Il Libro bianco sulle droghe

Il Libro Bianco sulle droghe è un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti (DPR 309/90) sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società. È promosso da varie importanti associazioni e organizzazioni, tra cui Antigone, CGIL, CNCA, Gruppo Abele, Associazione Luca Coscioni, ARCI e altre ancora.

Ogni anno viene presentato il 26 giugno, giornata mondiale delle droghe, e quest’anno è giunto alla tredicesima edizione. Fatto curioso: il testo viene pubblicato da Youcanprint, una piattaforma di self-publishing a dimostrazione del fatto che, in Italia, certi temi scomodi non vengono accolti dalle case editrici mainstream.

I risultati del rapporto sono spesso sorprendenti e ho l’impressione che raramente trovino ascolto presso le istituzioni:

1) Senza detenuti per spaccio o dichiarati tossicodipendenti non si avrebbero problemi di affollamento nelle carceri. Come recita il Libro: «Sui 56.196 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2022 ben 12.147 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (spaccio). Altri 6.126 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 1.010 esclusivamente per l’art. 74. Si tratta del 34,3% del totale. Sostanzialmente il doppio delle media europea (18%) e molto di più di quella mondiale (22%)».

2) Il 30% dei detenuti entra in carcere per detenzione o piccolo spaccio. Non è vero quindi che “gli spacciatori non vanno in carcere”: sono invece il 28,3% degli ingressi totali, molti dei quali vi restano.

3) Vi è un numero record di detenuti che usano sostanze: più del 28% sono definiti “tossicodipendenti”.

4) Ciò porta a un intasamento della giustizia con oltre 230.000 fascicoli che ingolfano il lavoro dei tribunali

5) Le misure alternative, continuano a crescere, ma questa non è necessariamente una buona notizia. Come afferma il Libro: «Continua l’impetuosa crescita delle misure alternative, interrottasi solo nel 2020, quando si registrò un lieve calo. Dal 31 dicembre 2006 al 31 dicembre 2022 si è passati da 3.592 a 35.799 sottoposti a misura alternativa (+896,6%). Siamo abituati a vedere di buon occhio le misure alternative, che tra le altre cose hanno dimostrato una maggiore efficacia nell’abbattimento della recidiva rispetto alla detenzione. Tuttavia, l’aumento delle misure alternative non è andato di pari passo con la diminuzione della popolazione carceraria. Cosa significa? Che, come previsto da Stanley Cohen nel 1979, in un contesto di forte domanda di controllo sociale istituzionale gli strumenti di diversion e quelli di probation rischiano di ampliare l’area del controllo piuttosto che limitare quello coattivo-penitenziario». In altre parole, «le misure alternative alla detenzione possono diventare (e, nel nostro caso, potrebbero essere già diventate) misure alternative alla libertà».

6) Infine, si conferma l’incidenza molto marginale delle violazioni dell’art. 187 del Codice della Strada, ovvero guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti. Dai dati disponibili, per quanto disomogenei (Polizia Stradale), si nota un sostanziale dimezzamento negli ultimi 10 anni delle violazioni dell’art. 187. Le violazioni accertate dalla Polizia Stradale a seguito di incidente rimangono a livelli molto bassi: 1,18% nel 2021 e salgono all’1,44% negli incidenti con lesioni.

A dispetto della retorica delle politiche repressive sulle droghe, queste producono sovraffollamento carcerario, forte controllo sociale istituzionale, intasamento della giustizia e miti come quello dei frequenti incidenti stradali per guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti.

E naturalmente non risolvono il problema della droga, anzi lo amplificano.

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Erving Goffman e gli adattamenti dei dipendenti pubblici

In uno dei lavori più celebri della sociologia contemporanea, Asylum (1961), Erving Goffman, esamina le cosiddette istituzioni totali. Per il sociologo canadese, «un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato» (Goffman, 1968, p. 29). Oggetto privilegiato di analisi di Goffman sono soprattutto carceri e ospedali psichiatrici, ma, a mio avviso le sue riflessioni possono estendersi a realtà apparentemente insospettabili come le amministrazioni pubbliche. Anche l’amministrazione pubblica, infatti, può configurarsi come un luogo, se non di residenza, almeno di lavoro, di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un numero prestabilito di ore giornaliere e per molti anni – si trovano a condividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime parzialmente chiuso e formalmente amministrato.

Un’amministrazione pubblica non può evidentemente essere equiparata, da molti punti di vista, a un carcere o a un ospedale psichiatrico, ma il fatto che in essa si trovino riuniti gruppi di persone che, per anni e anni, condividono i medesimi luoghi, conoscenze, pratiche, forme organizzative, gerarchie ecc. per buona parte delle loro waking hours favorisce l’azione di meccanismi di adattamento che ricordano quelli in uso presso prigioni e ospedali psichiatrici.

