Il sistema delle mance negli Stati Uniti

Ti dicono che negli Stati Uniti lo fanno tutti e, quindi, devi farlo anche tu. Ti dicono che non è obbligatorio, ma che, se non lo fai, incorrerai in una serie di sanzioni informali che oscillano dallo sguardo truce a un inseguimento in piena regola. Ti dicono che è un fatto culturale e la cultura, come sempre conta.

Parlo del tipping system, il sistema della mance, quello per cui, in corrispondenza di determinati tipi di servizi, di regola quelli offerti da camerieri, baristi, tassisti, fattorini d’albergo ecc., è “costume” lasciare sempre una mancia, che deve corrispondere a un 15-20% del costo del servizio in riconoscimento della buona qualità dello stesso. Le percentuali cambiano in ragione del tipo di servizio offerto e di chi lo offre, per cui è necessario informarsi in anticipo su come funzioni il sistema prima di richiedere una prestazione.

L’esempio classico è il servizio offerto dal cameriere in un ristorante. Provate a non dargli/darle un centesimo di mancia. Vedrete immediatamente la sua reazione, che può arrivare, come testimoniato da molti turisti europei, a un vero e proprio inseguimento all’esterno del ristorante con tanto di domanda in attesa di urgente risposta: “Why didn’t you tip me? Did I do something wrong?”. La cultura della mancia è talmente pervasiva che chi rifiuta di conformarvisi sarà indotto a provare un fortissimo senso di colpa con relativa sensazione di umiliazione. Non è obbligatorio per legge. Ma se non lo fai…

Ti spiegano che, negli Stati Uniti, lavoratori come camerieri e baristi ricevono solo il salario minimo (minimum wage) e che hanno necessità di integrarlo con le mance dei clienti per sopravvivere. Senza mance, il loro lavoro non avrebbe senso né sostanza. Sarebbero ridotti alla fame. Non è insolito, anzi è praticamente la norma, che la somma delle mance ricevute superi il salario che si percepisce. Si scopre addirittura che le mance sono una “componente” del salario minimo. Ciò significa che il datore di lavoro paga un salario inferiore al minimum wage, sapendo che esso sarà integrato dalle mance. Ma come è possibile che un lavoratore accetti una situazione del genere? Come è possibile che gli americani non si ribellino a un sistema così ipocrita?

Non c’è bisogno di essere marxisti per capire che il tipping system è il modo ingiusto attraverso cui i datori di lavoro americani scaricano sul cliente parte della retribuzione del lavoratore, inducendo nel cliente stesso colpa e vergogna in caso di insolvenza; colpa e vergogna che, invece, dovrebbero ricadere sul datore di lavoro, la cui coscienza è assolta dalla culturalizzazione del tipping system, vale a dire dal fatto che ormai la cultura della mancia, così come diffusa oggi, è stata completamente interiorizzata  dall’americano medio, il quale non ne percepisce più l’ingiustizia di fondo.

La vera vergogna è che tutti accettano questo sistema, dandolo per scontato. E che sia un sistema vergognoso, lo attesta la storia. Come riferisce Kerry Segrave, in Tipping: An American Social History of Gratitudes, dopo la Guerra civile e la fine della schiavitù, gli schiavi liberati si ritrovarono a svolgere lavori particolarmente umili, come servitori, camerieri, barbieri; gli unici lavori concretamente disponibili. Per camerieri e facchini, tuttavia, il problema fu che molti datori di lavoro rifiutarono di pagarli con il pretesto che la loro paga sarebbe stata sostituita dalle mance dei clienti e dei viaggiatori. In altre parole, una continuazione della schiavitù sotto mentite spoglie. Ed è questo il sistema ereditato dagli americani di oggi: una forma di sfruttamento sotto false apparenze culturali.

Rifiutarsi di conformarsi al tipping system non è, dunque, un attentato all’etichetta, una differenza culturale, una distrazione del turista. Né la mancia è un modo per ottenere un più sollecito servizio (secondo una storia apocrifa, tip sarebbe l’acronimo di “To Insure Promptness”, “Per garantirsi un servizio rapido”). Non accettare il sistema delle mance negli stati uniti significa opporsi a un sistema che rovescia sul cliente doveri e colpe che dovrebbero ricadere sul datore di lavoro. Il tipping system è la glorificazione patinata di cultura di uno dei più subdoli e viscidi sistemi di sfruttamento del lavoro oggi esistente. Un sistema che non è altro che un retaggio della schiavitù e un modo per perpetuare una istituzione che dovrebbe essere da tempo scomparsa. Anche culturalmente.

 

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Gli equivoci della Sindrome dell’accento straniero

Alcune patologie esercitano sull’osservatore esterno un fascino almeno pari all’imbarazzo che esse suscitano in chi ne è affetto. Ne è un esempio la Sindrome dell’accento straniero o FAS (Foreign Accent Syndrome), una condizione alquanto rara – dal 1907, anno del suo battesimo, ad oggi, si contano appena 200 casi circa – che induce chi ne soffre a parlare la sua lingua con un accento percepito come straniero.

Il padre putativo di questa strana patologia è il francese Pierre Marie, autore, nel 1907, di un articolo intitolato “Présentation de malades atteints d’anarthrie par lésion de l’hémisphère gauche du cerveau” (Bull. Mem. Soc. Med. Hop. Paris 1, 158–160). Chi è colpito dalla FAS, di solito a seguito di un ictus, un problema neurologico o un tumore, presenta difficoltà di pronuncia delle parole di cui è ben consapevole e che al non esperto sembrano ricalcare un accento straniero.

