molto alle proibizioni. Ma in questo caso la misura forse avrebbe un certo effetto. I blue jeans sono, agli occhi di questa teppaglia, una divisa, che, una volta indossata, impone certi obblighi. Sono sicuro che fra i teddy boys ci sono dei bravi ragazzi che non avevano nessuna intenzione di diventarlo. Ma poi infilate le gambe in quei tubi, si lasciarono anche crescere i riccioletti sulla nuca, si guardarono allo specchio e d’improvviso si annusarono addosso puzzo di “bruciato”. Chi l’ha detto che l’abito non fa il monaco. Lo fa eccome. Provatevi a togliere a qualunque esercito l’uniforme; e vedrete che il rendimento dei soldati, il loro coraggio, la loro decisione, per non parlare della disciplina, si riducono del settantacinque per cento.

Insomma, le recenti ricerche della psicologia dimostrano, al di là di ogni esitazione, che l’abito fa davvero il monaco e che ciò che si indossa ha un indubbio effetto sulla nostra psiche a dispetto del luogo comune secondo cui il nostro vero io è indipendente da ciò che utilizziamo per coprire e ornare il nostro corpo. In casi estremi, può verificarsi anche una profezia che si autoavvera. Come diceva il filosofo francese Pascal, si può suscitare la fede in un individuo, inducendolo a comportarsi “come se” credesse, ad esempio invitandolo a pregare, a bagnarsi con acqua santa, ad andare a messa, a recitare il rosario (Pascal, 1987). E probabilmente anche a indossare un saio.

Riferimenti

AA.VV., 2016, Il pregiudizio universale, Laterza, Roma-Bari.

Bickman, L., 1971, “The effects of social status on the honesty of others”, The Journal of Social Psychology, vol. 85, pp. 87-92.

Bickman, L. 1974, “The Social Power of a Uniform”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 4, n. 1, pp. 47-61.

Costa, M., 2006, Psicologia militare, Angeli, Milano.

Darwin, C., 1872/1975, The expression of the emotions in man and animals, University of Chicago Press, Chicago.

Ekman, P., Oster, H., 1979, “Facial Expressions of Emotion”, Annual Review of Psychology, vol. 30, pp. 527-554.

Emswiller, T., Deaux, K., Willits, J. E., 1971, “Similarity, sex and requests for small favors”, Journal of Applied Social Psychology, vol. 1, pp. 284-291.

Hajo, A. Galinsky, A., 2012, “Enclothed Cognition”, Journal of Experimental Social Psychology, vol. 48, n. 4, pp. 918–925.

Manzoni, A., 1985, I promessi sposi, Mondadori, Milano.

Meli, E., 2023, “Dimmi come ti vesti e ti dirò come ti sentirai (tutto il giorno)”, Corriere della Sera, 2 aprile, p. 49.

Milgram, S., 1975, Obbedienza all’autorità, Bompiani, Milano.

Montanelli, I., 1959, “Per sradicare i “teddy-boys” qualche proposta di buon senso”, Domenica del Corriere, 29 agosto.

Ovidio, 1994, L’arte di amare, Fabbri, Milano.

Pacori, M., 2016, Il linguaggio segreto dei sintomi, Sperling & Kupfer, Milano.

Pascal, B., 1987, Pensieri, Mondadori, Milano.

Poe, E. A., 1885, Nuovi racconti straordinari, Sonzogno, Milano.

Shapiro, L., 2011, Embodied Cognition, Routledge, London and New York.

Triani, G., 1990, Mal di stadio. Storia del tifo e della passione per il calcio, Edizioni Associate, Roma.

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Il turista è il nuovo pellegrino

Tra i succedanei contemporanei, più o meno narcotizzanti, della religione, il turismo è certamente uno dei più evidenti al punto che il sociologo Dean MacCannell, in un celebre libro degli anni Settanta Il turista. Una nuova teoria della classe agiata (UTET, Torino), non ha esitazioni nel sostenere che il turista è il pellegrino della modernità, come dimostra coerentemente la sua condotta di ruolo.

Innanzitutto, il turista ha l’obbligo, per così dire, di andare a vedere determinati luoghi dei paesi che sceglie di visitare e che sembrano incarnare una potenza straordinaria. Ad esempio, contempla la natura, le rovine, i monumenti, i segni caratteristici del luogo che lo ospita con il medesimo silenzioso raccoglimento che il pellegrino avrebbe dinanzi all’epifania del sacro, all’avverarsi di un evento straordinario lungamente atteso.

In secondo luogo, tanto il pellegrino quanto il turista hanno in comune l’esperienza dell’unicità di un luogo: entrambi credono che solo in un determinato luogo si possa verificare l’apparizione irripetibile di un’immagine attraente in modo peculiare, singolare ed eccezionale. L’apparizione del Louvre ha molti tratti in comune con l’apparizione del santuario o, addirittura, di un personaggio celeste da riverire. In alcuni casi, le analogie sono straordinarie.

Come il pellegrino, il turista segue un itinerario standard, va da una città all’altra o da un museo a un parco naturale, seguendo i consigli delle sue guide. I popoli e i paesaggi formano un insieme di attrazioni che è equivalente ai temi delle religioni politeistiche e alla proliferazione dei luoghi in cui sono apparsi i santi del cattolicesimo. Le fasi del viaggio sono una variante moderna delle devozioni popolari nei santuari.