A tal riguardo, Goffman conia i concetti di “adattamento primario” e “adattamento secondario”.

Quando un individuo contribuisce cooperativamente ad un’attività richiesta da una organizzazione, in determinate condizioni – con l’appoggio, nella nostra società, di modelli di assistenza istituzionalizzati, lo stimolo di incentivi e valori comuni, la minaccia di penalità designate – ne diventa un collaboratore; ne diventa cioè il membro «normale» «programmato» o «determinato». Dà e prende in modo appropriato ciò che è stato sistematicamente progettato, sia che la cosa comporti, da parte sua, un coinvolgimento notevole o minimo. In breve, gli viene ufficialmente richiesto di essere né più né meno di ciò che è preparato ad essere, ed è obbligato a vivere in un mondo che gli è, di fatto, congeniale. In questo caso dirò che l’individuo ha un adattamento primario all’organizzazione, tralasciando il fatto che sarebbe altrettanto ragionevole parlare dell’adattamento primario che l’organizzazione assume nei suoi confronti.

Ho usato questo termine impreciso per ottenerne un altro, quello cioè degli adattamenti secondari, che definisco come adattamenti abituali, per mezzo dei quali un membro di un’organizzazione usa mezzi od ottiene fini non autorizzati, oppure usa ed ottiene entrambi, sfuggendo a ciò che l’organizzazione presume dovrebbe fare ed ottenere, quindi a ciò che dovrebbe essere. Gli adattamenti secondari rappresentano il modo in cui l’individuo riesce ad evitare il ruolo e il sé che l’istituzione ha presi per garantiti per lui (Goffman, 1968, p. 212).

Tra gli esempi di adattamenti secondari, Goffman cita:

La prima cosa da notare è la prevalenza di usi individuali ricavati da oggetti disponibili. In ogni istituzione sociale coloro che vi fanno parte usano gli oggetti accessibili in un modo e per un fine non ufficialmente previsto, modificando così le condizioni di vita programmate per loro. In ciò può essere compresa la ricostruzione fisica dell’oggetto o semplicemente un modo illegittimo di usarlo: in entrambi i casi si tratta di esempi casalinghi del tema di  Robinson Crusoe. I casi più ovvi ci provengono dalle carceri dove, per esempio, si ricava un coltello da un cucchiaio, inchiostro per disegno dalle pagine di un giornale illustrato, i quaderni sono usati per scrivere le scommesse e le sigarette vengono accese in tutti i modi – provocando un cortocircuito, con un accendino fatto in casa, un fiammifero tagliato in quattro (Goffman, 1968, p. 230).

In taluni casi, gli adattamenti secondari consentono di ricavare piccoli e grandi vantaggi personali, attività che Goffman definisce “lavorarsi il sistema”:

Considero ora una serie di pratiche che implicano una maggior partecipazione al mondo legale dell’istituzione. Il significato dell’attività legittima può essere conservato, ma può arrivare ad oltrepassare la meta prefissa; si assiste ad una sorta di ampliamento o elaborazione delle fonti di soddisfazioni illegittime, o alla utilizzazione, a fini personali, di interi cicli di attività ufficiali. In questo caso parlerò di «lavorarsi» il sistema (Goffman, 1968, p. 232).

Anche i dipendenti pubblici ricorrono a tutta una serie di adattamenti secondari per prendere le distanze dal proprio ruolo, vissuto spesso come noioso e poco gratificante.

Esempi di adattamenti secondari dei dipendenti pubblici sono: ridurre il proprio rendimento per “non stressarsi”; gironzolare per gli uffici con un foglio in mano per dare l’impressione di essere impegnati a fare qualcosa; entrare nella stanza del collega per iniziare una conversazione privata con la scusa di parlare di lavoro; leggere il giornale in ufficio; approfittare di un servizio esterno concesso per eseguire un compito lavorativo al fine di svolgere affari privati; compiere lavori extra per arrotondare; giocare al solitario in ufficio; spettegolare e lamentarsi dei colleghi o dei superiori.

A proposito di quest’ultima pratica, è noto in sociologia che il pettegolezzo ha la funzione di preservare, confermare e convalidare i valori collettivi della comunità, consolidare i legami normativi e la coesione di gruppo; mantenere l’unità e l’equilibrio del gruppo sociale e facilitare l’emersione di criticità e problemi che affliggono gli individui; indicare appartenenze di gruppo (chi ne fa parte “veramente”) e disseminare informazioni, anche riservate, sulle personalità dei suoi membri e sulle sue dinamiche interazionali.  Il dipendente pubblico, dunque, nel mentre prende le distanze dal proprio ruolo spettegolando, ravviva e conferma i rapporti sociali nei quali è coinvolto nel proprio luogo di lavoro. Una funzione – questa del pettegolezzo – spesso trascurata a favore della sua netta condanna morale.

