Sul calcio e il numero 88

“Non assegnare ai giocatori la maglia con il numero “88”, considerato un richiamo esplicito alla simbologia nazista”. Così recita il punto 2 della Dichiarazione di intenti per la lotta contro l’antisemitismo nel calcio, sottoscritta pochi giorni fa dal Ministro dell’Interno, il Ministro per lo Sport e i Giovani, il Coordinatore Nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, la Federazione Italiana Giuoco Calcio.

La ragione di questo divieto sta nel fatto che, negli ambienti neonazisti, il numero “88” – dove l’8 rimanda alla ottava lettera dell’alfabeto, la h, e vuol dire, dunque, HH – viene adoperato come acronimo di “Heil Hitler”. Secondo un’altra versione, l’88 ricorderebbe il cannone contraereo usato dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, l’8,8 cm FlaK, soprannominato, appunto, l’88.

Il numero “88” si trova spesso – come segnalato dall’Osservatorio  antisemitismo – sui volantini diffusi dai gruppi neonazisti, nei saluti e nei commenti finali delle lettere scritte dai membri di questi gruppi e nei loro indirizzi e-mail.

Come ricorda, tuttavia, la relativa voce di Wikipedia, il numero “88” ha una simbologia complessa. Ad esempio, nel codice morse “88” è un’abbreviazione comunemente usata con significato di love and kisses (baci e abbracci). Ma è anche il numero atomico del Radio (Ra). Inoltre, il pianoforte ha ottantotto tasti. Cosmos 88 è un satellite artificiale russo. 88P/Howell è una cometa periodica del sistema solare e 88 è il numero delle costellazioni. Infine, “88” possiede un numero piuttosto cospicuo di proprietà matematiche.

A mio avviso, impedire ai calciatori di indossare l’“88” sulle loro maglie equivale a ridurre la complessa simbologia del numero a un’unica dimensione minacciosa, precedentemente relegata a un contesto simbolico circoscritto, sancendone definitivamente l’appropriazione in chiave neonazista.

Con questa decisione, il numero “88” diviene il numero neonazista per eccellenza, la cifra teratomorfica da temere per sempre. La sua valenza simbolica trascende i limiti subculturali precedenti, fagocitando ogni sua “lettura” che, da ora in poi, non potrà che essere univocamente neonazista.

In questo modo, finiamo con il conferire al segno di un codice ristretto un valore universale, generando un vizioso effetto di backfire, che darà ulteriore visibilità e potenza alla semiologia posthitleriana.

Come insegna la sociologia, le azioni umane hanno spesso delle conseguenze difformi da quelle desiderate. A volte anche contrarie. È il caso della “promozione” del numero “88” a nuovo numero della bestia.

Per altre contraddizioni sul mondo del calcio, rimando al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso.

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Sull'”essere professionali”

Oggi si dà molta importanza all’essere professionali. Essere professionali è una caratteristica positiva, molto apprezzata nei rapporti di lavoro. Si lodano il medico, l’avvocato, il giornalista, lo scienziato per la loro professionalità. Ma anche il cameriere, il commesso, l’autista di taxi, il parrucchiere. Perfino un sicario o una escort possono essere molto professionali. La professionalità fa la differenza tra un lavoratore e l’altro. È un criterio di buona condotta e approvazione sociale. Un’aspirazione e un ambizione. A tutti fa piacere essere definiti “professionali”. Ma che cosa significa davvero?

Essere “professionale” significa innanzitutto mostrare particolare competenza e preparazione nello svolgimento della propria attività o professione. Ma la competenza è solo un aspetto della faccenda. Essere professionali significa imparare a disgiungere il lavoro da tutto il resto, la neutralità affettiva dall’affettività, le emozioni dal lavoro. Significa imparare un ruolo e seguirlo senza cedimenti, senza esitazioni. Significa aderire a una parte senza lasciare che questa venga contaminata da altre parti. Significa imparare a mascherarsi bene e non togliere mai la maschera.

Per comprendere bene l’essenza della “professionalità” occorre rivolgersi a uno degli strumenti concettuali più fortunati della sociologia contemporanea: le cosiddette “variabili strutturali” (pattern variables) elaborate dal sociologo americano Talcott Parsons (1902-1979) per spiegare gli orientamenti culturali tipici di ogni società. Per Parsons, l’azione umana si declina secondo le seguenti coppie di alternative, definite appunto variabili strutturali:

  • Affettività/Neutralità affettiva: le azioni umane possono essere guidate dalle emozioni e dagli affetti oppure da criteri che nulla hanno a che vedere con le emozioni.
  • Diffusione/Specificità: le azioni umane possono indirizzarsi a considerare tutti gli aspetti della personalità umana o solo qualcuno, come quando ci si rivolge al macellaio per acquistare la carne. Nel momento in cui interagiamo con lui o lei, a noi interessa solo in quanto macellaio, non in quanto padre/madre, figlio/figlia, appassionato/a di robotica o di filatelia ecc.
  • Universalismo/Particolarismo: le azioni umane possono ispirarsi a criteri universalistici, come il merito, o a criteri particolaristici e privati.
  • Acquisitività/Ascrizione: le azioni umane possono ispirarsi a criteri acquisitivi (la prestazione) o ascrittivi (appartenenza a una data famiglia).
  • Orientamento alla collettività/Orientamento a sé stessi: le azioni umane possono essere guidate da interessi collettivi o privati.

Ebbene, se analizziamo la professionalità secondo la tipologia appena descritta, risulterà evidente che la persona che si comporta in maniera professionale deve possedere le seguenti caratteristiche:

  • L’individuo professionale deve essere neutralmente affettivo e non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni. Un chirurgo professionale deve essere in grado di eseguire un’operazione sulla base delle sole competenze tecniche senza che altri fattori intervengano a condizionare l’esito del suo lavoro.
  • L’individuo professionale deve essere specifico. Uno psicologo impegnato con un paziente deve limitarsi a considerarlo solo per il problema che gli viene esposto non per altri motivi. Ad esempio, se si trova di fronte una bella ragazza, non può mettersi a corteggiarla durante una seduta. Ciò sarebbe considerato, appunto, poco professionale.
  • L’individuo professionale adotta criteri universalistici e non particolaristici. Ad esempio, un selezionatore professionale sceglierà il migliore candidato a un posto di lavoro in base a criteri quali il merito piuttosto che particolaristici (il candidato è figlio del suo amico).
  • L’individuo professionale si orienta sempre verso criteri acquisitivi: un insegnante professionale valuterà i suoi alunni sulla base delle loro prestazioni oggettive, non in base alle appartenenze familiari o alle simpatie.
  • Infine, l’individuo professionale è sempre guidato da interessi collettivi. Se fosse guidato da interessi privati, comprometterebbe il buon esito del suo lavoro. Un impiegato pubblico poco professionale che decidesse di emettere certificati solo a favore di parenti e amici non si comporterebbe in maniera corretta.

