Il villaggio turistico come istituzione totale

La storia del villaggio turistico, come quella di altre formule turistiche di successo, vanta ormai una sua mitologia, non disgiunta da un elemento di casualità. Il suo ideatore è, di solito, identificato nel commerciante belga Gérard Blitz, il quale ebbe l’intuizione di creare un campo di tende in Toscana nel quale offrire una vacanza sportiva all’aria aperta. Questa idea, apprezzata dai turisti, diede origine al Club Méditerranée, di cui Blitz era socio fondatore, che aprì il suo primo villaggio il 5 Giugno 1950 nella baia di Alcudia, sull’isola di Maiorca, nelle Baleari (Garibaldi, 2006; Gulotta, 2033).

A partire dagli anni Sessanta, il villaggio turistico conosce un enorme successo, che continua ancora oggi, e che vede impegnati operatori celebri come Valtur, il Ventaglio, Club Vacanze, Robinson. Progressivamente, alle tende e alle capanne si aggiungono i bungalow, ma anche appartamenti e piccole ville. Le attività proposte diventano sempre più variegate e su misura, il personale sempre più specializzato, l’offerta sempre più ricca e articolata, i luoghi geografici sempre più disparati.

Da un punto di vista sociologico, il villaggio turistico si configura come uno «spazio sociale creato ad hoc» (Gulotta, 2003, p. 218) che sorge in una sorta di zona extraterritoriale e che tende a proporsi come “socialmente autarchico”, anche se ovviamente ognuno è libero di uscire dai suoi confini. In esso, la vita ordinaria subisce una sospensione: il turista dimentica gli affanni dell’esistenza quotidiana, abbandona momentaneamente il lavoro e, forte della formula all inclusive (che permette di fruire di tutta una serie di servizi già compresi nel prezzo pagato in anticipo) non deve preoccuparsi di nulla dal momento che di tutto – dal cibo al divertimento, dall’alloggio alle attività da svolgere nel corso delle giornate – si occupano altri.

Nel villaggio la vita è più semplice: la socializzazione è facile, anche grazie alla temporanea abolizione delle differenze di ceto, classe e professione, spesso rappresentata da una sorta di imposizione del “tu” a ogni rapporto interno al villaggio. Al tempo stesso, il villaggio crea un contesto protetto e rilassato, tendenzialmente passivizzante, in cui persino il denaro viene revocato e rimpiazzato da braccialetti, palline o gettoni. I normali rapporti economici sono momentaneamente, seppure illusoriamente, accantonati. Le competenze e abilità ordinarie non hanno più alcuna importanza: è più importante saper ballare e cantare che redigere un atto notarile o riparare un tubo che perde.

Sono abolite anche le gerarchie d’età. Sono gli animatori, di solito giovani, a farla da padrone. La loro volontà si impone a tutti – giovani e vecchi – e nessuno può reclamare diritti speciali in virtù della propria anzianità. Al tempo stesso, è tendenzialmente bandita ogni timidezza e l’introversione cede il passo all’estroversione, anche grazie alle pressioni in tal senso di animatori e ospiti del villaggio.

Ciò, tuttavia, non significa che non vi siano regole. Al contrario, la vita del villaggio è densamente scandita da regole esplicite e implicite di ogni tipo; regole talmente avvolgenti e imperative che la loro trasgressione viene avvertita come un tradimento della vita comunitaria. Dalle prime ore del mattino alle ultime della notte, il tempo del turista è fatto rientrare in un preciso calendario di attività a cui si è liberi di aderire, ma che condizionano le esistenze dei villeggianti, anche dei più riottosi e timidi, in maniera significativa. La vita del villaggio è dominata da una maniacale ritualità giornaliera che, forse, troveremmo insopportabile nella vita quotidiana, ma che, in ambito turistico, viene vissuta come un gioioso e passivizzante trasporto verso il divertimento. Esistono anche riti di passaggio, come il cocktail di benvenuto e lo spettacolo del fine settimana, a testimonianza del fatto che la dimensione sociale del villaggio è totalmente distinta da quella della vita ordinaria e richiede precise modalità di ingresso e di uscita. Esistono, infine, regole di condotta e precisi divieti che disciplinano in modo rigoroso la vita di villaggio, configurando forme di devianza comportamentale particolarmente odiose.

Non significa nemmeno che non vi siano gerarchie. La struttura del villaggio è dominata da una precisa organizzazione che vede al vertice il capovillaggio, sotto cui ci sono i capi del servizio sportivo e dell’animazione, sotto cui troviamo gli animatori, gli istruttori, i bagnini ecc. Di questa gerarchia, però, il turista ha una consapevolezza solo parziale. Il mondo in cui vive per una, due o più settimane è un mondo magico in cui tutto ciò che viene desiderato si materializza improvvisamente, quasi dietro non vi fossero lavoro, fatica e, appunto, organizzazione.