Anche il dipendente pubblico sa come “lavorarsi il sistema”. Tra i modi più comuni troviamo: usare il telefono, il computer, la stampante, lo scanner e altri strumenti per fini personali; sottrarre articoli di cancelleria per destinarli a uso privato; vendere servizi o merci private ai colleghi (alimenti prodotti in proprio, articoli di artigianato; organizzazione di eventi in locali intestati al coniuge); andare a prendere il caffè senza timbrare l’uscita; timbrare e uscire a fare la spesa.

Tutte queste condotte, abitualmente vituperate e che suscitano scandalo quando sono rese pubbliche, segnalano la necessità per il dipendente pubblico di non essere totalmente asservito a un ruolo percepito come umiliante e spersonalizzante: una sorta di meccanismo di difesa per allontanare dalla propria mente il peso considerevole di mansioni ripetitive e istupidenti che pure l’amministrazione dà per scontate.

Fonte: Goffman, E., 1968, Asylums, Einaudi, Torino.

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La stregoneria nel mondo

Chi crede nella stregoneria? Quali sono le sue caratteristiche? A quali variabili psicologiche, sociali, economiche, demografiche, geografiche è associata la credenza nel malocchio, nelle fatture, negli incantesimi?

A queste domande tenta di rispondere Witchcraft beliefs around the world: An exploratory analysis di Boris Gershman, uno studio che prende in considerazione un dataset globale composto da dati provenienti da ben sei ricerche condotte dal Pew Research Center tra il 2008 e il 2017 in 95 nazioni di tutto il mondo per un totale di 140.000 intervistati. La metodologia adottata è quella dell’intervista faccia a faccia, tranne che nei paesi dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, dove si è fatto ricorso a interviste telefoniche.

La ricerca non è esente da critiche. Paesi come Cina, India e Canada non sono rappresentati. Inoltre, appare problematico inserire nello stesso calderone statistico risposte provenienti da ambienti estremamente diversi riguardo a cultura, società e benessere materiale, per quanto standardizzate siano le domande. Le interviste faccia a faccia possono, infine, elicitare risposte diverse da quelle condotte telefonicamente. Insomma, limiti metodologici e di rappresentatività esistono e come. Alcune conclusioni appaiono comunque stimolanti.

Ad esempio, a livello individuale, la credenza nella stregoneria appare negativamente associata all’età, al livello di istruzione e al benessere materiale, mentre appare positivamente associata alla fede in Dio e alla religiosità. Ciò vuol dire che più si è istruiti e ricchi e meno si crede alle streghe; più si è religiosi, più si è inclini a ritenere vera la stregoneria.

I risultati più interessanti sono però di tipo sociologico. Le credenze nella stregoneria sono più diffuse nei paesi dove le istituzioni sono deboli e la capacità di governo è scarsa. Inoltre, i “credenti” esprimono un maggiore conformismo culturale, un maggiore pregiudizio favorevole al gruppo di appartenenza e sfavorevole ai gruppi diversi dal proprio (immigrati, diversi ecc.) rispetto a chi non crede. Ancora, evidenziano una erosione del capitale sociale, che si manifesta in bassi livelli di fiducia nei confronti della polizia, del sistema giudiziario e del governo e in vari atteggiamenti e comportamenti antisociali. Chi crede nella stregoneria è meno soddisfatto della sua vita, crede di non avere controllo su di essa e tende al fatalismo.

Un dato, a mio avviso, particolarmente affascinante è la correlazione esistente tra credenza nella stregoneria e controllo sociale: chi crede in incantatrici e negromanti è più conformista di chi non vi crede in quanto teme di essere punito con accuse di stregoneria o con fatture e incantesimi se infrange le regole sociali. Del resto, ancora oggi, nel mondo occidentale, la paura di “finire all’inferno” può agire, in qualche caso, come deterrente di azioni trasgressive. Religione e stregoneria possono, dunque, essere adoperati come strumenti di coesione sociale.  