Si cita così il caso del parigino che, dopo un ictus, cominciò a parlare con un accento strasburghese; di un abruzzese che, dopo un infarto cerebrale, prese a parlare con un accento tedesco; dell’americano che, in seguito al trattamento per un tumore, sviluppò un accento irlandese.

Nella maggior parte dei casi, il nuovo accento rappresenta solo una variante geografica della lingua già parlata dal soggetto (ad esempio, una variante dell’inglese o dell’americano). Raramente, si tratta dell’accento di una lingua mai parlata o sconosciuta. Ma è a proposito di quest’ultimo caso che si è creata una sorta di mitologia sulla Foreign Accent Syndrome.

In molte versioni pop di questa condizione, si dà a intendere che la persona riesca improvvisamente a parlare perfettamente con un accento straniero, se non addirittura a esprimersi in una lingua mai parlata in precedenza. Secondo queste interpretazioni, la FAS presenterebbe, dunque, sovrapposizioni con la xenoglossia, quasi che il soggetto entrasse in una sorta di trance neurale che consente di produrre parole in una o più lingue a lui sconosciute in condizioni normali.

In realtà, non accade niente del genere. È l’osservatore esterno, spesso a digiuno di conoscenze relative ad altre lingue, ad interpretare un accento spostato come un accento straniero o ad attribuire al soggetto FAS competenze linguistiche che non possiede. Da un punto di vista clinico, non si conosce un solo paziente che abbia migliorato le proprie conoscenze linguistiche dopo una lesione al cervello. Chi è affetto da FAS non parla improvvisamente e magicamente con un impeccabile accento straniero; spesso si limita a spostare gli accenti delle parole generando nell’interlocutore una sensazione di straniamento che a sua volta favorisce un disguido linguistico.

Le produzioni linguistiche dei soggetti affetti da Sindrome dell’accento straniero sono, quindi, l’esito di un equivoco non dissimile da quello che coinvolge chi viene preso per straniero solo perché parla la sua lingua con accento diverso da quello del suo interlocutore. In altri casi, l’ignoranza dell’interlocutore induce ad attribuzioni errate ancora più clamorose. È noto a tutti, ad esempio, che chi non parla nessuna lingua straniera può confondere una lingua con un’altra o un accento con un altro, generando ulteriori equivoci da cui possono scaturire conseguenze comiche o deleterie. Oppure, può ritenere che chi è in grado di mettere insieme poche parole di una lingua straniera abbia una buona, o addirittura ottima, conoscenza di quella lingua.

Di equivoci del genere è zeppa la vita quotidiana. Ciò su cui spesso non riflettiamo è che le nostre incompetenze linguistiche possono favorire anche interpretazioni scorrette di patologie, come mostra l’esempio “affascinante” della Sindrome dell’accento straniero.

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Come si pronuncia mass media?

Lo dico subito. Dissento dalla Treccani. Totalmente. E anche da tutti coloro che concordano con la Treccani, come Corrado Augias.

La Treccani dice:

La pronuncia corretta del sostantivo media (o mass media), con il quale si indicano i mezzi di informazione (giornali, televisione, internet), è mèdia, perché la parola deriva dal latino mèdia (plurale di medium ‘mezzo’). Sconsigliabile, anche se molto frequente, è la pronuncia mìdia, derivata da quella inglese.

Non sono d’accordo. È vero che la parola media deriva in ultima analisi dal latino, ma la Treccani sembra dimenticare che medium è un termine esistente nella lingua inglese con il significato di “mezzo”, “strumento”, “veicolo”, “tramite”. Anzi, è proprio in questa lingua che assume il significato tutto moderno di “mezzo di comunicazione” che, associato a mass, “massa”, altra parola inglese, anche se simile al termine italiano “massa”, rende la seguente definizione: “the means of communication that reach large numbers of people in a short time, such as television, newspapers, magazines, and radio”.

Mass media è una espressione che ricaviamo direttamente dall’inglese, costruita secondo le regole della lingua inglese, composta da due parole inglesi, imparentate con il latino. Dovremmo considerarla come tie-break (che pure ci ostiniamo a pronunciate “taibrek”), fast food o home page, che non pronunciamo all’italiana, “come si scrivono”.

Mi sembra che quello di mass media sia uno di quei casi in cui la comune parentela latina sembra far dimenticare che alcune parole possono entrare a far parte di nuovi lessici, modificando pronuncia e significato: il latino medium non ha gli stessi significati dell’inglese medium, né potrebbe averli a costo di ingombranti anacronismi.

Sono d’accordo, dunque, con l’Accademia della Crusca, molto più saggia, che così conclude a proposito della pronuncia di massa media:

I termini arrivano in italiano, sì, dal latino, ma attraverso la mediazione di altre lingue. La pronuncia “all’inglese” è quindi più aderente alla lingua dalla quale i termini, con questi particolari significati, provengono in italiano.

Eppure, quanti soloni in televisione continuano a bacchettare chi dice mìdia!