I motivi del successo sono anche motivi di critica per alcuni. La dimensione compensativa ed evasiva del villaggio serve a consentire all’ospite di “ricaricare le batterie” in vista del suo rientro nella società alienata e si rivela, in ultima analisi, funzionale a quest’ultima. L’abbandono di status e ruoli ordinari è solo un’illusione che ribadisce la loro forza. L’assoluta apoliticità e spensieratezza della vita di villaggio serve a sopprimere ogni anelito alla critica e al cambiamento dell’esistente, sostituiti dal desiderio infantile di divertirsi. In definitiva, il villaggio sortisce un effetto narcotizzante sulle coscienze. Ogni velleità di pensiero critico trova in esso il proprio nirvana. Nessuno mette in discussione norme e istituzioni della propria società a cui ci si riconsegna “ricaricati”, pronti a subire ulteriori dosi di alienazione. Inoltre, dietro la giocosa informalità apparente della vita di villaggio si celano i medesimi ritmi lavorativi che sottendono la vita quotidiana dei villeggianti, di cui, però, questi ultimi colgono solo il prodotto finale, obliando forme e strutture del lavoro organizzativo che sostiene quel prodotto.

Per quanto possa sembrare bizzarro, paradossale o straniante, il villaggio turistico presenta una organizzazione sociale che offre caratteristiche affini alle istituzioni totali descritte dal sociologo canadese Erving Goffman (1922-1982) nel suo celebre Asylums (1961).

Qui un mio breve saggio su questa insospettabile affinità che getta una luce inquietante su una delle soluzioni turistiche più appetite da chi è in cerca di svago.

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Calcio e rosario

Quello che vedete in foto accanto al produttore cinematografico e presidente del Napoli Aurelio De Laurentis è Natan Bernardo de Souza, o semplicemente Natan, difensore brasiliano di 22 anni, le cui prestazioni sono state recentemente acquisite dalla equipe partenopea. Il calciatore proviene dalla squadra brasiliana del Bragantino.

Noterete, altresì, che il calciatore brasiliano esibisce un rosario intorno alla mano sinistra.

Calcio e religione. Calcio e superstizioni. Calcio e preghiere. Sono alcuni dei temi di cui mi sono occupato nel mio libro Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso, pubblicato dall’editore Meltemi nel 2020.

Con lo stesso editore pubblicherò il prossimo anno un libro dedicato al rosario, visto non come strumento di preghiera, ma come mezzo di interpretazione sociologica e psicologica della realtà attuale e passata.

Si tratta di un libro unico in cui saranno esaminati genesi, segreti e funzioni sociali e psicologiche di una “arma spirituale” oggi considerata da molti un cascame religioso o, al più, un ornamento estetico, ma che, per secoli (e ancora oggi, in realtà), è stata ritenuta uno strumento di comunicazione privilegiata con il divino, nonché un mezzo straordinario di contenimento esorcistico del maligno.

L’assoluta modernità di quella che è definita la più importante devozione extraliturgica cattolica è evidente da questa fotografia. Perché un calciatore di una importante squadra del campionato italiano di calcio sente l’obbligo di mostrare i grani del suo rosario a tutti? Quali sono le funzioni sociali di questo strumento nella contemporaneità? E se, nel tempo, fosse servito per scopi non detti e insospettabili?

Scopriremo tutto ciò nei prossimi mesi.

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La superstizione nel baseball

In Aloni, stregoni e superstizioni, ho raccontato, fra l’altro, dell’importanza delle superstizioni nella vita quotidiana e di come esse assolvano varie funzioni psicologiche e sociali.

Le superstizioni sono ovviamente diffuse anche in tanti sport di squadra, come nel baseball. Lo testimonia un brano di un celebre romanzo dello scrittore americano E. L. Doctorow, Ragtime (2015, Mondadori, Milano), in cui viene descritto ciò che accade nel corso di un incontro tra la squadra di Boston e i Giants di New York.

Dalla parte dei Boston, il ragazzo che raccoglieva le mazze e le riportava alle panchine era, a una più attenta osservazione, un nano, anche lui con l’uniforme della squadra, ma in proporzioni ridotte. Emetteva le sue grida e le sue invettive con voce da soprano. La maggior parte dei giocatori prima della battuta lo toccava sulla testa, un gesto ch’egli sembrava incoraggiare, cosicché Papà si rese conto che era una sorta di rituale scaramanzia. Dalla parte dei Giants non c’era nessun nano, ma uno strano individuo ossuto, la cui uniforme gli pendeva addosso come su un attaccapanni; era fortemente strabico e sembrava imitare il gioco in una sorta di trasognata pantomima, battendo palle immaginarie più o meno all’unisono con le battute vere. Aveva l’aria di un mentecatto. Roteava il braccio come le pale di un mulino a vento. Papà cominciò a spostare la sua attenzione su questo disgraziato personaggio, evidentemente una sorta di portafortuna della squadra, come il nano per i Boston. Durante ì momenti stanchi della partita il pubblico lo apostrofava a gran voce e applaudiva alle sue buffonate. Effettivamente nel programma era indicato come la mascotte della squadra. Il suo nome era Charles Victor Faust. Era chiaramente un povero minorato che s’immaginava di essere anche lui uno dei giocatori, ed era tenuto in squadra per loro divertimento (pp. 188-189).

In questo episodio, la superstizione investe alcuni componenti delle due squadre, ritenuti, a causa della loro diversità fisica e mentale, “portatori” di fortuna. Del resto, toccare la gobba per chiamare a sé la buona sorte è un comportamento diffuso anche nella cultura europea. Doctorow mostra, tuttavia, che lo status di portafortuna non è eterno e può sempre essere revocato.