La stregoneria può anche fornire un senso alla propria vita e “spiegare” perché accadono certe cose e non altre. Il “credente” insoddisfatto della propria esistenza può sempre giustificare tale insoddisfazione affermando che potenze malefiche e incontrollabili cospirano contro di lui. In questo modo, può attribuire ad altri frustrazioni e fallimenti e rassicurarsi sulla propria fondamentale bontà e capacità. Se “loro” ce l’hanno con te, non puoi farci nulla…

Come è evidente, le credenze irrazionali prosperano ancora nel nostro mondo iperrazionale e ipertecnologico. Anzi, proprio l’ipertecnologia tracima nella magia: il fatto di vedere qualcosa accadere semplicemente schiacciando un tasto non è come evocare un intervento soprannaturale agitando una bacchetta? La verità è che viviamo in un mondo magico e superstizioso per eccesso di razionalità. Il nostro ambiente è talmente dominato da algoritmi e virtualità che non ci rendiamo conto di quanto essi abbiano ormai imbevuto di stregoneria le nostre esistenze. Oggi, la magia è cosa concreta e c’illude di poter fare qualsiasi cosa semplicemente strisciando una superficie. È ingenuo credere che magia e superstizione siano destinati a lasciarci: essi sono già tutt’uno con la razionalità e la tecnologia.

Di questi argomenti, parlo nel mio Aloni, stregoni e superstizioni.

Fonte: Gershman B (2022) Witchcraft beliefs around the world: An exploratory analysis. PLoS ONE 17(11).

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Gli animali che umani non sono

Lo dico chiaramente: non sono un fan della ministra per le pari opportunità e la Famiglia Eugenia Roccella. Non condivido le sue posizioni sugli omosessuali, sugli immigrati, sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, su aborto, fine vita e fecondazione assistita.

Tuttavia, le sue recenti esternazioni su uomini e donne che chiamano i loro cani con nomi “umani”, al di là delle conclusioni sulla necessità di una “rivolta a difesa dell’umano” e sui rischi corsi oggi dalla “famiglia tradizionale”, colgono uno dei fenomeni sociali più rilevanti degli ultimi anni: l’antropomorfizzazione spinta degli animali, soprattutto “di compagnia”, e la loro funzione di surroga rispetto a relazioni affettive e umane precarie.

È evidente a tutti che oggi gli animali colmino vuoti esistenziali e psicologici. Essi sostituiscono i figli quando questi vanno via dalla famiglia o non arrivano mai (e se pure ci sono, diventano “fratellini” da accudire e vezzeggiare). Soddisfano il nostro desiderio di compiere buone azioni, di reciprocità, dialogo e complementarità. In un’epoca in cui la fiducia nei nostri simili umani sembra venir meno, gli animali rappresentano surrogati più comodi e facili da gestire.

Sono letteralmente i migliori amici dell’uomo, se non altro perché a tutti piace avere un amico che non ti contraddice mai e fa tutto quello che vuoi senza protestare. Molti cercano (anche) relazioni di altro genere, che soddisfino esigenze non colmate dai rapporti umani, come una relazione di accudimento quando non c’è un cucciolo umano, oppure un affetto incondizionato, inattaccabile, senza giudizio né rischi di abbandono, delusione o tradimento.

Non sorprende, dunque, che gli umani siano disposti a erigere monumenti funebri per i loro amici a varie zampe e a lasciare loro in eredità i propri beni. Oggi gli animali sono caricati di funzioni affettive, sociali e psicologiche e oggetto di processi di “umanizzazione” e di “parentizzazione” come non mai nella storia.

Alla umanizzazione degli animali contribuisce indubbiamente anche quella che potremmo chiamare la disneyzzazione del mondo, ossia la trasformazione mediatica del mondo in luogo in cui “cartoni animali” parlano, pensano, sentono, agiscono come e meglio degli umani; in cui personaggi come Dumbo hanno occhioni commoventi ed espressioni strappalacrime e dove elefanti, bradipi, ciuchini e leoni animati interpretano tipi umani noti come il “saggio”, il “burbero”, il “coraggioso”, il “sapiente”, lo “scemo”. Non è improbabile che la Disney, più di tante posizioni filosofiche e culturali in difesa degli animali, abbia instillato nella mente dei contemporanei l’idea, fino a qualche decennio fa ritenuta inaudita e assurda, che le “bestie” abbiano un’anima.

Oggi viviamo nell’epoca dell’animalismo e dell’antispecismo, un’epoca mai esistita prima nella storia dell’umanità, che ha riconosciuto agli animali diritti prima nemmeno concepibili. Si può parlare al riguardo di una vera e propria rivoluzione culturale, che ha scalzato l’antropocentrismo che caratterizza da secoli il rapporto uomo-animale e ha portato a un cambiamento radicale nel modo di vedere e agire nei confronti degli animali. Fino a tempi recenti, la posizione privilegiata dell’uomo in cima alla gerarchia degli esseri viventi non era nemmeno contestabile. Oggi, gli animali sono soggetti a pieno titolo della discussione pubblica e politica, ispirano filosofie, movimenti, giurisprudenza, criminologie (le cosiddette zoomafie); orientano il mercato, la religione, la società.