In sintesi, l’individuo professionale non deve essere guidato da nessun genere di affettività; deve ricoprire il proprio ruolo aderendo rigorosamente a quanto esso stabilisce; deve adottare criteri di giudizio prescritti dal ruolo nei confronti degli altri e della realtà; deve essere guidato da interessi prescritti dal ruolo.

Questo significa che l’individuo professionale deve, per essere tale, rinunciare a quanto di umano e complesso vi è in lui/lei, e obbedire senza esitazioni a fisionomie, condotte e posture predeterminate e “circoscritte”. “Professionalità” significa rifiutare la complessità a favore della parzialità. La professionalità è un’operazione di anatomia sociale. Il taglio, la recisione sono le sue cifre elettive. L’individuo professionale deve ritagliare tra le mille condotte possibili solo quella adatta al proprio ruolo. Deve imparare a parlare, pensare e agire come esige il ruolo. Al limite, essere disposto ad annullarsi completamente in esso, diventarne prigioniero senza condizioni. E più si annulla in esso, più sarà giudicato “professionale”.

Il nemico diabolico di questo processo è il pensiero critico. Se l’individuo professionale assume la fisionomia del ruolo senza mai metterla in discussione sarà accolto da sorrisi e pacche sulle spalle. Se mette in discussione il ruolo sarà giudicato “poco professionale”, verrà considerato un individuo di dubbia competenza, strano, forse inaffidabile. Ma ciò che gli altri chiamano “strano” è in realtà tutto ciò che eccede il ruolo professionale e che talvolta coincide senz’altro con l’essere “umani”.

Essere professionali configura, così, una forma estrema di adesione al ruolo e di rimozione della propria umanità. Il caso limite è quello del sicario che assolve professionalmente alla propria occupazione sine ira et studio, uccidendo persone sconosciute senza alcun coinvolgimento emotivo perché totalmente assorbito dal proprio ruolo. Da un punto di vista professionale, il suo operato è impeccabile; dal punto di vista morale è crudele, terribile, malvagio. Per i cultori della professionalità, il suo è un lavoro fatto bene. Per tutti gli altri, il suo agire è esecrabile.

In questo senso, il ruolo è anche un rifugio per individui insicuri. Aderendo agli imperativi imposti dal ruolo, celandosi dietro le apparenze solide della parte che recita, l’insicuro acquisisce sicurezza. Molte persone mediocri riescono a sentirsi rispettate solo quando interpretano fin negli aspetti più minuti un ruolo. La conformità totale e acritica a quanto esso prescrive è lo scudo dietro il quale si trincerano. Una volta fuori dal ruolo professionale, lasciate a se stesse, si sentono smarrite e incapaci di tutto e rivelano la loro mediocrità assoluta come nello stereotipo del temuto direttore d’azienda, inflessibilmente devoto al proprio ruolo, che rivela la propria nullità umana in famiglia.

La professionalità può, dunque, essere un’opportunità per essere celebrato e lodato. Naturalmente, affinché ciò avvenga, la conformità rispetto alle aspettative legate al ruolo deve essere totale o quasi. Più ci si conforma, più si è approvati. Ma più ci si conforma, più si perde in umanità.

Ecco, così, che una delle qualità più ambite della nostra “società della prestazione” rivela tutta la propria fragilità, rivelandosi una sorta di cortocircuito sociale: essere professionale vuol dire spesso limitare la propria umanità entro un alveo prestabilito. In taluni casi, poi, la professionalità è un paravento per persone insicure e mediocri, forse insicure e mediocri per non aver fatto altro che ricoprire ruoli nella loro esistenza. La professionalità, insomma, rappresenta uno dei grandi paradossi della modernità, che celebra questo attributo nel momento stesso in cui prescrive la perdita, seppure parziale, della qualità che fa di noi quello che siamo: la complessità umana.

Fonte:

Parsons, T., 1996, Il sistema sociale, Edizioni di Comunità, Milano.

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Le funzioni rassicuranti della burocrazia

Di solito le persone lamentano gli aspetti più negativi della burocrazia: la sua macchinosità esasperante, la sua lentezza cronofagica (in quanto sembra divorare il nostro tempo), la sua autoreferenzialità onanistica, la sua ridondanza sfacciata, la disumanità che talvolta sembra debordare nel sadismo più gretto, la sua apparente inutilità. Si potrebbe continuare.

C’è però chi, come il filosofo Emiliano Bazzanella, osserva che la burocrazia ha anche una finalità rassicurante, consistente nel fare da filtro nei confronti della realtà e dei suoi rischi, nell’attutire i duri colpi dell’esistenza nuda e cruda. La burocrazia, in altre parole, può immunizzare dai dardi impietosi della realtà.

Per comprendere in che senso la burocrazia può svolgere una finalità rassicurante, si consideri il seguente brano, tratto dall’interessante libro di Bazzanella Critica della ragion burocratica (Mimesis, Milano, 2022):

Se pensiamo ad esempio a un evento infausto per quanto naturale come la perdita di una persona cara, ci rendiamo conto che l’apparato burocratico che riguarda le pratiche funerarie, crea una bolla protettiva che tende a differire e distrarre il dolore, conto che l’apparato burocratico che riguarda le pratiche funerarie, crea una bolla protettiva che tende a differire e distrarre il dolore, veicolando l’attenzione su quelli che di primo acchito possiamo definire inutili formalismi. Il densissimo tessuto di passaggi burocratici che si innestano sull’evento della morte nelle società moderne, costituisce una forma di edulcorazione del lutto, una sorta di  metamorfosi rituale finalizzata a differire e smorzare la lacerazione  emotiva causata da un fatto in sé necessario e inemendabile: attraverso i meccanismi distraenti dell’eccesso documentale il dolore viene rinviato in vista di una sua cronicizzazione attutita per cui si tende a prorogare il lutto in forma depotenziata e meno impattante dal punto di vista psicologico (Bazzanella, E., 2022, p. 14).

Tale effetto non intenzionale della burocrazia è riassumibile nel concetto di “distrazione”: distogliendo la nostra attenzione dal dolore e dagli imperativi più crudi della vita, la burocrazia agisce da cuscinetto mitigante, consentendoci di attraversare in maniera edulcorata fasi penose della vita. Se siamo troppo occupati a riempire moduli  e sbrigare pratiche eccessive, ci lasciamo distrarre dalla voce nuda della sofferenza generata dal lutto, che ci giungerà con toni più smorzati.

Gli eccessi burocratici sortiscono anche un effetto di “distanziamento”, ossia di allontanamento nel tempo e nello spazio di un evento angoscioso con il risultato che questa presa di distanza produce effetti ansiolitici.