Non sarà privo d’interesse ricordare che questo povero diavolo, Charles Victor Faust, fu effettivamente fatto giocare in squadra, in una partita verso la fine di quella stessa stagione, quando ormai i Giants avevano vinto lo scudetto e non avevano più da preoccuparsi. Per un momento la sua illusione di essere un grande giocatore di una squadra d’importanza nazionale divenne realtà. Subito dopo, però, venne a noia ai giocatori e l’allenatore McGraw non lo considerò più una mascotte. L’uniforme gli venne confiscata e fu buttato fuori senza tante cerimonie. Venne internato in un manicomio, dove morì pochi mesi dopo (p. 190).

La vicenda di Charles Victor Faust mostra come la medesima disabilità può ricevere attribuzioni tanto positive quanto negative, secondo le circostanze e la mutevolezza delle opinioni. Un ritardo mentale o un’alterazione fisica possono essere ritenute misure apotropaiche in un caso, e situazioni di cui sbarazzarsi, quando sopravviene la noia, in un altro.

E così il destino dei disabili rimane in balia delle alterne convinzioni umane, sempre disposte, comunque, a marginalizzare l’altro, quando questi esibisce forme fisiche o mentali distinte da quelle dei più.

Per un approfondito esame del ruolo delle superstizioni nella vita quotidiana, rimando ovviamente al mio Aloni, stregoni e superstizioni.

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Montaigne e gli animali di ieri e di oggi

I Turchi hanno offerte e ospedali per le bestie. I Romani avevano a spese pubbliche l’allevamento delle oche, per la vigilanza delle quali il loro Campidoglio era stato salvato; gli Ateniesi ordinarono che le mule e i muli che erano stati adoperati per la costruzione del tempio nominato Hecatompedon fossero liberi, e che fossero lasciati pascolare ovunque senza divieto.

Gli Agrigentini avevano come usanza pubblica di seppellire con un rito le bestie che avevano avute care, come i cavalli di qualche raro merito, i cani e gli uccelli utili, oppure che avevano servito di passatempo ai loro figli. E la magnificenza che era loro solita in tutte le altre cose, si manifestava anche singolarmente nella sontuosità e nel numero dei monumenti innalzati a tal fine, i quali hanno durato come ornamento parecchi secoli dopo.

Gli Egiziani seppellivano i lupi, gli orsi, i coccodrilli, i cani e i gatti in luoghi sacri, imbalsamavano i loro corpi e portavano il lutto alla loro morte.

Cimone diede onorevole sepoltura alle giumente con cui aveva guadagnato per tre volte il premio della corsa nei giochi Olimpici. Il vecchio Santippo fece seppellire il suo cane su un promontorio, sulla costa del mare che poi ne ha conservato il nome. E Plutarco, dice egli, si faceva scrupolo di vendere e mandare al macello per lieve guadagno un bue che l’aveva servito molto tempo (“Della crudeltà” in Montaigne, M. de, 1986, Saggi, vol. 2, Mondadori, Milano, p. 115).

Così il filosofo Michel de Montaigne, nel saggio Della crudeltà, ricordava l’amore degli antichi per gli animali, esaltati e celebrati più di molti umani, non dissimilmente da come accade anche oggi, epoca in cui gli animali sono oggetto di una antropomorfizzazione spinta che ci conduce a proiettare su di essi tutto ciò che di umano possiamo immaginare, spesso in maniera talmente eccessiva da apparire caricaturale.

Così, non è difficile imbattersi nella donna di mezza età che invita il proprio cane a salire “da nonno”, nemmeno fosse un figlio umano. O l’uomo talmente invaghito del proprio chihuahua da chiedergli in maniera invereconda: “Sono o non solo il tuo amore?”.

C’è però una differenza tra l’amore per gli animali dei contemporanei e quello degli antichi citati da Montaigne. Questi ultimi esaltavano le loro creature solo in determinate circostanze, Quando, ad esempio, riconoscevano (proiettivamente) loro meriti o utilità particolari, li associavano (superstiziosamente) a imprese, fatti, luoghi determinati, vi attribuivano significati sacri in coerenza con la loro religione.

Oggi, l’amore per gli animali si è “democratizzato” e prescinde totalmente da meriti, utilità, sacralità. Si adora il pet in quanto tale in virtù di una ideologia diffusa, superstiziosamente votata alla loro trasformazione in surrogati degli umani. Forse perché stabilire relazioni con i propri simili è eccessivamente oneroso.

E allora meglio chiedere amore incondizionato al proprio pesciolino rosso piuttosto che a un uomo o una donna. Meglio proiettare sul quadrupede i propri desideri che dialogare con il bipede che potrebbe smentirli o negarli. Meglio costruire un universo creaturale a nostra immagine che confrontarci con chi non scodinzola a ogni nostra parola.  

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“Mangia tutto che i bambini muoiono di fame in Africa”

Ognuno di noi è stato ammonito in questo modo durante l’infanzia. Non gradivamo quella roba verde che si chiama verdura? Odiavamo legumi, pesce e frutta? La frittata della zia proprio non ci andava giù? “Mangia che i bambini muoiono di fame in Africa (o in qualche altro luogo abbastanza remoto da suscitare riverenza, angoscia e sospensione del dubbio)”. Qualcuno di noi è cresciuto con l’incubo dei bambini poveri afflitti da inedia perenne. Tutti quei nostri coetanei sparsi nel mondo in attesa che mandassimo giù quel boccone indesiderato! Una conferma, se volete, dell’idea infantile che il mondo gira intorno a noi: basta compiere un gesto ed esso avrà ripercussioni su tutto il pianeta. Così, se sorrideremo sempre, mamma e papà non divorzieranno. Se saremo generosi con l’amichetto e gli doneremo il nostro orsetto preferito, quello crescerà sano e generoso a sua volta e l’umanità intera ci ringrazierà. Se accetteremo il regalo rivoltante della vecchia nonna sdentata, questa vivrà fino a cento anni.