Appare evidente, però, come questa nuova posizione privilegiata sia soprattutto funzione di un potente meccanismo di proiezione psicologica che ci porta a riversare sugli animali sentimenti, frustrazioni, aspirazioni, modi di sentire e di vedere “umani” e a pretendere da essi reazioni “umane” prevedibili, conformi ai nostri desiderata.

Così, non è difficile sentire la proprietaria di un cane che si accomiata dai suoi amici invitare il suo pet a “fare ciao con la manina” o un altro proprietario invitare il suo barboncino a suggerirgli che cosa fare con la sua riottosa amata.

Cani e altri pets diventano sempre più sponde dei nostri pensieri, specchi in cui amiamo rifletterci, compagni eterni che non ci deluderanno mai. Sono l’estensione dei nostri ego, l’addendum delle nostre personalità, il link a parti di noi stessi che altrimenti trascureremmo.

Il problema è che tutto questo è “umano, troppo umano”. Una forma di superstizione proiettiva di cui in tanti siamo vittime e che ci rende irrazionali come poche cose al mondo. Parlare con gli animali è oggi divenuto normale, come un tempo era normale parlare con dei, spiriti e altri esseri soprannaturali.

Insomma, gli animali come surroghe di dimensioni perse o abiurate. Non ce ne accorgiamo, ma cerchiamo l’umano in chi umano non è e disdegniamo l’umano di chi umano è.

Per altre superstizioni moderne, rimando al mio Aloni, stregoni e superstizioni da cui ho tratto alcune delle parole di questo post.

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Sul calcio e il numero 88

“Non assegnare ai giocatori la maglia con il numero “88”, considerato un richiamo esplicito alla simbologia nazista”. Così recita il punto 2 della Dichiarazione di intenti per la lotta contro l’antisemitismo nel calcio, sottoscritta pochi giorni fa dal Ministro dell’Interno, il Ministro per lo Sport e i Giovani, il Coordinatore Nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, la Federazione Italiana Giuoco Calcio.

La ragione di questo divieto sta nel fatto che, negli ambienti neonazisti, il numero “88” – dove l’8 rimanda alla ottava lettera dell’alfabeto, la h, e vuol dire, dunque, HH – viene adoperato come acronimo di “Heil Hitler”. Secondo un’altra versione, l’88 ricorderebbe il cannone contraereo usato dai tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, l’8,8 cm FlaK, soprannominato, appunto, l’88.

Il numero “88” si trova spesso – come segnalato dall’Osservatorio  antisemitismo – sui volantini diffusi dai gruppi neonazisti, nei saluti e nei commenti finali delle lettere scritte dai membri di questi gruppi e nei loro indirizzi e-mail.

Come ricorda, tuttavia, la relativa voce di Wikipedia, il numero “88” ha una simbologia complessa. Ad esempio, nel codice morse “88” è un’abbreviazione comunemente usata con significato di love and kisses (baci e abbracci). Ma è anche il numero atomico del Radio (Ra). Inoltre, il pianoforte ha ottantotto tasti. Cosmos 88 è un satellite artificiale russo. 88P/Howell è una cometa periodica del sistema solare e 88 è il numero delle costellazioni. Infine, “88” possiede un numero piuttosto cospicuo di proprietà matematiche.

A mio avviso, impedire ai calciatori di indossare l’“88” sulle loro maglie equivale a ridurre la complessa simbologia del numero a un’unica dimensione minacciosa, precedentemente relegata a un contesto simbolico circoscritto, sancendone definitivamente l’appropriazione in chiave neonazista.

Con questa decisione, il numero “88” diviene il numero neonazista per eccellenza, la cifra teratomorfica da temere per sempre. La sua valenza simbolica trascende i limiti subculturali precedenti, fagocitando ogni sua “lettura” che, da ora in poi, non potrà che essere univocamente neonazista.

In questo modo, finiamo con il conferire al segno di un codice ristretto un valore universale, generando un vizioso effetto di backfire, che darà ulteriore visibilità e potenza alla semiologia posthitleriana.

Come insegna la sociologia, le azioni umane hanno spesso delle conseguenze difformi da quelle desiderate. A volte anche contrarie. È il caso della “promozione” del numero “88” a nuovo numero della bestia.

Per altre contraddizioni sul mondo del calcio, rimando al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso.