Un esempio […] dei meccanismi di differimento e del distanziamento dei dispositivi di sicurezza cementati dall’azione burocratica, riguarda il funzionamento della giustizia italiana. […]. Una delle tecniche della giustizia italiana consiste proprio nello “spostamento in là” o nello “distanziamento” di ogni decisione e di ogni presa di posizione in merito alla verità di una serie di fatti: se l’incontro con l’Altro è in sé sempre problematico, allora sembra indubbiamente più saggio il differimento potenzialmente sine die di quest’incontro; se vige il meccanismo della duplicazione dei controlli e delle doppie registrazioni, l’escamotage migliore è quello difensivista dell’inazione oppure del rendere complesso ogni atto giuridico in vista di un suo progressivo rallentamento (Bazzanella, 2022, pp. 133-134).

Infine, un altro meccanismo di riduzione dell’angoscia da parte della burocrazia è riassumibile nel concetto di “cronicizzazione”, in virtù del quale «il fattore ansiogeno, preventivamente alleviato dalle due precedenti azioni immunitarie, si trasforma in qualcosa con cui si può reciprocamente convivere, senza cedere alle lusinghe del conflitto o della dipendenza» (Bazzanella, 2022, p. 15).

Rendere cronico un evento induce i meccanismi rassicuranti della stabilità e della consuetudine. La produzione continua di documenti dilaziona ed estende nel tempo la funzione burocratica che, facendo perdere tempo, rasserena nel senso che induce a pensare che comunque qualcosa si sta facendo per risolvere un problema tramite, appunto, la cronica produzione di documenti.

La burocrazia assolve non intenzionalmente funzioni di rassicurazione e di riduzione dell’ansia quotidiana, avvolgendoci quotidianamente nelle sue irresistibili volute normative. Imponendoci i suoi noiosi procedimenti, le sue “inutili” pratiche, ci costringe a “perdere tempo”, ma inevitabilmente il tempo perso è un tempo che dedicheremmo al confronto diretto e spietato con le sorgenti più rischiose della sofferenza umana. In ultima analisi, come il calcio, la musica, l’arte e le droghe, la burocrazia ci permette di allontanare la coscienza dall’angoscia primordiale della morte, spingendoci nel mondo della lamentatio che, nel mentre irrita, attenua il pensiero del male.

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La scandalosa forchetta

Oggi, cucchiaio, forchetta e coltello sono considerati l’abbiccì della civiltà. A tavola, è considerato ordinario servirsi di questi strumenti per portare il cibo alla bocca. Chi non lo fa è considerato, rozzo, incivile, strano, se non addirittura matto. Eppure, la forchetta, ad esempio, si è diffusa come strumento “normale” solo in tempi relativamente recenti ed è stata considerata “strana” per molto tempo a testimonianza del fatto che ciò che diamo per scontato e naturale oggi può non esserlo stato nel passato.

Non si sa con precisione quando la forchetta abbia fatto la sua comparsa sul nostro desco. Ciò che si sa è che romani e greci antichi adoperavano di solito esclusivamente le mani. Varie attestazioni iconografiche ne segnalano la presenza già nell’XI secolo, anche se bisognerà attendere ancora qualche secolo perché si diffonda in tutti gli strati sociali. Il fatto curioso è che, per diverso tempo, la forchetta fu condannata dalla Chiesa quale esempio di immoralità.

Così scrive la storica (di recente scomparsa) Chiara Frugoni in un suo interessante libro:

Gli uomini di Chiesa ritennero la forchetta strumento di mollezza e perversione diabolica. San Pier Damiani (1007-1072) non ebbe alcuna pietà per la povera principessa bizantina Teodora, andata sposa al doge Domenico Selvo, che usava la forchetta e si circondava di raffinatezze cercando di ingentilire le maniere dell’Occidente: «Non toccava le pietanze con le mani ma si faceva tagliare il cibo in piccolissimi pezzi dagli eunuchi. Poi li assaggiava appena portandoli alla bocca con forchette d’oro a due rebbi»; la terribile morte della giovane donna, le cui carni andarono lentamente in gangrena è vista come una giusta punizione divina per un così grande peccato (Frugoni, C., 2001, Medioevo sul naso, Laterza, Roma-Bari, p. 114).

Per molto tempo la forchetta fu considerata segno di eccessiva stravaganza e il suo uso si generalizzò di pari passo con il diffondersi della pasta. Le ubbie religiose si opposero all’avanzare  della forchetta fino al XVIII secolo, quando finalmente, seppure con gradualità, lo strumento non fu più giudicato un mezzo di perdizione dell’anima.

La “stranezza” della forchetta risalta anche dal seguente brano:

Un viaggiatore francese, dopo aver visitato nel 1610 Venezia e le corti di Ferrara, Firenze e Roma, notava «un’altra usanza che non c’è in alcun altro paese da me visitato nei miei viaggi, né credo sia praticata da alcun altra nazione della cristianità, ma solo dall’Italia. Gli italiani usano sempre la  forchetta e se qualcuno, chiunque egli sia, che siede a tavola in compagnia di altri, sconsideratamente tocca con le dita il pezzo di carne da cui tutti  tagliano, dà offesa alla compagnia, perché egli trasgredisce le norme della buona educazione». Catturato dall’esempio, tornato in Inghilterra, egli fu  oggetto di ironie: «Fui motteggiato per questo frequente uso della forchetta da un mio amico, dotto gentiluomo, il quale nel suo allegro umore  non esitò a chiamarmi furcifer, perché usavo la forchetta a tavola».

Lo stupore dell’amico inglese, come di Thomas, derivava dal fatto che frapporre un mezzo meccanico fra le mani e il cibo era un obbligo della  donna mestruata, affinché costei evitasse il contatto contaminante col cibo. Perciò l’attrice Isabella Andreini, invitata ad un banchetto dai Gonzaga, si  ritenne offesa quando le venne presentata una forchetta. Sullo stesso metro  ragionava Luigi XIV, quando cacciò il pronipote duca di Borgogna, per aver  osato tirar fuori da un astuccio la propria forchetta. Avrebbe dato cattivo esempio ai bambini! (Bertelli, S., 1994, Corsari del tempo. Quando il cinema inventa la storia, Ponte alle Grazie, Firenze, p. 325).

Sembra bizzarro a noi contemporanei che l’uso della forchetta sia stato considerato per lungo tempo indice di cattiva educazione e di inciviltà. Diamo per scontato che la civiltà sia qualcosa di unico, che in ogni tempo sia stata la medesima in Occidente, senza riflettere che anche la civiltà e la cultura sono prodotti sociali, che variano nel tempo e nello spazio.