E quando medium significa “Sensitivo, chi agisce come tramite con gli spiriti o provoca fenomeni paranormali”? Questa accezione, come ci ricordano i curatori del sito Una parola al giorno, ci arriva tramite la mediazione del francese:

A fine Ottocento, quando insieme alla psicologia impazza la parapsicologia, [il termine medium] passa attraverso il francese médium per indicare chi ha, o di solito pretende di avere, il potere di fare da tramite con il mondo degli spiriti — ma in maniera più generica chi può suscitare e manifestare fenomeni paranormali, alla telecinesi alla levitazione all’ectoplasma.

Insomma, le vie della pronuncia sono infinite e incrociano variazioni linguistiche, storiche, geografiche complesse, non riconducibili alla medesima origine latina.

Come conclude l’Accademia della Crusca, bisogna sempre essere consapevoli della storia che le parole hanno avuto, senza liofilizzarla – aggiungo io – in onore di una unica lingua, solo perché è la più antica.

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Perché odio l’espressione “Buon lavoro”

In inglese, non esiste un equivalente esatto di “Buon lavoro”, inteso come  forma di augurio o saluto. Nessuno direbbe: Good work. Un nativo anglofono preferirebbe: Have a nice day o Enjoy your day at work. Altra cosa è Good job che serve a complimentare qualcuno per aver fatto qualcosa di buono e che si potrebbe tradurre con “Bel lavoro”, “Ben fatto”.

Lo confesso. Vorrei che “Buon lavoro” non esistesse nemmeno in italiano. Ogni volta che qualcuno me lo dice, mi sento accapponare la pelle. Una sensazione di disagio mi attanaglia e richiede qualche secondo per dissiparsi. Perché? Perché, per la maggior parte degli individui, me compreso, il lavoro nella società contemporanea rappresenta una condizione sconfortante, avvilente, deprimente. Tanto più in quanto pretende di assorbire gran parte del nostro budget temporale.

Il lavoro, come dice l’anarchico Bob Black, è noia, imposizione, monotonia, insoddisfazione, alienazione. Un ricatto (“Se non lavori, non mangi”), un veleno (in quanto uccide la nostra vitalità, canalizzandola verso obiettivi meschini), un serial killer dell’anima (perché fa strame seriale della nostra creatività spontanea, sopprimendola o mettendola al servizio degli interessi di istituzioni che di noi, in fondo, non sanno che farsene).

Il lavoro uccide non solo il tempo che dedichiamo al lavoro, ma anche il resto del tempo: quello che dedichiamo ai giochi, alle vacanze, al “tempo libero” (che, in realtà, è tempo destinato al recupero delle forze una volta che queste sono state svuotate dal lavoro e serve a ricaricarci in vista di nuove “sedute di profonda alienazione”).

Il lavoro “ci disciplina”, facendo di noi degli esseri “ragionevoli” e “maturi”, termini con i quali si certifica la totale integrazione passiva dell’individuo nel sistema di cui fa parte. Ci disciplina anche nel senso che plasma i nostri desideri, la nostra volontà, le nostre pulsioni in modi che, prima di iniziare a lavorare, non condivideremmo di certo.

Il lavoro ci schiavizza, costringendoci a venderci in cambio di denaro e trasformando la nostra dignità in una merce come tante altre.

Il lavoro ci rende individui malati e fragili: ci fa ammalare a causa delle posture innaturali che ci costringe ad assumere e ci rende fragili psichicamente perché senza di esso sentiamo di non valere niente.

Il lavoro limita la nostra libertà, obbligandoci a rimanere nello stesso luogo e in compagnia delle stesse persone per giorni, mesi e anni.

Il lavoro rende indolenti le nostre facoltà mentali e intellettuali, incanalandole verso attività stagnanti, stabilite da altri.

Perfino il lavoro nelle pubbliche amministrazioni – quello dei “fannulloni” – risulta letale: sedentarizza milioni di individui, relegandoli in cubicoli asfittici e impegnandoli in attività prive di senso, governate dal diritto amministrativo, che costituiscono una perversione totale delle potenzialità umane a tutto vantaggio di istituzioni indifferenti che si reggono su codici aberranti e abbacinanti (nel senso che il dipendente pubblico non riesce a vedere oltre ciò che i codici del diritto gli impongono).

Insomma, “Buon lavoro” è un augurio di servilismo, sottomissione e alienazione duratura. Un’offesa o, al più, un ossimoro.

Non ditemelo mai più! Fate come gli inglesi!

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Maltrattamenti come “fatti culturali”

È di pochi giorni fa la notizia dell’assoluzione di un cittadino del Bangladesh, accusato di maltrattamento nei confronti della moglie. La motivazione dell’assoluzione, nelle parole del giudice, sta nel fatto che

I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine.

L’uomo è stato, dunque, assolto perché, secondo il giudice, i maltrattamenti ai danni della moglie – una cugina a cui si sarebbe unito nell’ambito di un matrimonio combinato – rientrerebbero nel contesto culturale bengalese, costituendo un caso di reato culturalmente motivato. Con questo termine si intendono comportamenti realizzati da un soggetto appartenente ad un gruppo culturale di minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza. Questi stessi comportamenti, tuttavia, all’interno del gruppo culturale del soggetto agente sono condonati, o accettati come comportamenti normali, o approvati, o addirittura incoraggiati o imposti.

Le domande che di solito ci poniamo quando veniamo a conoscenza di notizie del genere sono: il diritto penale deve riservare al responsabile di condotte del genere un trattamento di favore? La motivazione culturale deve essere completamente ignorata o considerata addirittura un’aggravante?

Le risposte a queste domande sono piuttosto varie.