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Sull'”essere professionali”

Oggi si dà molta importanza all’essere professionali. Essere professionali è una caratteristica positiva, molto apprezzata nei rapporti di lavoro. Si lodano il medico, l’avvocato, il giornalista, lo scienziato per la loro professionalità. Ma anche il cameriere, il commesso, l’autista di taxi, il parrucchiere. Perfino un sicario o una escort possono essere molto professionali. La professionalità fa la differenza tra un lavoratore e l’altro. È un criterio di buona condotta e approvazione sociale. Un’aspirazione e un ambizione. A tutti fa piacere essere definiti “professionali”. Ma che cosa significa davvero?

Essere “professionale” significa innanzitutto mostrare particolare competenza e preparazione nello svolgimento della propria attività o professione. Ma la competenza è solo un aspetto della faccenda. Essere professionali significa imparare a disgiungere il lavoro da tutto il resto, la neutralità affettiva dall’affettività, le emozioni dal lavoro. Significa imparare un ruolo e seguirlo senza cedimenti, senza esitazioni. Significa aderire a una parte senza lasciare che questa venga contaminata da altre parti. Significa imparare a mascherarsi bene e non togliere mai la maschera.

Per comprendere bene l’essenza della “professionalità” occorre rivolgersi a uno degli strumenti concettuali più fortunati della sociologia contemporanea: le cosiddette “variabili strutturali” (pattern variables) elaborate dal sociologo americano Talcott Parsons (1902-1979) per spiegare gli orientamenti culturali tipici di ogni società. Per Parsons, l’azione umana si declina secondo le seguenti coppie di alternative, definite appunto variabili strutturali:

  • Affettività/Neutralità affettiva: le azioni umane possono essere guidate dalle emozioni e dagli affetti oppure da criteri che nulla hanno a che vedere con le emozioni.
  • Diffusione/Specificità: le azioni umane possono indirizzarsi a considerare tutti gli aspetti della personalità umana o solo qualcuno, come quando ci si rivolge al macellaio per acquistare la carne. Nel momento in cui interagiamo con lui o lei, a noi interessa solo in quanto macellaio, non in quanto padre/madre, figlio/figlia, appassionato/a di robotica o di filatelia ecc.
  • Universalismo/Particolarismo: le azioni umane possono ispirarsi a criteri universalistici, come il merito, o a criteri particolaristici e privati.
  • Acquisitività/Ascrizione: le azioni umane possono ispirarsi a criteri acquisitivi (la prestazione) o ascrittivi (appartenenza a una data famiglia).
  • Orientamento alla collettività/Orientamento a sé stessi: le azioni umane possono essere guidate da interessi collettivi o privati.

Ebbene, se analizziamo la professionalità secondo la tipologia appena descritta, risulterà evidente che la persona che si comporta in maniera professionale deve possedere le seguenti caratteristiche:

  • L’individuo professionale deve essere neutralmente affettivo e non lasciarsi coinvolgere dalle emozioni. Un chirurgo professionale deve essere in grado di eseguire un’operazione sulla base delle sole competenze tecniche senza che altri fattori intervengano a condizionare l’esito del suo lavoro.
  • L’individuo professionale deve essere specifico. Uno psicologo impegnato con un paziente deve limitarsi a considerarlo solo per il problema che gli viene esposto non per altri motivi. Ad esempio, se si trova di fronte una bella ragazza, non può mettersi a corteggiarla durante una seduta. Ciò sarebbe considerato, appunto, poco professionale.
  • L’individuo professionale adotta criteri universalistici e non particolaristici. Ad esempio, un selezionatore professionale sceglierà il migliore candidato a un posto di lavoro in base a criteri quali il merito piuttosto che particolaristici (il candidato è figlio del suo amico).
  • L’individuo professionale si orienta sempre verso criteri acquisitivi: un insegnante professionale valuterà i suoi alunni sulla base delle loro prestazioni oggettive, non in base alle appartenenze familiari o alle simpatie.
  • Infine, l’individuo professionale è sempre guidato da interessi collettivi. Se fosse guidato da interessi privati, comprometterebbe il buon esito del suo lavoro. Un impiegato pubblico poco professionale che decidesse di emettere certificati solo a favore di parenti e amici non si comporterebbe in maniera corretta.

In sintesi, l’individuo professionale non deve essere guidato da nessun genere di affettività; deve ricoprire il proprio ruolo aderendo rigorosamente a quanto esso stabilisce; deve adottare criteri di giudizio prescritti dal ruolo nei confronti degli altri e della realtà; deve essere guidato da interessi prescritti dal ruolo.