Il problema è che questa celebre strategia retorica adoperata dai genitori per invogliare i figli piccoli a mangiare – ormai divenuta un luogo comune dell’arsenale verbale degli adulti disperati – è sbagliata da almeno tre punti di vista.

Innanzitutto, è sbagliata dal punto di vista pedagogico, in quanto induce un senso di colpa per una situazione – la fame nel mondo, ma anche le scelte iperconsumistiche delle società dell’abbondanza che si trovano in Occidente – di cui il bambino/la bambina non è affatto responsabile. Non è ingoiando quel boccone rivoltante che i bambini del continente nero – come veniva chiamata l’Africa con un termine politicamente scorretto – risolveranno improvvisamente il problema dei propri bisogni primari.

I genitori sanno che la loro argomentazione fa acqua da tutte le parti, ma si aggrappano al valore patetico, emotivo, sconvolgente della formula. Cosa sbagliatissima pedagogicamente perché i bambini che rispondono positivamente a questi appelli imparano a cedere alle retoriche emotive più che alla voce della ragione. E si sa che demagoghi e populisti amano rivolgersi ai loro proseliti usando argomentazioni che fanno leva sul pathos: “Votate per me e nessun migrante stuprerà più le vostre donne o ruberà i vostri posti di lavoro!”. Come se violenza sulle donne e disoccupazione dipendessero dalle migrazioni planetarie.

Un altro errore consiste nel fatto che chi usa spesso questa formula motiva il bambino/la bambina con “ricompense” estrinseche piuttosto che intrinseche. Invocare regolarmente i bambini che muoiono nel mondo piuttosto che le proprietà degli alimenti che si mangiano fa sì che il bambino/la bambina si abitui ad agire in base a motivazioni estrinseche (studiare per fare piacere a mamma e papà; lavorare solo per lo stipendio a fine mese ecc.) e agire in base a motivazioni estrinseche vuol dire non diventare mai pienamente adulto. È vero che i bambini piccoli sono più motivati estrinsecamente che intrinsecamente, ma l’uso sistematico di questo tipo di leve motivazionali, anche in età successive, può avere conseguenze evolutive non auspicabili.

L’ammonimento “Mangia tutto quello che hai nel piatto…” è sbagliato anche dal punto di vista logico. L’errore logico si chiama “errore della conclusione sbagliata” e si può riassumere nella formula: l’azione non porta alla soluzione del problema. Come accennato in precedenza, mangiare tutto quello che si ha nel piatto non risolve il problema della fame in Africa. Detto altrimenti: per quale motivo se il bambino/la bambina non mangia, i bambini africani dovrebbero morire? Un bambino/una bambina sveglio/sveglia potrebbe perfino ribattere con un “Ma se ad avere fame sono i bambini africani, perché non inviti a pranzo loro?” oppure far notare che anche il contrario potrebbe essere vero: “Mandiamo quello che dovrei mangiare in Africa dove tanti bambini muoiono di fame”. Ma anche questa soluzione non risolverebbe ovviamente il problema della fame in Africa.

Da un punto di visto logico, questo errore presenta molte affinità con la cosiddetta Ignoratio elenchi o fallacia della conclusione irrilevante, un tipo di fallacia che consiste nel presentare un argomento a sostegno di una tesi completamente fuori traccia. Si tratta di una fallacia molto diffusa, ampiamente utilizzata da pubblicitari, politici, persuasori in genere. In ambito religioso, ad esempio, un cristiano convinto di dimostrare che gli insegnamenti della sua religione sono veri, può rimarcarne gli effetti benefici su molte persone, creando un’atmosfera positiva a sostegno della sua argomentazione. Naturalmente, il fatto che la religione cristiana sia di conforto e sollievo per molti non dimostra che sia logicamente vera. Eppure, questa strategia risulta efficace in molte situazioni.

“Mangia tutto quello che hai nel piatto che i bambini muoiono di fame in Africa” è un disastro pedagogico, un cortocircuito logico, una meschina strategia retorica. In altre parole, un luogo comune da evitare assolutamente.  

Riferimenti:

Heinrichs, J., 2023, Mi hai convinto. Come Aristotele, Homer  Simpson e Barack Obama possono insegnarti ad avere (sempre) ragione, Mondadori, Milano, pp. 223-224.

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Le parole pronunciate male nel tennis

Ci sono alcune parole inglesi, ormai entrate in pianta stabile  nel nostro lessico sportivo, la cui pronuncia sbagliamo sistematicamente. Il perché è presto detto. Nonostante anni e anni di insegnamento scolastico, i nostri errori fonetici scaturiscono dal fatto che questi termini sono pronunciati SEMPRE in maniera errata da giornalisti, commentatori, opinionisti ed esperti televisivi.

Detto altrimenti, a furia di sentirli pronunciare in maniera sbagliata da personaggi autorevoli e simpatici, la cui presenza nelle nostre vite è praticamente quotidiana, tendiamo a pensare che la pronuncia corretta di questi termini debba essere quella che sentiamo ogni giorno in televisione, salvo poi ricrederci amaramente quando andiamo all’estero o parliamo con un madre lingua. 