La lezione che possiamo trarre dalla storia della forchetta è che il comportamento rozzo di oggi può essere la condotta civile di domani, così come un gesto civile di oggi potrebbe essere considerato grossolano o condannabile tra qualche tempo. Lo dimostra, ad esempio, la storia dello scappellotto educativo, un tempo gesto consigliato a tutti i genitori per “raddrizzare” i figli riottosi all’obbedienza e oggi considerato un atto passibile di condanna penale.

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Siamo tutti idioti

“Persona di scarsa intelligenza, stupido, deficiente” così il vocabolario della Treccani definisce il significato del termine idiota, comunicando un’accezione che è nota a tutti coloro che parlano la lingua italiana. Sembrerebbe che non ci sia null’altro da aggiungere se non che, nel corso del tempo, a partire dagli antichi greci, la parola è andata assumendo svariati significati, spesso sorprendenti. Ripercorriamoli brevemente con l’aiuto di un breve saggio di Cesare Colletta, contenuto in un testo molto interessante dedicato alla stupidità e all’idiozia.

Progressivamente, il termine “idiota” ha assunto i seguenti significati, che talvolta sono coesistiti:

  1. Privato cittadino, in opposizione allo Stato. In questa accezione si trova in Tucidide e Platone.
  2. Qualcuno che non ricopre cariche pubbliche, che non fa politica. Erodoto e Tucidide offrono vari esempi di questa accezione.
  3. Suddito, non appartenente alla famiglia reale. Ancora Erodoto.
  4. Soldato semplice (Senofonte).
  5. Laico in opposizione a sacerdote (Bibbia greca).
  6. Uomo qualunque, uomo comune (Platone).
  7. Chi sia sprovvisto di un sapere professionale, profano (Tucidide, Senofonte).
  8. Dilettante (Senofonte).
  9. Ignorante (Menandro, Sesto Empirico).
  10. Infine, l’accezione medico-psichiatrica di “persona affetta da idiozia” ovvero da uno stato di grave insufficienza mentale si trova nel 1690 nel dizionario di un tale Furetiére. Da qui discende, in sostanza, l’accezione odierna più usata di persona stupida

Se volessimo aderire ai significati etimologici del termine “idiota”, potremmo ben dire che siamo tutti idioti nel senso che siamo tutti privati cittadini. Inoltre, pochi di noi si dedicano alla vita pubblica o appartengono a una famiglia reale. Alcuni di noi sono stati soldati semplici. Siamo sicuramente uomini qualunque, almeno la maggior parte di noi e, anche se possediamo conoscenze professionali, siamo sicuramente profani riguardo ad altre discipline. Infine, pochi di noi sono idioti nel senso medico ottocentesco (affetti da un grave disturbo mentale).

Insomma, in base alla storia del termine, siamo tutti idioti per qualche verso, che ne siamo consapevoli o no. Ma è probabile che, se pure ci attenessimo alla sola accezione odierna, troveremmo facilmente almeno una persona ai cui occhi appariamo come dei perfetti idioti.

Non c’è scampo. L’idiozia è una etichetta sempre incombente su di noi.

Fonte

Frescura, V., Papparo, C. F. (a cura di), 2000, Stupidi e idioti. Undici variazioni sul tema, Luca Sossella Editore, Roma, pp. 155-161.

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La criminalità in Italia tra realtà e percezione

Qual è l’andamento della criminalità in Italia negli ultimi anni? I delitti sono in aumento o in diminuzione? Ci sentiamo più o meno sicuri oggi rispetto a qualche anno fa? Quali reati preoccupano di più?

Ha cercato di rispondere a queste e ad altre domande, l’indagine “La criminalità: tra realtà e percezione”, curata dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale della Polizia Criminale e l’Eurispes sulla base dei dati elaborati dal Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale nel periodo 2007-2022.

Secondo l’indagine, il «totale generale dei delitti ha mostrato un andamento altalenante sino al 2013, per poi evidenziare una costante flessione dal 2014 al 2020. Nel 2021 e nel 2022 si ha, invece, una risalita: in particolare, nel 2022, i delitti commessi registrati sono 2.183.045, con un incremento rispetto al 2021 del 3,8%». Gli stessi curatori fanno però notare la particolarità degli anni 2020 e 2021, caratterizzati da limitazioni al movimento delle persone, che hanno inciso moltissimo anche sui “movimenti” dei criminali. È evidente che i confronti assumono un aspetto diverso secondo l’anno di confronto. Se questo viene effettuato con il 2019, molti delitti che, rispetto al 2021, appaiono in aumento, sono registrati invece in diminuzione.

È un dato interessante questo, che dimostra che con le statistiche si può (almeno in parte) barare, evidenziando questo o quel confronto secondo le convenienze del caso. Insomma, la statistica come forma di retorica pubblica.

Citando, comunque, i dati della ricerca emerge che, rispetto al 2021 «l’aumento dei reati nel 2022 ha riguardato, i furti (+17,3%), le estorsioni (+14,4%), le rapine (+14,2%), le violenze sessuali (+10,9%), la ricettazione (+7,4%), i danneggiamenti (+2,9%) e le lesioni dolose (+1,4%); in diminuzione invece lo sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorile (-24,7%), l’usura (-15,8%), il contrabbando (-10,4%), gli incendi (-3%) e i danneggiamenti seguiti da incendio (-2,3%)».

Prendendo in considerazione, invece, il quadriennio 2019-2022, i dati assumono un andamento più irregolare in quanto gli atti persecutori e i maltrattamenti contro familiari e conviventi mostrano un decremento nel 2022. Le violenze sessuali, invece, a fronte di un decremento nel 2020 rispetto all’anno precedente, mostrano un andamento incrementale nel biennio successivo.

Nell’ultimo anno sono stati registrati 314 omicidi, con 124 vittime donne (+4% rispetto al 2021), di cui 102 uccise in àmbito familiare/affettivo; di queste, 60 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Una diminuzione, invece, si rileva per i delitti commessi in ambito familiare/affettivo, che da 148 scendono a 139 (-6%).
Il totale degli omicidi commessi passa da 304 nel 2021 a 314 nel 2022 (+3%); in generale, comunque, si registra negli anni un calo di questo reato, che erano il doppio nel 2007 (632).

Nonostante vari incrementi, appare, dunque, problematico parlare di un imbarbarimento della vita sociale. Lo testimonia anche l’accresciuto senso di sicurezza degli intervistati dell’indagine: «Il 61,5% dei cittadini afferma di vivere in una città/località che giudica sicura. Rispetto ai risultati ottenuti alla stessa domanda nella rilevazione effettuata dall’Eurispes nel 2019, aumenta la quota di quanti si sentono in sicurezza nel luogo di residenza (erano il 47,5%)».