Questo significa che l’individuo professionale deve, per essere tale, rinunciare a quanto di umano e complesso vi è in lui/lei, e obbedire senza esitazioni a fisionomie, condotte e posture predeterminate e “circoscritte”. “Professionalità” significa rifiutare la complessità a favore della parzialità. La professionalità è un’operazione di anatomia sociale. Il taglio, la recisione sono le sue cifre elettive. L’individuo professionale deve ritagliare tra le mille condotte possibili solo quella adatta al proprio ruolo. Deve imparare a parlare, pensare e agire come esige il ruolo. Al limite, essere disposto ad annullarsi completamente in esso, diventarne prigioniero senza condizioni. E più si annulla in esso, più sarà giudicato “professionale”.

Il nemico diabolico di questo processo è il pensiero critico. Se l’individuo professionale assume la fisionomia del ruolo senza mai metterla in discussione sarà accolto da sorrisi e pacche sulle spalle. Se mette in discussione il ruolo sarà giudicato “poco professionale”, verrà considerato un individuo di dubbia competenza, strano, forse inaffidabile. Ma ciò che gli altri chiamano “strano” è in realtà tutto ciò che eccede il ruolo professionale e che talvolta coincide senz’altro con l’essere “umani”.

Essere professionali configura, così, una forma estrema di adesione al ruolo e di rimozione della propria umanità. Il caso limite è quello del sicario che assolve professionalmente alla propria occupazione sine ira et studio, uccidendo persone sconosciute senza alcun coinvolgimento emotivo perché totalmente assorbito dal proprio ruolo. Da un punto di vista professionale, il suo operato è impeccabile; dal punto di vista morale è crudele, terribile, malvagio. Per i cultori della professionalità, il suo è un lavoro fatto bene. Per tutti gli altri, il suo agire è esecrabile.

In questo senso, il ruolo è anche un rifugio per individui insicuri. Aderendo agli imperativi imposti dal ruolo, celandosi dietro le apparenze solide della parte che recita, l’insicuro acquisisce sicurezza. Molte persone mediocri riescono a sentirsi rispettate solo quando interpretano fin negli aspetti più minuti un ruolo. La conformità totale e acritica a quanto esso prescrive è lo scudo dietro il quale si trincerano. Una volta fuori dal ruolo professionale, lasciate a se stesse, si sentono smarrite e incapaci di tutto e rivelano la loro mediocrità assoluta come nello stereotipo del temuto direttore d’azienda, inflessibilmente devoto al proprio ruolo, che rivela la propria nullità umana in famiglia.

La professionalità può, dunque, essere un’opportunità per essere celebrato e lodato. Naturalmente, affinché ciò avvenga, la conformità rispetto alle aspettative legate al ruolo deve essere totale o quasi. Più ci si conforma, più si è approvati. Ma più ci si conforma, più si perde in umanità.

Ecco, così, che una delle qualità più ambite della nostra “società della prestazione” rivela tutta la propria fragilità, rivelandosi una sorta di cortocircuito sociale: essere professionale vuol dire spesso limitare la propria umanità entro un alveo prestabilito. In taluni casi, poi, la professionalità è un paravento per persone insicure e mediocri, forse insicure e mediocri per non aver fatto altro che ricoprire ruoli nella loro esistenza. La professionalità, insomma, rappresenta uno dei grandi paradossi della modernità, che celebra questo attributo nel momento stesso in cui prescrive la perdita, seppure parziale, della qualità che fa di noi quello che siamo: la complessità umana.

Fonte:

Parsons, T., 1996, Il sistema sociale, Edizioni di Comunità, Milano.

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Le funzioni rassicuranti della burocrazia

Di solito le persone lamentano gli aspetti più negativi della burocrazia: la sua macchinosità esasperante, la sua lentezza cronofagica (in quanto sembra divorare il nostro tempo), la sua autoreferenzialità onanistica, la sua ridondanza sfacciata, la disumanità che talvolta sembra debordare nel sadismo più gretto, la sua apparente inutilità. Si potrebbe continuare.

C’è però chi, come il filosofo Emiliano Bazzanella, osserva che la burocrazia ha anche una finalità rassicurante, consistente nel fare da filtro nei confronti della realtà e dei suoi rischi, nell’attutire i duri colpi dell’esistenza nuda e cruda. La burocrazia, in altre parole, può immunizzare dai dardi impietosi della realtà.