C’è chi, ad esempio, sostiene che da una motivazione culturale non dovrebbero discendere attenuanti di nessun tipo perché, altrimenti, si conferirebbe agli immigrati, autori di reati culturalmente motivati, il privilegio di essere sottoposti a norme penali diverse da quelle applicabili al resto della popolazione, con conseguente violazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge penale.

Secondo un punto di vista diverso, il principio di uguaglianza dovrebbe essere considerato in maniera più ampia, trattando in modo diverso i diversi, al fine di ottenere una giustizia individualizzata, capace di ritagliare la risposta punitiva sulla colpevolezza individuale del reo. È il cosiddetto principio dell’uguaglianza sostanziale che si manifesta in particolare nelle società di tipo multinazionale, come quella anglosassone.

Secondo i sostenitori di questa posizione, chi commette un reato per motivi culturali dovrebbe usufruire delle cosiddette cultural defenses, termine con il quale si fa riferimento a  qualsiasi causa che consente all’imputato di non essere condannato per ragioni culturali, senza trovare corrispondenza con alcuno degli istituti giuridici nazionali in termini pro reo, quali le scriminanti o cause di giustificazione che escludono l’antigiuridicità del fatto, le scusanti che escludono la colpevolezza, le esimenti che escludono la punibilità, ovvero le circostanze attenuanti che consentono una riduzione della pena irrogata in concreto.

Una terza posizione, infine, riconosce nella motivazione culturale un motivo abietto e futile: in sostanza una circostanza aggravante del reato che fa di questo un fatto meritevole di una punizione più severa. C’è da dire, però, che, al di fuori di casi specifici, raramente la motivazione culturale è considerata una circostanza aggravante a livello giurisprudenziale.

Insomma, il tema dei “reati culturalmente motivati”, è più che mai attuale ed è probabile che sia destinato a rinnovare la propria attualità con l’intensificarsi dei processi migratori mondiali e dei rapporti tra culture diverse.

Uno dei classici della sociologia che si è occupato in maniera pioneristica di questi temi è Thorsten Sellin, di cui ho tradotto qualche anno fa Conflitto culturale e crimine, la sua opera principale. Una lettura utilissima per chiunque sia interessato a queste tematiche al di là degli strilli di pancia o dei commenti superficiali.

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Sul luogo comune: “Potrebbe essere sua figlia”

Le nostre relazioni sono tacitamente regolate da una norma tanto rispettata quanto potente. Non se ne parla quasi mai perché non è codificata in nessun libro, ma esercita su di noi una pressione alla quale spesso non siamo in grado di opporre resistenza. Questa norma inespressa afferma che si può provare legittimamente attrazione sessuale e sentimentale solo per persone che sono, più o meno, della nostra stessa età. Tale norma è stata scoperta dalla sociologia da tempo e va sotto il nome ufficiale di “regola della omogamia” (Burgess, Wallin, 1943).

È la norma in base alla quale si rimprovera il vecchio che perde la testa per la giovane o la vecchia che si mostra in giro con il suo toy boy; si deride il cinquantenne con pancia prominente e calvizie che corteggia la ventenne o la trentenne che prova attrazione per chi “potrebbe essere suo nonno”. Tutte queste situazioni sono sanzionate nel nome di una identità anagrafica normativa che dovrebbe governare la dinamica dei rapporti umani in maniera rigorosa, ma che nessuno ha il coraggio di codificare (tranne poche eccezioni, come vedremo).

In generale, “omogamia” è il termine con cui si definisce il fenomeno per cui ci si unisce a persone “più o meno” simili socialmente: il professionista tende a sposare la professionista, l’operaio l’operaia, il laureato la laureata, chi ha un alto reddito preferisce unirsi a chi ha un alto reddito; chi è italiano privilegia un partner italiano; il cattolico predilige chi condivide la sua religione ecc. Insomma, la sociologia sembra confermare la massima “Chi si somiglia si piglia” a scapito dell’altra che pure ha una certa diffusione: “Gli opposti si attraggono”. “Il simile attrae il simile”, dicono i sociologi, snocciolando esiti di sondaggi e statistiche varie. Chi è troppo diverso da noi, di solito, non incontra il nostro favore sentimentale. Sociologicamente, gli opposti raramente si attraggono.

Naturalmente, come per tutti i fenomeni sociali, l’enfasi va posta sul “più o meno”. In sociologia, non esistono determinismi forti. Non ci sono regole che predicono, in maniera matematica, la condotta umana. Infatti, la norma dell’omogamia tollera svariate eccezioni, tanto più numerose nella nostra epoca caratterizzata da globalizzazione economica, migrazioni spinte, “contaminazioni” culturali, declino delle forme tradizionali di esistenza, maggiore “apertura”. Di solito, si ritiene, infatti, che più i coniugi sono simili, più la società è da considerarsi chiusa. Al contrario, più i coniugi provengono da retroterra sociali diversi, più la società è aperta.

L’omogamia riguarda, come detto, anche l’età. Ci si unisce a persone più o meno della stessa età e tale norma è così possente che ogni discostamento da essa viene percepito dai più come una forma di devianza sociale, sanzionabile in maniera informale tramite battute ironiche, commenti di riprovazione, allusioni di inopportunità o sospetti di interesse. Se, ad esempio, una donna molto giovane si unisce in sposa a un uomo anziano, non mancherà chi subodorerà un matrimonio di interesse (“L’ha sposato perché vuole l’eredità”). In altri casi, se la differenza anagrafica è piuttosto alta, si parlerà di plagio, lavaggio del cervello, labilità mentale, fascino, truffa, differenze culturali (“Lei proviene da una cultura dove la differenza di età è ammessa”) o comunque si invocherà un motivo patologico per spiegare l’“inspiegabile” unione.