Insomma, perfino il senso di sicurezza, dopo decenni di insicurezza conclamata e quasi auspicata, sembra recuperare nell’opinione degli italiani. Potrebbe forse dipendere da una sorta di effetto pandemia ossia dalla sensazione di essere “scampati” al virus e quindi di sentirsi più sicuri? Non lo sappiamo. Addirittura, poi, un’ampia fetta del campione intervistato (47%) si dice convinto che i reati sono commessi in egual misura da italiani e stranieri! Piccole, grandi novità rispetto a indagini precedenti da cui traspariva che gli italiani si sentivano in gran parte insicuri a causa degli stranieri!

Il vento sta forse cambiando?

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Avvelenare il pozzo: genesi di una strategia argomentativa

È certo che John Henry Newman (1801–1890), teologo, cardinale, filosofo inglese, venerato come santo dalla Chiesa cattolica, non avrebbe mai creduto, componendo la sua Apologia Pro Vita Sua (1864), di battezzare una delle strategie argomentative più diffuse al giorno d’oggi, talmente diffusa da far parte integrante e potente del repertorio retorico di imbonitori, pubblicitari, populisti, persuasori di vario genere.

Convertitosi al cattolicesimo, provenendo dall’anglicanesimo, Newman fu coinvolto in una serie di controversie non solo religiose, principalmente con Charles Kingsley (1819-1875), esponente di spicco della Chiesa anglicana. Tali controversie divennero particolarmente tese dopo che Newman lasciò la sua posizione di parroco anglicano della Chiesa di St. Mary a Oxford per trasferirsi a Littlemore dove nel 1845 si convertì al cattolicesimo.

Il retroterra di tali polemiche è sostituito da una serie di pamphlet cui contribuì lo stesso Newman, il quale, insieme ai suoi alleati, diede alle stampe i cosiddetti Tracts for the Times, piccoli scritti teologici in cui richiamava la Chiesa anglicana a principi morali e teologici vicini a quelli cattolici. A tali scritti risposero i pamphlet di parte anglicana che mossero accuse pesanti nei confronti di Newman, spesso sfocianti in rilievi personali e morali.

La Apologia Pro Vita Sua fu pubblicata da Newman proprio per difendere le sue opinioni religiose e costituisce, ancora oggi, un’opera degna di essere letta, anche per il suo carattere letterario.

Al di là di queste vicende teologiche, che potrebbero sembrarci lontane e poche interessanti, lo scritto di Newman è importante anche perché in esso troviamo coniato per la prima volta un termine che ha dato vita, come detto, a una precisa strategia retorica e argomentativa nota come “avvelenamento del pozzo” (poisoning of the wells). L’espressione, come spiega Newman, deriva dall’antica ed efficacissima pratica militare di avvelenare i propri pozzi per impedire le invasioni degli eserciti nemici. Metaforicamente, essa è diventata una potente strategia comunicativa per “bloccare” i propri interlocutori, rendendo sterili le loro argomentazioni.

Propriamente, per “avvelenamento del pozzo”, si intende un tipo di strategia argomentativa per cui la posizione sostenuta dall’avversario viene preliminarmente screditata in pubblico, seminando sospetti circa la sua buona fede, attendibilità o credibilità. Questa tattica permette di inquinare alle radici tutto ciò che quello (quella) afferma, ha affermato o affermerà in quanto irrilevante, compromesso, falso o sospetto. In questo modo, l’“avvelenatore” fa in modo di non rispondere alle obiezioni o critiche dell’interlocutore che scontano una sorta di peccato originale irredimibile, una condanna mai perdonabile.

L’avvelenamento del pozzo è un caso particolare di argumentum ad hominem, nota fallacia consistente nello svalutare o contestare un argomento, criticando chi lo sostiene per un suo (presunto) difetto, orientamento, appartenenza, provenienza e altri elementi che precedono la controversia.  

L’avvelenamento del pozzo può assumere più forme.

Può tradursi, ad esempio, nella diffusione di informazioni negative, vere o false che siano, contro il proprio interlocutore, che suggeriscono ad esempio che egli (o ella) è pazzo (pazza), incompetente o ha precedenti penali o, in passato, ha esibito comportamenti disdicevoli, minando, dunque, alla fonte la sua credibilità. La conclusione implicita, in questi casi, è che qualsiasi cosa l’interlocutore affermi, non è accettabile in quanto egli (ella) è…. Come fidarsi del resto di qualcuno che possiede quelle caratteristiche negative?

Un’altra forma di avvelenamento del pozzo prevede una sorta di prelazione morale sul futuro. Ciò avviene, ad esempio, quando si sostiene: “Chiunque osi contraddire questa posizione è una persona disonesta, malvagia, infida”. In altre parole, viene applicato un attributo negativo a eventuali futuri oppositori, nel tentativo di scoraggiare il dibattito in partenza. Eventuali contestazioni in contraddizione con la posizione espressa vengono automaticamente deprivate di ogni vis retorica.

L’avvelenamento del pozzo è una strategia ampiamente utilizzata nei dibattiti contemporanei. In ambito politico, ad esempio, etichettare l’avversario in base alla propria appartenenza ideologica o partitica serve spesso a spuntare le sue tesi, decapitandole sul nascere. Un’accusa di “comunismo” o “fascismo”, precedente a ogni discussione nel merito, può valere a insinuare dubbi e sospetti nei confronti di qualsiasi tesi avanzata dall’interlocutore. È evidente come ciò non consenta di valutare una iniziativa per i suoi meriti dal momento che l’alone negativo dell’appartenenza politica inibisce ogni seria considerazione della proposta.

Lo stesso avviene se si muove un’accusa di interesse al proprio avversario. Come è noto a tutti coloro che hanno vissuto la recente pandemia da Covid-19, le parole di medici, biologi, scienziati sono state spesso valutate meno per i loro meriti che per i loro presunti legami (seminati ad arte) con case farmaceutiche o ineffabili interessi di parte. In casi estremi, la stessa scienza è stata percepita come interamente piegata agli interessi commerciali di potentissime multinazionali.

Colore della pelle, orientamento sessuale e religioso, provenienza geografica, attività svolta: sono solo alcuni degli elementi su cui è possibile far leva per avvelenare il pozzo della contesa.

Lo sapeva bene John Henry Newman, il quale dedica alcune pagine della sua Apologia Pro Vita Sua a difendersi dai tentativi di Charles Kingsley di farlo apparire preliminarmente come un furfante o uno sciocco per alienargli le simpatie dei lettori. Newman era perfettamente consapevole del pericolo che correva in virtù della subdola tattica adoperata dall’avversario. Grazie alla lettura delle sue pagine (qui tradotte da me in italiano), ora siamo anche noi consapevoli di un’arma retorica che forse è già stata usata contro di noi e certamente potrebbe esserlo in futuro.