Pensiamo a Wimbledon. La pronuncia corretta è “wimbəldən”, ma noi italiani tendiamo a “leggerla come si scrive”.

Oppure, pensiamo a tie-break o a break-point. In entrambi i casi, break andrebbe pronunciato “breik”, ma noi italiani preferiamo “brek”, come ci “insegnano” ore e ore di cronache televisive. Nel primo caso, poi, curiosamente, pronunciamo correttamente la prima parte della parola (“tai”) e male la seconda. Misteri del mondo degli errori!

Un’ultima considerazione sul termine assist, non propriamente tennistico, ma molto diffuso nel calcio. Da noi è inevitabile e irresistibile collocare l’accento sulla prima vocale, mentre andrebbe collocato sulla seconda: “ə’sist”. Ma provate a pronunciarlo correttamente davanti ad altri italiani! La prima reazione sarà di perplessità, seguita da un atteggiamento di blanda riprovazione o di ridicolo.

Una volta che un errore di pronuncia diventa abituale e consacrato dal tempo, è difficile considerarlo tale e chi cerca di correggerlo appare pretenzioso e fatuo. Il problema però è che quando viaggiamo all’estero, le bruttissime figure non si contano, alimentando l’idea che l’inglese, gli italiani, proprio non lo conoscono

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Il Libro bianco sulle droghe

Il Libro Bianco sulle droghe è un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti (DPR 309/90) sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società. È promosso da varie importanti associazioni e organizzazioni, tra cui Antigone, CGIL, CNCA, Gruppo Abele, Associazione Luca Coscioni, ARCI e altre ancora.

Ogni anno viene presentato il 26 giugno, giornata mondiale delle droghe, e quest’anno è giunto alla tredicesima edizione. Fatto curioso: il testo viene pubblicato da Youcanprint, una piattaforma di self-publishing a dimostrazione del fatto che, in Italia, certi temi scomodi non vengono accolti dalle case editrici mainstream.

I risultati del rapporto sono spesso sorprendenti e ho l’impressione che raramente trovino ascolto presso le istituzioni:

1) Senza detenuti per spaccio o dichiarati tossicodipendenti non si avrebbero problemi di affollamento nelle carceri. Come recita il Libro: «Sui 56.196 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2022 ben 12.147 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (spaccio). Altri 6.126 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 1.010 esclusivamente per l’art. 74. Si tratta del 34,3% del totale. Sostanzialmente il doppio delle media europea (18%) e molto di più di quella mondiale (22%)».

2) Il 30% dei detenuti entra in carcere per detenzione o piccolo spaccio. Non è vero quindi che “gli spacciatori non vanno in carcere”: sono invece il 28,3% degli ingressi totali, molti dei quali vi restano.

3) Vi è un numero record di detenuti che usano sostanze: più del 28% sono definiti “tossicodipendenti”.

4) Ciò porta a un intasamento della giustizia con oltre 230.000 fascicoli che ingolfano il lavoro dei tribunali

5) Le misure alternative, continuano a crescere, ma questa non è necessariamente una buona notizia. Come afferma il Libro: «Continua l’impetuosa crescita delle misure alternative, interrottasi solo nel 2020, quando si registrò un lieve calo. Dal 31 dicembre 2006 al 31 dicembre 2022 si è passati da 3.592 a 35.799 sottoposti a misura alternativa (+896,6%). Siamo abituati a vedere di buon occhio le misure alternative, che tra le altre cose hanno dimostrato una maggiore efficacia nell’abbattimento della recidiva rispetto alla detenzione. Tuttavia, l’aumento delle misure alternative non è andato di pari passo con la diminuzione della popolazione carceraria. Cosa significa? Che, come previsto da Stanley Cohen nel 1979, in un contesto di forte domanda di controllo sociale istituzionale gli strumenti di diversion e quelli di probation rischiano di ampliare l’area del controllo piuttosto che limitare quello coattivo-penitenziario». In altre parole, «le misure alternative alla detenzione possono diventare (e, nel nostro caso, potrebbero essere già diventate) misure alternative alla libertà».

6) Infine, si conferma l’incidenza molto marginale delle violazioni dell’art. 187 del Codice della Strada, ovvero guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti. Dai dati disponibili, per quanto disomogenei (Polizia Stradale), si nota un sostanziale dimezzamento negli ultimi 10 anni delle violazioni dell’art. 187. Le violazioni accertate dalla Polizia Stradale a seguito di incidente rimangono a livelli molto bassi: 1,18% nel 2021 e salgono all’1,44% negli incidenti con lesioni.

A dispetto della retorica delle politiche repressive sulle droghe, queste producono sovraffollamento carcerario, forte controllo sociale istituzionale, intasamento della giustizia e miti come quello dei frequenti incidenti stradali per guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

E naturalmente non risolvono il problema della droga, anzi lo amplificano.

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Erving Goffman e gli adattamenti dei dipendenti pubblici

In uno dei lavori più celebri della sociologia contemporanea, Asylum (1961), Erving Goffman, esamina le cosiddette istituzioni totali. Per il sociologo canadese, «un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato» (Goffman, 1968, p. 29). Oggetto privilegiato di analisi di Goffman sono soprattutto carceri e ospedali psichiatrici, ma, a mio avviso le sue riflessioni possono estendersi a realtà apparentemente insospettabili come le amministrazioni pubbliche. Anche l’amministrazione pubblica, infatti, può configurarsi come un luogo, se non di residenza, almeno di lavoro, di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un numero prestabilito di ore giornaliere e per molti anni – si trovano a condividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime parzialmente chiuso e formalmente amministrato.