Ad esempio, si convocheranno interpretazioni psicoanalitiche basate sulla ricerca di una figura paterna o materna assente o su un complesso edipico irrisolto, termine con il quale in psicoanalisi, come è noto, si può provare a spiegare qualsiasi inclinazione comportamentale. Una conseguenza sociale della riprovazione cui sono soggette le coppie tra cui esistono forti differenze di età (dette anche “eterogame”) è che i “devianti” avvertiranno una condizione di tensione che, in casi estremi, potrà compromettere la riuscita della coppia, secondo il noto meccanismo della profezia che si autoavvera. Non è un caso che le coppie eterogame tendano a essere più fragili di quelle omogame (Arosio, 2006).

Nel passato, le differenze di età tra i coniugi erano oggetto di azioni informali di riprovazione, veri e propri rituali di derisione, detti “scampanate”, “fischiate”, “charivaris” (in francese), che prendevano di mira le condotte più chiacchierate dei membri della comunità, soprattutto per motivi riguardanti la sfera sessuale o familiare. Così, un vecchio che avesse sposato una donna molto più giovane poteva vedersi irriso da un gruppo di giovani attraverso un rumoroso rituale notturno a base di schiamazzi e fracassi, che poteva concludersi o no con un tentativo di conciliazione da parte del destinatario. La conciliazione prevedeva la distribuzione di doni, come segno di indennizzo simbolico per essere riaccolti all’interno della comunità in qualità di membri moralmente degni, ma non sempre funzionava. A volte, l’infrazione dell’ordine sociale omogamo era troppo lacerante perché essa fosse riparabile (Fincardi, 2005).

Al giorno d’oggi, le scampanate non esistono più. Permangono sanzioni più morbide – risatine, commenti maliziosi, pettegolezzi poco indulgenti ecc. – a caratterizzare come “strane” queste unioni, a conferma del fatto che la disapprovazione nei loro confronti è profondamente radicata nell’immaginario collettivo ed emerge informalmente in tante situazioni quotidiane. Tuttavia, a differenza, di altre norme sociali che prescrivono o proibiscono condotte sulla base dell’età (ad esempio, non si è imputabili prima dei 14 anni; si può votare al compimento dei 18 anni; si va in pensione a 67 anni), non esistono norme formali che impediscano o sanzionino rapporti sessuali o sentimentali caratterizzati da forti differenze di età tra i partner.

L’unica eccezione è costituita da quello che gli anglofoni chiamano statutory rape e che in Italia è disciplinato dall’art. 609 quater del Codice penale, che stabilisce che debba essere punito come se avesse commesso violenza sessuale chiunque adulto compia atti sessuali con una persona non ancora quattordicenne o che non abbia compiuto i sedici anni, se il colpevole è l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il convivente di questi, il tutore o “altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza”. In sostanza, è proibito all’adulto fare sesso con un minore che non abbia raggiunto l’età del consenso (14 anni).

In mancanza di una norma formalmente codificata, dunque, frasi come “Potrebbe essere sua figlia” o “Ma è solo una bambina” hanno lo scopo di imporre informalmente un modello omogamico di rapporto sentimentale; un modello che rimanda a un mondo ordinato in cui si hanno rapporti sessuali e sentimentali solo con persone “più o meno” della stessa età. Si tratta di frasi che presuppongono la condivisione di una sequenza legittima di sviluppo della biografia individuale che stabilisce che cosa è possibile (normale, legittimo) fare in relazione all’età. Esempi simili sono dati da frasi come: “È troppo giovane per sposarsi”; “Studia ancora alla sua età”; “È l’età giusta per avere un figlio”.

L’efficacia ammonitoria di una frase come “Potrebbe essere sua figlia” sta nel fatto che essa scoraggia il rapporto sessuale e sentimentale basato su una forte differenza di età fra i partner equiparandolo subdolamente a un rapporto incestuoso, ossia tabuizzando per analogia il rapporto. Naturalmente, il tabuizzato potrebbe controbattere facendo semplicemente notare che la partner in questione “non è sua figlia” e che, dunque, non c’è alcun rapporto incestuoso. Del resto, osserviamo che un/una partner che ha più o meno la nostra stessa età potrebbe essere “nostro fratello/nostra sorella” o “nostro cugino/nostra cugina”, ma nessuno tabuizzerebbe tramite un’analogia incestuosa un rapporto tra coetanei non imparentati tra loro, a riprova del fatto che “Potrebbe essere sua figlia” è solo un espediente retorico – basato su una precisa figura retorica: l’analogia – per sanzionare una situazione giudicata sconveniente; un luogo comune per ricondurre all’ordine “naturale” delle cose i sentimenti umani.