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Il mutuo come strumento di controllo sociale

Che cosa c’è di più ordinario e normale che accendere un mutuo, contrarre un’ipoteca, indebitarsi per acquistare una casa, un oggetto di consumo, una vacanza, un intervento chirurgico? Lo fanno tutti oggi. È così che va la vita. E poi vuoi mettere i vantaggi che ti consente di ottenere? Permetterti cose che altrimenti non potresti permetterti. Imitare i divi del momento e trascorrere un periodo di vacanze come loro. Coronare il sogno di una casa tua e solo tua per sempre.

Quanti riflettono, però, sul fatto che un mutuo, un debito, un’ipoteca sono, a tutti gli effetti, veri e propri strumenti di controllo sociale e politico? Leggiamo quello che dice in proposito Marco D’Eramo:

È solo nel XX secolo che il debito assurge a vero e proprio strumento di controllo politico. Lo fa innanzitutto come controllo delle singole persone, delle loro famiglie, attraverso l’istituzione del mutuo. L’Ottocento non conosceva ancora il mutuo per l’acquisto della casa come strumento disciplinatore di intere popolazioni: chi si addossa un mutuo quindicennale o trentennale non è propenso a rivoltarsi, e per una duplice ragione: 1) il mutuo lo rende proprietario di casa, e quindi gli fa interiorizzare l’ideologia proprietaria; 2) il mutuo lo rende in un certo senso debitore di se stesso, prigioniero della sua (futura) proprietà per anni e decenni a venire.

Il mutuo trentennale sulle case garantito dallo stato fu una delle principali innovazioni del New Deal di Franklin Delano Roosevelt, che non a caso esclamava: “Una nazione di proprietari di casa, di gente che si è guadagnata una porzione reale del proprio paese, è invincibile”. Prima di Roosevelt non esisteva il mutuo in senso moderno. Solo con quella riforma l’anticipo da dare per l’acquisto della casa fu abbassato al 10% del suo prezzo, e solo allora la durata del mutuo si dilatò fino a trent’anni, riducendo l’ammontare delle rate mensili, e permettendo a milioni di famiglie operaie e di borghesia piccola piccola (quella che negli Usa si chiama «classe media») di acquistare la propria casa (già negli anni cinquanta più di sei famiglie statunitensi su dieci erano proprietarie della propria dimora) (D’Eramo, M., 2023, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano, p. 129).

La durata del mutuo

si estende su venti, anche trent’anni, nel corso dei quali il debitore è supposto organizzare, in modo libero e autonomo, la sua vita in vista del rimborso. La questione del tempo, della durata è al cuore del debito. Non solo il tempo di lavoro o il tempo di vita, ma anche il tempo come possibile, come avvenire. Il debito getta un ponte tra il presente e il futuro: anticipa ed esercita una prelazione sull’avvenire. Il debito […] ipoteca nello stesso tempo comportamenti, salari, redditi futuri (D’Eramo, M., 2023, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano, p. 132).

Al mutuo bisogna aggiungere le rate per l’acquisto di qualsiasi cosa, i black Fridays, gli sconti convenienza, i vouchers, i buoni, le offerte sensazionali: tutti strumenti per plasmare l’identità del consumatore e del piccolo borghese.

Strumenti che accogliamo con favore in quanto ci consentono di raggiungere dei vantaggi si rivelano, dunque, mezzi di disciplinamento sociale, finalizzati a renderci docili nei confronti della struttura di potere in cui viviamo, a garantire la nostra fedeltà a un sistema che fa di noi dei prigionieri a vita, instillando in noi l’illusione di essere liberi e autonomi.

Il potere non ha bisogno di agire su di noi in modo platealmente coercitivo, segregandoci in celle o imponendo condotte acquiescenti in maniera brutale. Ci sono modalità più sottili e pervasive di controllo sociale che ci sorridono nel momento in cui fanno di noi degli schiavi; che ammiccano nel momento in cui rafforzano la nostra servitù; che vellicano i nostri più intimi desideri mentre ci stringono sempre più in una morsa di acciaio.

Pochi pensano al mutuo come strumento di controllo sociale e politico. I pochi che lo fanno vengono accusati di iperbole o follia. Significa che ormai, come afferma D’Eramo, abbiamo interiorizzato perfettamente i dogmi dell’individualismo proprietario su cui si regge la nostra società turbocapitalistica. E guai chi ci tocca la casa, la vacanza o gli altri oggetti acquistati con tanta fatica e dopo tanto tempo. Preferiremmo morire piuttosto che cedere di fronte alle subdole coercizioni del sistema in cui viviamo.

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Disgrace ≠ disgrazia

“Fucking disgrace, fucking disgrace”. Con queste parole l’allenatore della Roma José Mourinho si è rivolto all’arbitro della finale di Europa League Siviglia-Roma, persa dai giallorossi ai rigori (5-2) alla Puskas Arena di Budapest il 31 maggio scorso. L’arbitro inglese Taylor ha ricevuto insulti e parolacce anche dai tifosi romanisti, che lo hanno accusato di dirigere a senso unico – ossia a favore degli spagnoli – l’importante gara internazionale.

L’espressione fucking disgrace è stata tradotta da tantissimi quotidiani cartacei e digitali con “fottuta disgrazia”. In realtà, disgrace significa “vergogna”, “scandalo”, “disonore” e non certo “disgrazia”, intesa nel senso di “sventura”, “calamità” o “sciagura”.

Può significare “disgrazia” nel senso di “perdita di favore”, come quando si dice “cadere in disgrazia” (to fall into disgrace), ma evidentemente non è questo il significato del termine nell’espressione adoperata da Mourinho. Si tratta di un classico false friend, che, come capita ai false friends, ha tratto in inganno i giornalisti.

Siamo di fronte, dunque, a un palese errore di traduzione, motivato probabilmente da sciatteria, come spesso accade nel giornalismo. Sarebbe bastato consultare un qualsiasi dizionario bilingue per rendersene conto. Ma sembra che per i giornalisti l’unica cosa che conti sia dare quanto prima la notizia. Poi, se si commette un errore di traduzione che vuoi che sia? Il paese ha ben altri problemi a cui pensare.  

Tanto gli italiani, l’inglese non lo conoscono!

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Il capitalismo è una religione

Sono d’accordo. Il capitalismo, come diceva Walter Benjamin in un abbozzo del 1921 (che potete leggere in appendice), è una religione, un sistema simbolico che soddisfa “ansie, tormenti, inquietudini”.

Non sono d’accordo. Il capitalismo non è una religione “puramente cultuale”, priva di dogmi e di teologie. Dogmi e teologie – e anche teologi – esistono e come.