Infine, la ricerca dell’autenticità a ogni costo diventa l’equivalente moderno della tradizionale esperienza del sacro. Il turista cerca la casa tipica, il vero manoscritto, il quadro originale, così come il pellegrino vuole il luogo dove per la prima volta apparve la Madonna o fu compiuto un miracolo. L’importante è l’esperienza che, per il turista, ha la stessa accezione sacralizzante che l’avventura religiosa per il devoto (Dean MacCannell, 2005, Il turista. Una nuova teoria della classe agiata, UTET, Torino, pp. XXX-XXXI).

Per MacCannell, la modernità crea tensioni. la fuga dalle quali

genera la ricerca di mondi in cui unificare i frammenti, i paradisi marginali del turismo, l’isola felice in cui domina l’armonia universale, luoghi dell’ultima nostalgia della “totalità”, perduta e finalmente ritrovata attraverso la reinvenzione sociale di rapporti sociali “rappresentati” come veri, sinceri, autentici, che approssimano la felicità senza spazio e senza tempo.

Le merci culturali del turismo costituiscono il materiale che il turista utilizza per affermare sia la sua unicità che la sua dipendenza da entità simboliche che la trascendono, sciogliendo i traumi e i dilemmi dell’io molteplice, offrendo sogni a occhi aperti in cui realizzare il Paradiso e l’Avventura, l’esperienza olistica della tradizione e quella soggettiva della moderna individualità (p. XXXII).

In tutti i casi, si ricerca qualcosa: un senso, un significato, un simbolo per riscattare una vita avvertita come ordinaria, profana, scialba, misera. Se la religione è tradizionalmente fornitrice di senso, oggi il turismo assolve una funzione simile in compensazione salvifica di un lavoro percepito sempre più come vano, logorante, insoddisfacente, necessario unicamente alla sopravvivenza fisica dell’individuo.

Nel viaggio, il turista cerca salvezza da una impossibile vita di costrizioni. E chi ritiene che sia un mero atto di consumo trasposto, non è consapevole che perfino una condotta disciplinata da agenzie di viaggio e guide del posto può dare soddisfazione e gioia, come forse nessuna attività lavorativa è in grado di fare.

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Egocentrismo ingenuo

«Non vorrei che iniziasse a piovere proprio adesso! Che il cielo mi lasci almeno accompagnare i figli a scuola. Poi può diluviare quanto vuole».

«Guarda quante auto! Speriamo che non si crei un ingorgo. Vorrei arrivare prima a casa».

«Meno male che non c’è nessuno all’ufficio postale. Almeno non dovrò fare la fila. Mi sbrigherò subito».

C’è una forma di egocentrismo che definisco “ingenuo” (gli psicologi lo chiamano self-centered bias) e che consiste nel fatto che, senza malizia, senza cattiveria, ma del tutto spontaneamente, gli esseri umani tendono a interpretare ciò che accade nel mondo come se, in qualche modo, questo girasse intorno a loro o come se esso covasse intenzioni positive o negative nei loro confronti.

Ce la prendiamo con il cielo che “decide di piovere” proprio quando siamo fuori in strada. Accusiamo il traffico di essersi ingorgato nel momento preciso in cui torniamo a casa in auto. Preghiamo il tempo di “essere bello” quando noi saremo in vacanza. E ci sentiamo stizziti, afflitti, sconsolati e, talvolta, defraudati, se le cose non vanno come diciamo noi.

Non ci importa se il diluvio si abbatterà sulla nostra città quando saremo tornati a casa, se intralcerà il percorso di tante altre persone. Non ci interessa se tante persone dopo di noi trascorreranno in fila le prossime due ore della loro vita all’ufficio postale: l’importante è che noi riusciamo a cavarcela subito.

Sembra quasi che la vita sia una creatura dotata di volontà, capace di condizionare la nostra esistenza secondo uno schema preciso. Il mondo è un essere potenzialmente benevolo o malevolo. E se incappiamo in una giornata di traffico soffocante, se inciampiamo casualmente in una pietra, se le nostre calze si smagliano per una protuberanza accidentale, malediciamo il destino avverso che ha congiurato contro noi. Se, infine, siamo afflitti da una brutta malattia, ci chiediamo: «Perché proprio a me?».

Insomma, gli esseri umani tendono naturalmente, spontaneamente all’egocentrismo, a ritenersi inconsciamente al centro del mondo. E se qualcuno o qualcosa minaccia la centralità del nostro io, ecco che inveiamo contro questo o quello, senza renderci conto di quanto siamo egocentrici.

Filosofi, psicologi e sociologi ci hanno da tempo avvertiti che l’io non è padrone in casa propria (Freud), che il nulla (la “mancanza di senso”) eterno domina le nostre vite (Nietzsche), che non occupiamo una posizione privilegiata nella storia della natura (Darwin), che la Terra non è nemmeno al centro dell’universo (Copernico). Eppure, nella vita di tutti i giorni, ci comportiamo come se tutto fosse incentrato su di noi, come se fossimo l’ombelico del mondo. E interpretiamo ogni smentita di questa nostra credenza ingenua alla stregua di un delitto di lesa maestà.

Siamo spontaneamente egocentrici. E niente e nessuno può farci cambiare idea. Attenzione, però: egocentrismo non significa egoismo. Il primo pertiene alla sfera bio-psicologica; il secondo a quella morale. Possiamo, dunque, condurci in maniera perfettamente altruistica, pur continuando inevitabilmente a essere egocentrici.

Siamo egocentrici per natura; egoisti per scelta.

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