Un’amministrazione pubblica non può evidentemente essere equiparata, da molti punti di vista, a un carcere o a un ospedale psichiatrico, ma il fatto che in essa si trovino riuniti gruppi di persone che, per anni e anni, condividono i medesimi luoghi, conoscenze, pratiche, forme organizzative, gerarchie ecc. per buona parte delle loro waking hours favorisce l’azione di meccanismi di adattamento che ricordano quelli in uso presso prigioni e ospedali psichiatrici.

A tal riguardo, Goffman conia i concetti di “adattamento primario” e “adattamento secondario”.

Quando un individuo contribuisce cooperativamente ad un’attività richiesta da una organizzazione, in determinate condizioni – con l’appoggio, nella nostra società, di modelli di assistenza istituzionalizzati, lo stimolo di incentivi e valori comuni, la minaccia di penalità designate – ne diventa un collaboratore; ne diventa cioè il membro «normale» «programmato» o «determinato». Dà e prende in modo appropriato ciò che è stato sistematicamente progettato, sia che la cosa comporti, da parte sua, un coinvolgimento notevole o minimo. In breve, gli viene ufficialmente richiesto di essere né più né meno di ciò che è preparato ad essere, ed è obbligato a vivere in un mondo che gli è, di fatto, congeniale. In questo caso dirò che l’individuo ha un adattamento primario all’organizzazione, tralasciando il fatto che sarebbe altrettanto ragionevole parlare dell’adattamento primario che l’organizzazione assume nei suoi confronti.

Ho usato questo termine impreciso per ottenerne un altro, quello cioè degli adattamenti secondari, che definisco come adattamenti abituali, per mezzo dei quali un membro di un’organizzazione usa mezzi od ottiene fini non autorizzati, oppure usa ed ottiene entrambi, sfuggendo a ciò che l’organizzazione presume dovrebbe fare ed ottenere, quindi a ciò che dovrebbe essere. Gli adattamenti secondari rappresentano il modo in cui l’individuo riesce ad evitare il ruolo e il sé che l’istituzione ha presi per garantiti per lui (Goffman, 1968, p. 212).

Tra gli esempi di adattamenti secondari, Goffman cita:

La prima cosa da notare è la prevalenza di usi individuali ricavati da oggetti disponibili. In ogni istituzione sociale coloro che vi fanno parte usano gli oggetti accessibili in un modo e per un fine non ufficialmente previsto, modificando così le condizioni di vita programmate per loro. In ciò può essere compresa la ricostruzione fisica dell’oggetto o semplicemente un modo illegittimo di usarlo: in entrambi i casi si tratta di esempi casalinghi del tema di  Robinson Crusoe. I casi più ovvi ci provengono dalle carceri dove, per esempio, si ricava un coltello da un cucchiaio, inchiostro per disegno dalle pagine di un giornale illustrato, i quaderni sono usati per scrivere le scommesse e le sigarette vengono accese in tutti i modi – provocando un cortocircuito, con un accendino fatto in casa, un fiammifero tagliato in quattro (Goffman, 1968, p. 230).

In taluni casi, gli adattamenti secondari consentono di ricavare piccoli e grandi vantaggi personali, attività che Goffman definisce “lavorarsi il sistema”:

Considero ora una serie di pratiche che implicano una maggior partecipazione al mondo legale dell’istituzione. Il significato dell’attività legittima può essere conservato, ma può arrivare ad oltrepassare la meta prefissa; si assiste ad una sorta di ampliamento o elaborazione delle fonti di soddisfazioni illegittime, o alla utilizzazione, a fini personali, di interi cicli di attività ufficiali. In questo caso parlerò di «lavorarsi» il sistema (Goffman, 1968, p. 232).

Anche i dipendenti pubblici ricorrono a tutta una serie di adattamenti secondari per prendere le distanze dal proprio ruolo, vissuto spesso come noioso e poco gratificante.

Esempi di adattamenti secondari dei dipendenti pubblici sono: ridurre il proprio rendimento per “non stressarsi”; gironzolare per gli uffici con un foglio in mano per dare l’impressione di essere impegnati a fare qualcosa; entrare nella stanza del collega per iniziare una conversazione privata con la scusa di parlare di lavoro; leggere il giornale in ufficio; approfittare di un servizio esterno concesso per eseguire un compito lavorativo al fine di svolgere affari privati; compiere lavori extra per arrotondare; giocare al solitario in ufficio; spettegolare e lamentarsi dei colleghi o dei superiori.

A proposito di quest’ultima pratica, è noto in sociologia che il pettegolezzo ha la funzione di preservare, confermare e convalidare i valori collettivi della comunità, consolidare i legami normativi e la coesione di gruppo; mantenere l’unità e l’equilibrio del gruppo sociale e facilitare l’emersione di criticità e problemi che affliggono gli individui; indicare appartenenze di gruppo (chi ne fa parte “veramente”) e disseminare informazioni, anche riservate, sulle personalità dei suoi membri e sulle sue dinamiche interazionali.  Il dipendente pubblico, dunque, nel mentre prende le distanze dal proprio ruolo spettegolando, ravviva e conferma i rapporti sociali nei quali è coinvolto nel proprio luogo di lavoro. Una funzione – questa del pettegolezzo – spesso trascurata a favore della sua netta condanna morale.