Il dogma principale su cui si regge il capitalismo è quello del “mercato”, entità ontologica e misteriosa che tutto vede e tutto decide, coerentemente assimilata a una divinità nei nostri discorsi: “Lo vuole il mercato”; “I mercati sono in fermento”; “Sarà il mercato a stabilirlo”. Per rendersi conto della dimensione teologica in cui si muove il capitalismo, basta sostituire in queste frasi la parola “mercato” con la parola “dio”. Il mercato – o politeisticamente “i mercati” – è panteisticamente presente nelle nostre vite. Non vi è nulla che gli sfugga, nulla che non abbia già stabilito e il suo trucco più abile consiste nel fatto che è disposto a tutto pur di farci credere che non esiste. Del resto, la sua metafora più nota è quella della smithiana “mano invisibile”. Il mercato è a noi invisibile, ma vede tutti noi benissimo.

Il capitalismo ha anche i suoi officianti: gli imprenditori. Gli imprenditori indossano i loro paramenti: giacca e cravatta, il novello saio della modernità. Gli imprenditori seguono una loro liturgia consacrata dall’uso: metodi consolidati per fare soldi che si chiamano produzione e marketing. Gli imprenditori hanno un unico fine: conseguire profitti. Il profitto sta al capitalista, come la salvezza sta al cristiano. Oggi, tutti vogliono essere imprenditori, così come un tempo tutti volevano farsi preti. Per sopravvivere e ottenere prestigio.  Sono finiti perfino i tempi in cui venivano chiamati oltraggiosamente “padroni”. Oggi, “imprenditore” è una “bella” parola.

Il capitalismo ha i suoi luoghi di culto: le borse, le grandi aziende, le multinazionali dove, giorno dopo giorno, viene celebrata la religione del capitale-sempre-investito perché il capitale non sta mai fermo. Tuttavia, come il dio delle religioni, il capitale è “in cielo, in terra e in ogni luogo”: si espande e moltiplica i suoi tentacoli di piovra senza soluzione di continuità così che, in realtà, il mondo tutto è il suo luogo sacro. Dove sono due o tre riuniti nel suo nome, esso è in mezzo a loro. E all’umanità piace riunirsi nel suo nome.   

Come afferma Benjamin, il capitalismo è una religione per la quale “non esistono “giorni feriali”: ogni giorno è festivo”. Ogni giorno è utile per conseguire profitti. Non esistono barriere o laccioli. Tutto il resto è noia, o meglio, vuoto. Il capitalismo è sempre attivo, non dorme mai, non si concede licenze o moratorie. Sfuggirgli è praticamente impossibile. Perfino i nostri sogni possono essere capitalizzati. Tutto può essere mercificato, ossia asservito al capitalismo. Anche il corpo e la dignità.

Il capitalismo è talmente pervasivo che si insinua e domina perfino il linguaggio, che non a caso mutua molti suoi termini dalla religione. Parole come mission, redemption, vision, vocazione, community, fidelizzazione (loyalty), customer loyalty, fidelity card/programs, follower (seguace), ricompensa (reward), sofferenza (quando il cliente è valutato dalla banca come “insolvente”), valori e conversione vengono oggi disinvoltamente adoperati nel gergo degli addetti ai lavori per descrivere le loro azioni e conferire loro un senso ieratico di cui sembrano molto fieri. Non esiste una lingua neutra e le alternative rimandano a epoche pregresse che non torneranno più. Anche l’onore appare un sentimento vetusto, sostituito dalla reputazione, asset indispensabile dell’esistenza produttiva nella contemporaneità.

Al tempo stesso, in ambito scolastico, è tutto un parlare di “crediti” e “debiti”. In ambito lavorativo, si esibiscono termini come management e performance. In medicina e in psicoterapia, i “clienti” hanno ormai sostituito i “pazienti”. Nel linguaggio quotidiano si usano acriticamente termini come “il tempo è denaro”, “al netto di”, “fare il bilancio della propria vita”, “mercato dei sentimenti”, “rendimento scarso”, “prestazione”, “essere competitivi”, “acquistare credito”, “essere produttivo”, “ogni cosa ha il suo prezzo”, “sono in deficit”, “come sei fiscale!”  ecc.

La verità è che il capitalismo ha ormai raggiunto la più perfetta egemonia culturale, ossia gramscianamente la direzione e il dominio assoluto delle idee. Basta provare a proporre ideali diversi, lontani dal credo capitalistico, che le persone vi guarderanno come si guarda un folle, un idiota o, al meglio, un passatista. È questo che fa una religione (o un’ideologia) quando prevale sulle altre: si spaccia per senso comune, per si-è-sempre-creduto-così e fa pensare a tutti che concepire idee diverse sia profondamente sbagliato, se non, come detto, folle.

Il capitalismo dominante impone a tutti una religione unica, quella incarnata, in politica, dal liberalismo (nelle sue varianti post-) e, in economia, dal liberismo (nelle stesse varianti). La sua struttura ideale è molto semplice e non richiede alcuno sforzo particolare, al limite nessun sacrificio. Il sacrificio è sostituito dal consumo: più si consuma, più si esprime appartenenza e meno si corrono rischi di deragliare. Il consumo ha sostituito, a tutti gli effetti pratici, gli antichi riti espiatori, sacrificali e propiziatori. Se si vuole guadagnare piena appartenenza alla società odierna, è necessario dimostrare di essere un buon consumatore. Sempre e ovunque.

Come la religione crea la colpa con il peccato originale, così il capitalismo crea il debito come colpa suprema da espiare e l’indebitato (verschuldend nel linguaggio di Benjamin) come suo sommo rappresentante. Siamo tutti perennemente in debito grazie al mutuo, alla rata e a tutti gli strumenti tramite cui il capitalismo ci avvinghia al proprio sistema, rendendocene fedeli servitori, impadronendosi del tempo e dei soldi che abbiamo.

Come tutte le religioni finora conosciute, il capitalismo è una religione che non tollera eresie, scostamenti dai suoi dogmi, pensieri alternativi. Ogni difformità è presto ridicolizzata, marginalizzata, criminalizzata o – tattica sublime – incorporata e resa docile, incanalata nei melliflui circuiti mercificanti del “sistema” (parola oggi inattuale). Ogni intellettuale che osi mettere in discussione le fondamenta del capitalismo, ad esempio, verrà disinnescato attraverso la concessione di una posizione all’interno dell’università, la pubblicazione di un libro di successo, il conseguimento dello status di “pensatore indipendente”, tutte strategie utilizzate per cooptare il dissenziente all’interno del “sistema” e ricondurlo a più miti consigli. L’arma della cooptazione è più subdola ed efficace di quella della marginalizzazione o della criminalizzazione e rappresenta una caratteristica vincente della religione ecumenica del capitalismo.

Abbiamo bisogno di un ateismo radicale che ci consenta di liberarci definitivamente da questa religione onnipervasiva che si chiama capitalismo, riconducendola a uno dei tanti modi di vedere il mondo. È una impresa difficile, titanica, apparentemente impossibile. Per compierla abbiamo bisogno di un’eresia, forse di una nuova religione, sicuramente di una nuova inquietudine, che oggi, assuefatti come siamo ai dogmi del capitalismo trionfante, non siamo nemmeno in grado di concepire. Siamo tutti morfinomani in questo sistema. E disintossicarci è difficile in questa valle di lacrime.