Fra l’altro, l’ammonizione contenuta nella frase “Potrebbe essere sua figlia” non tiene conto del fatto che nessuno più di un vecchio è in grado di apprezzare la giovinezza, età ormai distante e perciò tanto appetibile per chi è in là con il tempo. Ma, come è noto, la nostra società ageista condanna i desideri sessuali senili, attribuendo significati morali negativi a chi intende continuare la propria vita sentimentale, soprattutto se si sente attratto/attratta da donne/uomini molto più giovani: attrazione che, di solito, viene squalificata in termini di “manifestazione di andropausa/menopausa”, “desiderio di essere rassicurati sulla propria virilità/femminilità”, “terrore di invecchiare” o “ricerca di compensazione rispetto a un senso incombente di vuoto”. Chi osa contravvenire ai limiti sessuali e sentimentali che la società impone alla vecchiaia viene condannato con epiteti quali “vecchio bavoso”, “vecchio satiro”, “vecchio pervertito”, “babbione”, “carampana” o, addirittura, “pedofilo”, perché la norma implicita è che i vecchi dovrebbero aver raggiunto “la pace dei sensi” e chi non lo fa ha in sé qualcosa di esecrabile.

Il monito “Potrebbe essere sua figlia” nasconde, dunque, significati discriminatori, ageisti, screditanti, tabuizzanti profondamente radicati nel senso comune e, quindi, dati per scontati. Chi prenderebbe, infatti, le parti di un vecchio satiro innamorato di una venticinquenne? Il simile ama il simile. A tal punto che chi ama il dissimile mette a repentaglio il suo status di membro accettabile della collettività.

Riferimenti:

Arosio, L., 2006, “La diversità crea fragilità. Un approfondimento sulle cause dell’instabilità coniugale”, Rassegna italiana di sociologia, XLVII, n. 3, pp. 441-464.

Burgess, E. W., Wallin, P., 1943, “Homogamy in Social Characteristics”, American Journal of Sociology, vol. 49, n. 2, pp. 109-124.

Fincardi, M., 2005, Derisioni notturne. Racconti di serenate alla rovescia, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere (CE).

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Perché si dorme in chiesa (ancora)?

Ho già dedicato due post (vedi qui e qui) al piccolo sermone di Jonathan Swift (1667-1745), intitolato A Sermon upon sleeping in church, pubblicato postumo nel 1776, un curioso testo, solo apparentemente ozioso, dedicato a uno dei “misteri” più inquietanti della fede: perché le persone si addormentano in chiesa? E quali ne sono le cause?

Rimandando ai due post citati per alcune considerazioni generali, offro qui nella mia personale traduzione il testo dello scrittore irlandese, facendolo precedere da una breve introduzione che, unendo teologia e psicologia, mostra come le spiegazioni proposte da Swift sulla narcosi indotta dalle omelie trovino fondamento in alcune teorie della psicologia contemporanea sull’utilizzo delle risorse attentive e sui fenomeni del mind wandering e del decoupling.

La psicologia contemporanea ci insegna che noia e sonnolenza sono consustanziali alla preghiera e alla predicazione, che richiedono una energia più intensa per superare queste comprensibilissime reazioni umane alla monotonia e alla ripetitività. Il problema è che non tutti sono in grado di dedicarsi intensamente a una maggiore devozione; circostanza che rende la fruizione della predica una chimera religiosa difficilmente attingibile, se non un’impresa sovraumana.

E non basta nemmeno l’esortazione di Giovanni Paolo II, il quale, ad esempio, considerava la corona del rosario, pratica che, come è noto, pare favorire stati di coscienza appannata, «come espressione di quell’amore che non si stanca di tornare alla persona amata con effusioni che, pur simili nella manifestazione, sono sempre nuove per il sentimento che le pervade» (Rosarium Virginis Mariae). Nella realtà, sono tante le persone che abbandonano le loro relazioni amorose proprio perché trovano noiose e ripetitive le effusioni sempre simili dei loro partner.

Insomma, un testo estremamente attuale, ora leggibile gratuitamente e integralmente nella mia traduzione.

 

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La sociologia della santità di Antonio Fogazzaro

Ne Il santo di Antonio Fogazzaro, pubblicato nel 1905 e messo all’indice dalla Chiesa cattolica pochi mesi dopo, Pietro Maironi, alias Benedetto, il protagonista del romanzo, è indotto da una improvvisa vocazione a condurre una vita monacale e profondamente religiosa, da cui è interamente assorbito. La pienezza del suo sentire religioso spinge il popolo a considerarlo un santo, in grado di guarire gli infermi e operare miracoli.

La fama di santo gli attira, però, antipatie, invidie e diffamazioni, in seguito alle quali viene convocato in Questura, dove un “funzionario pubblico”, con argomenti pretestuosi, tenta di persuaderlo ad abbandonare Roma, città in cui Maironi vive, per trovare casa all’estero o, comunque, lontano dalla capitale. Maironi si oppone alla decisione che altri, anche per motivi politici, oltre che di ordine pubblico, hanno preso per lui, ma, il funzionario ribatte proponendo una interessante teoria protosociologica sull’origine della santità:

La santità non è mai reale, è sempre, più o meno, una idealizzazione che lo specchio fa dell’immagine. Se c’è una santità è quella dello specchio, è quella della gente che crede ai Santi. Io non ci credo. […] Io non sono credente ma però apprezzo il principio religioso come elemento di ordine pubblico [perciò] il Governo non può avere piacere che si faccia un processo scandaloso a qualcuno che presso il popolo passa per santo: un processo che potrebbe poi anche provocare dei disordini (Fogazzaro, A., 1970, Il Santo, Mondadori, Milano, p. 266).