Anche il dipendente pubblico sa come “lavorarsi il sistema”. Tra i modi più comuni troviamo: usare il telefono, il computer, la stampante, lo scanner e altri strumenti per fini personali; sottrarre articoli di cancelleria per destinarli a uso privato; vendere servizi o merci private ai colleghi (alimenti prodotti in proprio, articoli di artigianato; organizzazione di eventi in locali intestati al coniuge); andare a prendere il caffè senza timbrare l’uscita; timbrare e uscire a fare la spesa.

Tutte queste condotte, abitualmente vituperate e che suscitano scandalo quando sono rese pubbliche, segnalano la necessità per il dipendente pubblico di non essere totalmente asservito a un ruolo percepito come umiliante e spersonalizzante: una sorta di meccanismo di difesa per allontanare dalla propria mente il peso considerevole di mansioni ripetitive e istupidenti che pure l’amministrazione dà per scontate.

Fonte: Goffman, E., 1968, Asylums, Einaudi, Torino.

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La stregoneria nel mondo

Chi crede nella stregoneria? Quali sono le sue caratteristiche? A quali variabili psicologiche, sociali, economiche, demografiche, geografiche è associata la credenza nel malocchio, nelle fatture, negli incantesimi?

A queste domande tenta di rispondere Witchcraft beliefs around the world: An exploratory analysis di Boris Gershman, uno studio che prende in considerazione un dataset globale composto da dati provenienti da ben sei ricerche condotte dal Pew Research Center tra il 2008 e il 2017 in 95 nazioni di tutto il mondo per un totale di 140.000 intervistati. La metodologia adottata è quella dell’intervista faccia a faccia, tranne che nei paesi dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, dove si è fatto ricorso a interviste telefoniche.

La ricerca non è esente da critiche. Paesi come Cina, India e Canada non sono rappresentati. Inoltre, appare problematico inserire nello stesso calderone statistico risposte provenienti da ambienti estremamente diversi riguardo a cultura, società e benessere materiale, per quanto standardizzate siano le domande. Le interviste faccia a faccia possono, infine, elicitare risposte diverse da quelle condotte telefonicamente. Insomma, limiti metodologici e di rappresentatività esistono e come. Alcune conclusioni appaiono comunque stimolanti.

Ad esempio, a livello individuale, la credenza nella stregoneria appare negativamente associata all’età, al livello di istruzione e al benessere materiale, mentre appare positivamente associata alla fede in Dio e alla religiosità. Ciò vuol dire che più si è istruiti e ricchi e meno si crede alle streghe; più si è religiosi, più si è inclini a ritenere vera la stregoneria.

I risultati più interessanti sono però di tipo sociologico. Le credenze nella stregoneria sono più diffuse nei paesi dove le istituzioni sono deboli e la capacità di governo è scarsa. Inoltre, i “credenti” esprimono un maggiore conformismo culturale, un maggiore pregiudizio favorevole al gruppo di appartenenza e sfavorevole ai gruppi diversi dal proprio (immigrati, diversi ecc.) rispetto a chi non crede. Ancora, evidenziano una erosione del capitale sociale, che si manifesta in bassi livelli di fiducia nei confronti della polizia, del sistema giudiziario e del governo e in vari atteggiamenti e comportamenti antisociali. Chi crede nella stregoneria è meno soddisfatto della sua vita, crede di non avere controllo su di essa e tende al fatalismo.

Un dato, a mio avviso, particolarmente affascinante è la correlazione esistente tra credenza nella stregoneria e controllo sociale: chi crede in incantatrici e negromanti è più conformista di chi non vi crede in quanto teme di essere punito con accuse di stregoneria o con fatture e incantesimi se infrange le regole sociali. Del resto, ancora oggi, nel mondo occidentale, la paura di “finire all’inferno” può agire, in qualche caso, come deterrente di azioni trasgressive. Religione e stregoneria possono, dunque, essere adoperati come strumenti di coesione sociale.  

La stregoneria può anche fornire un senso alla propria vita e “spiegare” perché accadono certe cose e non altre. Il “credente” insoddisfatto della propria esistenza può sempre giustificare tale insoddisfazione affermando che potenze malefiche e incontrollabili cospirano contro di lui. In questo modo, può attribuire ad altri frustrazioni e fallimenti e rassicurarsi sulla propria fondamentale bontà e capacità. Se “loro” ce l’hanno con te, non puoi farci nulla…

Come è evidente, le credenze irrazionali prosperano ancora nel nostro mondo iperrazionale e ipertecnologico. Anzi, proprio l’ipertecnologia tracima nella magia: il fatto di vedere qualcosa accadere semplicemente schiacciando un tasto non è come evocare un intervento soprannaturale agitando una bacchetta? La verità è che viviamo in un mondo magico e superstizioso per eccesso di razionalità. Il nostro ambiente è talmente dominato da algoritmi e virtualità che non ci rendiamo conto di quanto essi abbiano ormai imbevuto di stregoneria le nostre esistenze. Oggi, la magia è cosa concreta e c’illude di poter fare qualsiasi cosa semplicemente strisciando una superficie. È ingenuo credere che magia e superstizione siano destinati a lasciarci: essi sono già tutt’uno con la razionalità e la tecnologia.