In appendice a queste riflessioni: Walter Benjamin, Il capitalismo come religione (1921).

Il capitalismo come religione

Walter Benjamin (1921)

Versione di: Leonardo Maria Battisti, febbraio 2020.

Nel capitalismo va scorta una religione; cioè il capitalismo serve essenzialmente a soddisfare le stesse ansie, tormenti, inquietudini a cui in passato davano risposta le cosiddette religioni.

Provare tale struttura religiosa del capitalismo (non à la Weber, come costruzione in guisa religiosa, bensì come fenomeno in sé religioso) sarebbe inutilmente polemogeno perché prematuro. Non si può sciogliere la rete su cui stiamo sospesi. Solo il futuro ne darà una visione d’insieme.

Eppure il presente già offre tre tratti di questa struttura religiosa del capitalismo.

PRIMO. Il capitalismo è una religione puramente cultuale, forse la più estrema mai esistita. In esso tutto ha significato solo in rapporto diretto col culto; senza alcuna specifica dogmatica, né teologia. L’utilitarismo ottiene, da questo punto di vista, la sua tonalità religiosa.

SECONDO. A tale concrezione del culto segue: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci [senza tregua e senza pietà]. Non esistono “giorni feriali”: ogni giorno è festivo nel terribile senso di: dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estremo sforzo del venerante.

TERZO. Tale culto “colpevolizza e indebita” [verschuldend]. Il capitalismo è forse il primo culto a non espiare, bensì creare “colpa & debito” [verschuldend]. Così tale sistema religioso è immesso in un movimento immane. Una piena coscienza della colpa [Schuldbewuβtsein], irredimibile, ricorre al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, per conficcarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per includere Dio stesso in questa colpa, per render pur esso bisognoso di espiazione. Espiazione che non va attesa dal culto stesso, né da una riforma di tale religione (che dovrebbe reggersi su qualcosa di saldo in essa), né da una sua abiura. Essenza di questo movimento religioso (il capitalismo) è procedere fino alla totale e completa colpevolizzazione di Dio: sperare di raggiungere lo stato di disperazione cosmica. Novità storica del capitalismo: la religione non è più riforma dell’essere, bensì la sua tabe. Dilatare la disperazione a stato religioso cosmico; e da ciò aspettarsi la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma non è morto; bensì subisce il destino umano. Tale transito del pianeta Uomo per la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della sua orbita, è l’ethos trovato da Nietzsche. L’oltreuomo è chi per primo inizi di proposito a compiere la religione capitalistica.

Ecco un QUARTO tratto di questa religione: il suo Dio va occultato finché non sarà permesso invocarlo solo allo zenit della sua “colpevolizzazione & indebitamento”. Il culto è celebrato ante una divinità immatura: farsene un’immagine o un’idea lede il segreto della sua maturità.

Pure la psicanalisi costituisce la ierocrazia di questo culto. Freud pensa in guisa affatto capitalistica. Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa, è analogo (come non è stato ancora studiato) al capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga un interesse.

Il tipo di pensiero religioso capitalistico trova espressione grandiosa nella filosofia di Nietzsche. L’idea dell’oltreuomo pone il “salto” apocalittico (anziché nel trasmutarsi [Umkehr], nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza) in una crescita del quarto tratto apparentemente continua, ma in realtà esplosiva e discontinua. Crescita ed evoluzione sono incompatibili nel senso del “non facit saltum”. L’oltreuomo è l’uomo storico cresciuto fino ad attraversare il cielo senza trasmutarsi. Nietzsche ha pronosticato questo sfondamento del cielo da parte di un elemento umano cresciuto, che (pure per Nietzsche) è e resta sul piano religioso colpevolizzazione.

Lo stesso vale per Marx: il capitalismo che non si trasmuta diviene socialismo grazie agli interessi semplici e composti che sono funzioni della colpa-debito (tale è l’ambiguità demoniaca del termine Schuld).

Il capitalismo è una religione di puro culto, senza dogma.

Il capitalismo occidentale (come provato per il calvinismo; ma provabile per le altre correnti cristiane) si è sviluppato come parassita del cristianesimo, tant’è che la storia del cristianesimo è in sostanza la storia del suo parassita: il capitalismo.

(Da paragonare: le immagini sacre delle diverse religioni da un lato e dall’altro le banconote dei vari Stati. Lo spirito che parla dall’ornamento delle banconote).

Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto: Sorel, Réflexions sur la violence, p. 262.

Superamento del capitalismo mediante la migrazione: Unger, Politik und Metaphysik, p. 44.
Fuchs: Struktur der kapitalistischen Gesellschaft (o qualcosa di simile).

Max Weber: Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie, 2 voll., 1919-1920.

Ernst Troeltsch: Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. I, 1912).

Si vedano le indicazioni bibliografiche di Schönberg, II.
Landauer, Aufruf zum Sozialismus, p. 144.

Inquietudini: una malattia dello spirito propria dell’epoca capitalistica. Spirituale (non materiale) assenza di scampo: monachesimo errante e mendicante. Una situazione così senza scampo è colpevolizzante-indebitante. Le “inquietudini” sono l’indice di tale coscienza della colpa-di-non-aver-scampo. Le “inquietudini” sorgono dall’angoscia che non c’è scampo a livello comunitario (non individuale-materiale).

Il cristianesimo nell’epoca della Riforma si è fatto capitalismo (anziché favorir il sorger del capitalismo).

Sul piano metodologico andrebbero anzitutto indagati quali legami col mito il denaro abbia stretto lungo la storia, finché ha poi tratto dal cristianesimo così tanti elementi mitici da costruirsi un proprio mito.

Guidrigildo / thesaurus delle buone opere / compenso dovuto al prete. Pluto come dio della ricchezza.

Adam Müller: Reden über die Beredsamkeit, 1816, p. 56 sgg.

Nesso fra capitalismo & dogma della natura dissolutrice del sapere (la quale è in grado di redimerci e insieme di ucciderci): il bilancio quale sapere che redime e che liquida.

Per capire che il capitalismo è una religione, giova rammentare che il paganesimo originario concepisse la religione non come un interesse “superiore” e “morale”, bensì come il più immediato interesse pratico. Cioè, come il capitalismo odierno, esso non aveva chiara la sua natura “ideale” o “trascendente”, bensì stimava l’individuo irreligioso o eterodosso della sua comunità un membro indubitabile della comunità, proprio nel senso in cui la borghesia di oggi considera i suoi membri senza reddito.

Fonte: https://www.marxists.org/italiano/benjamin/capitalismo-religione.htm

 

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