Per il funzionario governativo, la santità è una creazione sociale, il prodotto dei bisogni e delle necessità umanissime di una comunità che vive in un determinato luogo e in un determinato tempo. Donne e uomini che vivono in realtà contadine, sopraffatti da problemi concretissimi di alimentazione, abitazione, salute fisica e mentale, tendono a creare un santo taumaturgo, in grado di risolvere i problemi che la medicina ufficiale non è in grado di risolvere e a offrire opportunità di riscatto da un contesto percepito come infido, precario e pericoloso. Il santo è una idealizzazione, un precipitato di qualità indispensabili per superare i problemi dell’esistenza quotidiana; è uno specchio che riflette l’immagine di una comunità alienata, vinta dalla vita, schiacciata dal corso della storia.

La creazione del santo sortisce effetti di acquietamento sociale, di ordine pubblico in quanto i membri della comunità, affascinati dall’azione putativamente taumaturgica dell’uomo, si astengono dal riunire le proprie energie per contrastare l’ordine sociale responsabile della loro condizione di minorità. Il santo, in altre parole, come oppio sociale, come narcotico politico ed economico, come ipnotico dell’anima ribelle.

Non so se Antonio Fogazzaro fosse a conoscenza delle teorie sociologiche che, negli anni della composizione delle sue opere principali, tentavano di spiegare in termini di conflitto di classe i contrasti tra i membri delle società dell’epoca. Le osservazioni del suo funzionario governativo lasciano intravedere, però, una visione sociologica del mondo in cui il sacro è un prodotto eminente della società e il santo una risposta ai suoi bisogni più profondi.

Alla fine del romanzo, Pietro Maironi, alias Benedetto, muore sopraffatto dalla cattiveria degli uomini, forse inconsapevole dell’ambigua potenza della santità a lui attribuita. Ma, si potrebbe dire, morto un santo se ne fa un altro. Non a caso la storia del XX secolo è segnata dall’emergere di tanti santi “reali” – san Pio, santa Faustina Kowalska, santa Teresa di Calcutta ecc. – a cui il popolo cattolico si è rivolto per tentare di trovare un senso e una soluzione alle proprie vicende personali, minacciate da forze sociali avvertite come potenti e invincibili con mezzi umani.

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Amare e lamentarsi di ciò che amiamo

È proprio vero! Amiamo lamentarci di ciò che accade nel mondo salvo non riuscire a fare a meno proprio di ciò di cui ci lamentiamo. Si tratta di uno dei paradossi della modernità su cui rifletteva già qualche anno fa Zygmunt Bauman in un brano del suo Le sfide dell’etica, (Feltrinelli, Milano, 2018, pp. 209-210) che è opportuno riportare nella sua lunghezza.

Noi tutti ci lamentiamo per l’inquinamento e per il disagio dovuti alla privatizzazione del “problema dei trasporti” attuata nella forma del commercio di automobili, ma la maggior parte di noi si opporrebbe decisamente all’abolizione delle auto private, mentre un’alta percentuale si guadagna da vivere, direttamente o indirettamente, con attività legate al prospero mercato automobilistico. Di conseguenza, ogni rallentamento nella produzione di automobili viene per lo più interpretato come una catastrofe nazionale. Tutti ci opponiamo all’accumulo dei rifiuti tossici, ma gran parte di noi cerca di sedare le proprie paure esigendo che tali rifiuti siano scaricati in casa altrui (purché lontana).

La dichiarazione di guerra contro il colesterolo fa scendere in piazza gli allevatori di mucche da latte in difesa del mercato del latte e dei latticini. La crescente consapevolezza popolare dei pericoli derivanti dal fumo significa il fallimento non delle compagnie del tabacco (che possono facilmente diversificare il loro capitale) ma dei milioni di coltivatori poveri per i quali la tabacchicoltura è la sola fonte di sostentamento. Vogliamo macchine, e macchine più veloci, per raggiungere le foreste alpine, solo per scoprire alla fine del viaggio che non esistono più, che sono state distrutte dai gas di scarico. Possiamo anche nutrire una profonda diffidenza nei confronti di un sistema industriale che, nel suo insieme, genera pericoli in continuazione, ma ogni suo frammento troverà facilmente in manager e impiegati del settore i suoi difensori più strenui e fidati, pronti a combattere per prolungarne l’esistenza.

Rabbrividiamo al pensiero degli stermini di massa, ma molto meno al pensiero degli strumenti che li rendono possibili; i proprietari, i lavoratori, i negozianti e i parlamentari locali non esitano a unire le loro forze per proteggere le fabbriche di armi, i cantieri per la costruzione di navi da guerra o le industrie produttrici di sostanze chimiche potenzialmente letali (a condizione che, naturalmente, queste stesse fabbriche siano “sicure dal punto vista ambientale” per gli elettori dei parlamentari). Nuove ordinazioni di armi vengono accolte con entusiasmo, il loro annullamento è causa di proteste. Una volta declinato l’“impero del male”, con i suoi immensi istituti militari di ricerca e di sviluppo per la progettazione di armi “nuove e migliori”, non avendo più ragioni per liberarci periodicamente delle nostre scorte di armi inutilizzate in nome dell’autentico o presunto “progresso” del nemico, vengono attivamente cercati – con il nostro sostegno – nuovi bersagli, allo scopo di sgomberare magazzini che traboccano di armi e fare spazio a nuove e continue forniture.