Di questi argomenti, parlo nel mio Aloni, stregoni e superstizioni.

Fonte: Gershman B (2022) Witchcraft beliefs around the world: An exploratory analysis. PLoS ONE 17(11).

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Gli animali che umani non sono

Lo dico chiaramente: non sono un fan della ministra per le pari opportunità e la Famiglia Eugenia Roccella. Non condivido le sue posizioni sugli omosessuali, sugli immigrati, sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, su aborto, fine vita e fecondazione assistita.

Tuttavia, le sue recenti esternazioni su uomini e donne che chiamano i loro cani con nomi “umani”, al di là delle conclusioni sulla necessità di una “rivolta a difesa dell’umano” e sui rischi corsi oggi dalla “famiglia tradizionale”, colgono uno dei fenomeni sociali più rilevanti degli ultimi anni: l’antropomorfizzazione spinta degli animali, soprattutto “di compagnia”, e la loro funzione di surroga rispetto a relazioni affettive e umane precarie.

È evidente a tutti che oggi gli animali colmino vuoti esistenziali e psicologici. Essi sostituiscono i figli quando questi vanno via dalla famiglia o non arrivano mai (e se pure ci sono, diventano “fratellini” da accudire e vezzeggiare). Soddisfano il nostro desiderio di compiere buone azioni, di reciprocità, dialogo e complementarità. In un’epoca in cui la fiducia nei nostri simili umani sembra venir meno, gli animali rappresentano surrogati più comodi e facili da gestire.

Sono letteralmente i migliori amici dell’uomo, se non altro perché a tutti piace avere un amico che non ti contraddice mai e fa tutto quello che vuoi senza protestare. Molti cercano (anche) relazioni di altro genere, che soddisfino esigenze non colmate dai rapporti umani, come una relazione di accudimento quando non c’è un cucciolo umano, oppure un affetto incondizionato, inattaccabile, senza giudizio né rischi di abbandono, delusione o tradimento.

Non sorprende, dunque, che gli umani siano disposti a erigere monumenti funebri per i loro amici a varie zampe e a lasciare loro in eredità i propri beni. Oggi gli animali sono caricati di funzioni affettive, sociali e psicologiche e oggetto di processi di “umanizzazione” e di “parentizzazione” come non mai nella storia.

Alla umanizzazione degli animali contribuisce indubbiamente anche quella che potremmo chiamare la disneyzzazione del mondo, ossia la trasformazione mediatica del mondo in luogo in cui “cartoni animali” parlano, pensano, sentono, agiscono come e meglio degli umani; in cui personaggi come Dumbo hanno occhioni commoventi ed espressioni strappalacrime e dove elefanti, bradipi, ciuchini e leoni animati interpretano tipi umani noti come il “saggio”, il “burbero”, il “coraggioso”, il “sapiente”, lo “scemo”. Non è improbabile che la Disney, più di tante posizioni filosofiche e culturali in difesa degli animali, abbia instillato nella mente dei contemporanei l’idea, fino a qualche decennio fa ritenuta inaudita e assurda, che le “bestie” abbiano un’anima.

Oggi viviamo nell’epoca dell’animalismo e dell’antispecismo, un’epoca mai esistita prima nella storia dell’umanità, che ha riconosciuto agli animali diritti prima nemmeno concepibili. Si può parlare al riguardo di una vera e propria rivoluzione culturale, che ha scalzato l’antropocentrismo che caratterizza da secoli il rapporto uomo-animale e ha portato a un cambiamento radicale nel modo di vedere e agire nei confronti degli animali. Fino a tempi recenti, la posizione privilegiata dell’uomo in cima alla gerarchia degli esseri viventi non era nemmeno contestabile. Oggi, gli animali sono soggetti a pieno titolo della discussione pubblica e politica, ispirano filosofie, movimenti, giurisprudenza, criminologie (le cosiddette zoomafie); orientano il mercato, la religione, la società.

Appare evidente, però, come questa nuova posizione privilegiata sia soprattutto funzione di un potente meccanismo di proiezione psicologica che ci porta a riversare sugli animali sentimenti, frustrazioni, aspirazioni, modi di sentire e di vedere “umani” e a pretendere da essi reazioni “umane” prevedibili, conformi ai nostri desiderata.

Così, non è difficile sentire la proprietaria di un cane che si accomiata dai suoi amici invitare il suo pet a “fare ciao con la manina” o un altro proprietario invitare il suo barboncino a suggerirgli che cosa fare con la sua riottosa amata.

Cani e altri pets diventano sempre più sponde dei nostri pensieri, specchi in cui amiamo rifletterci, compagni eterni che non ci deluderanno mai. Sono l’estensione dei nostri ego, l’addendum delle nostre personalità, il link a parti di noi stessi che altrimenti trascureremmo.

Il problema è che tutto questo è “umano, troppo umano”. Una forma di superstizione proiettiva di cui in tanti siamo vittime e che ci rende irrazionali come poche cose al mondo. Parlare con gli animali è oggi divenuto normale, come un tempo era normale parlare con dei, spiriti e altri esseri soprannaturali.

Insomma, gli animali come surroghe di dimensioni perse o abiurate. Non ce ne accorgiamo, ma cerchiamo l’umano in chi umano non è e disdegniamo l’umano di chi umano è.

Per altre superstizioni moderne, rimando al mio Aloni, stregoni e superstizioni da cui ho tratto alcune delle parole di questo post.

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