Mentre noi sogniamo un mondo più sicuro e più pacifico, i mercanti d’armi, sovvenzionati o no dai governi, cercano d’ingraziarsi dittatori piccoli e grandi, promuovendo la loro merce non come armi, ma come strumento del potere e del riscatto dei poveri. Infine, siamo molto preoccupati per quella che chiamiamo “esplosione demografica”, ma tutti – com’è naturale, giusto e ovvio – accogliamo entusiasticamente come “progresso” i passi avanti fatti nel prolungamento della vita, individuale e, ovviamente, ciascuno di noi è desideroso di trarre un vantaggio personale dalle sue conquiste. Ma non si tratta semplicemente del fatto che ciò che è veleno per alcuni è cibo per altri; ancora più sconcertante per il fronte unito antirischio è che sostanze che sono velenose se assunte in dosi massicce, a piccole dosi si dimostrino il cibo quotidiano di cui la maggior parte delle persone non può, o non vuole, fare a meno.

Dalle osservazioni di Bauman ricaviamo una prospettiva che ho definito “enantiodromica” sulla modernità. Dai fenomeni comunemente ritenuti negativi (inquinamento, fumo, automobili, sovrappopolazione, armi) derivano conseguenze anche positive (maggiore mobilità, crescita delle industrie, maggiore densità e varietà delle relazioni) che rendono estremamente difficile assumere un atteggiamento di netta condanna nei confronti dei suddetti fenomeni.

Ho scritto qualche anno fa un libro sul tema dell’ambiguità enantiodromica in criminologia dove osservavo che, ad esempio, tra le conseguenze del rapimento di un bambino può esserci il ridestarsi della solidarietà all’interno di una comunità; la prostituzione può salvaguardare, secondo alcuni autori, la sacralità del matrimonio; il gioco d’azzardo può servire a risanare le casse dello stato; la criminalità organizzata “dà lavoro” a masse di diseredati; la corruzione è abominevole, ma indubbiamente “lubrifica” alcuni procedimenti amministrativi ecc.

Si tratta di fenomeni di cui non vorremmo mai sentire parlare, ma con cui non possiamo non confrontarci. Eppure, sono abitualmente trascurati dalla criminologia tradizionale, forse perché imbarazzanti, spiazzanti, dissacranti. Per una analisi approfondita della prospettiva enantiodromica, rimando ovviamente al mio Verso una criminologia enantiodromica, Aracne Editrice, 2015.

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L’ordine come giudizio sul disordine

Ogni forma di vita si basa su una precisa concezione di ordine e disordine. Ordiniamo il mondo in un certo modo e, per differenza, tutto ciò che non rientra nella nostra idea di ordine viene avvertito come disordine.

Il problema è che non esiste una unica forma di ordine, ma molteplici. Un altro problema è che, a dispetto di ciò, tendiamo a pensare il mondo come se la forma di ordine che gli imponiamo fosse unica e assoluta. Di qui, il fastidio, il disgusto, il livore, la rabbia nei confronti di coloro che mettono in discussione il nostro concetto di ordine, contrapponendogliene un’altra.

Così, chi non si adegua al nostro ordine morale viene definito “immorale”. Chi non si adegua ai nostri standard sessuali e di genere viene percepito come “pervertito”, “promiscuo”, “frocio” ecc. Chi non si conforma ai nostri criteri economici viene definito “ingenuo”, “disonesto”, incapace di giudizi equilibrati (quando, in realtà, non fa altro che obbedire a diversi criteri di economia). Chi non corrisponde ai nostri paradigmi emotivi diventa automaticamente “irrazionale”, “eccessivamente emotivo”, “volubile”, “imprevedibile” ecc.

Insomma, imporre un ordine al mondo significa contemporaneamente disegnare una mappa del disordine, luogo in cui amiamo confinare tutti quelli che non intendono o non sono in grado di condividere i nostri stessi standard morali, sessuali, economici, politici ecc.

È così, in fondo, che nascono razzismo, classismo, ageismo e altri ismi contemporanei: perché qualcuno ritiene che la propria forma di ordine sia l’unica possibile o accettabile e chiunque non vi si conformi ha, in sé, qualcosa di negativo, che, talvolta, lo rende poco umano.

Tutto ciò traspare anche in vari ambiti della vita quotidiana. I “vecchi” accusano i “giovani” di ascoltare “rumore” perché la loro idea di musica è diversa dalla loro. La cucina dei migranti è accusata di “puzzare” perché non si conferma agli standard culinari dei “locali”. Lo “zingaro” è accusato di “pigrizia” perché non si conferma agli ideali produttivistici del borghese. La donna che non corrisponde a determinati criteri di modestia e pudore viene definita “sfacciata”, “impudica”. E così via.

Ogni forma di ordine contiene in sé un’idea prescrittiva e ideale del mondo, che conduce inevitabilmente al giudizio negativo nei confronti di chi non la condivide. È difficile rinunciarvi, assumere una prospettiva relativistica, prospettica nei confronti del mondo. È più facile e cognitivamente più agevole parlare male, accusare e/o respingere chi si difforma dalla nostra idea di ordine. Perfino quando l’idea di ordine dell’altro potrebbe risultare più vantaggiosa della nostra perché più inclusiva.

L’idea di ordine è come un’abitudine. Una volta adottata è difficile sbarazzarsene e sostituirla con un’altra. Così come è difficile evitare di giudicare in base a quell’idea. Così, diventiamo tutti caricaturali casalinghe impazzite, ossessionate dalle pattine. E ci chiudiamo nella nostra idea assolutizzandola come un dogma.

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