Per comprendere in che senso la burocrazia può svolgere una finalità rassicurante, si consideri il seguente brano, tratto dall’interessante libro di Bazzanella Critica della ragion burocratica (Mimesis, Milano, 2022):

Se pensiamo ad esempio a un evento infausto per quanto naturale come la perdita di una persona cara, ci rendiamo conto che l’apparato burocratico che riguarda le pratiche funerarie, crea una bolla protettiva che tende a differire e distrarre il dolore, conto che l’apparato burocratico che riguarda le pratiche funerarie, crea una bolla protettiva che tende a differire e distrarre il dolore, veicolando l’attenzione su quelli che di primo acchito possiamo definire inutili formalismi. Il densissimo tessuto di passaggi burocratici che si innestano sull’evento della morte nelle società moderne, costituisce una forma di edulcorazione del lutto, una sorta di  metamorfosi rituale finalizzata a differire e smorzare la lacerazione  emotiva causata da un fatto in sé necessario e inemendabile: attraverso i meccanismi distraenti dell’eccesso documentale il dolore viene rinviato in vista di una sua cronicizzazione attutita per cui si tende a prorogare il lutto in forma depotenziata e meno impattante dal punto di vista psicologico (Bazzanella, E., 2022, p. 14).

Tale effetto non intenzionale della burocrazia è riassumibile nel concetto di “distrazione”: distogliendo la nostra attenzione dal dolore e dagli imperativi più crudi della vita, la burocrazia agisce da cuscinetto mitigante, consentendoci di attraversare in maniera edulcorata fasi penose della vita. Se siamo troppo occupati a riempire moduli  e sbrigare pratiche eccessive, ci lasciamo distrarre dalla voce nuda della sofferenza generata dal lutto, che ci giungerà con toni più smorzati.

Gli eccessi burocratici sortiscono anche un effetto di “distanziamento”, ossia di allontanamento nel tempo e nello spazio di un evento angoscioso con il risultato che questa presa di distanza produce effetti ansiolitici.

Un esempio […] dei meccanismi di differimento e del distanziamento dei dispositivi di sicurezza cementati dall’azione burocratica, riguarda il funzionamento della giustizia italiana. […]. Una delle tecniche della giustizia italiana consiste proprio nello “spostamento in là” o nello “distanziamento” di ogni decisione e di ogni presa di posizione in merito alla verità di una serie di fatti: se l’incontro con l’Altro è in sé sempre problematico, allora sembra indubbiamente più saggio il differimento potenzialmente sine die di quest’incontro; se vige il meccanismo della duplicazione dei controlli e delle doppie registrazioni, l’escamotage migliore è quello difensivista dell’inazione oppure del rendere complesso ogni atto giuridico in vista di un suo progressivo rallentamento (Bazzanella, 2022, pp. 133-134).

Infine, un altro meccanismo di riduzione dell’angoscia da parte della burocrazia è riassumibile nel concetto di “cronicizzazione”, in virtù del quale «il fattore ansiogeno, preventivamente alleviato dalle due precedenti azioni immunitarie, si trasforma in qualcosa con cui si può reciprocamente convivere, senza cedere alle lusinghe del conflitto o della dipendenza» (Bazzanella, 2022, p. 15).

Rendere cronico un evento induce i meccanismi rassicuranti della stabilità e della consuetudine. La produzione continua di documenti dilaziona ed estende nel tempo la funzione burocratica che, facendo perdere tempo, rasserena nel senso che induce a pensare che comunque qualcosa si sta facendo per risolvere un problema tramite, appunto, la cronica produzione di documenti.

La burocrazia assolve non intenzionalmente funzioni di rassicurazione e di riduzione dell’ansia quotidiana, avvolgendoci quotidianamente nelle sue irresistibili volute normative. Imponendoci i suoi noiosi procedimenti, le sue “inutili” pratiche, ci costringe a “perdere tempo”, ma inevitabilmente il tempo perso è un tempo che dedicheremmo al confronto diretto e spietato con le sorgenti più rischiose della sofferenza umana. In ultima analisi, come il calcio, la musica, l’arte e le droghe, la burocrazia ci permette di allontanare la coscienza dall’angoscia primordiale della morte, spingendoci nel mondo della lamentatio che, nel mentre irrita, attenua il pensiero del male.

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La scandalosa forchetta

Oggi, cucchiaio, forchetta e coltello sono considerati l’abbiccì della civiltà. A tavola, è considerato ordinario servirsi di questi strumenti per portare il cibo alla bocca. Chi non lo fa è considerato, rozzo, incivile, strano, se non addirittura matto. Eppure, la forchetta, ad esempio, si è diffusa come strumento “normale” solo in tempi relativamente recenti ed è stata considerata “strana” per molto tempo a testimonianza del fatto che ciò che diamo per scontato e naturale oggi può non esserlo stato nel passato.

Non si sa con precisione quando la forchetta abbia fatto la sua comparsa sul nostro desco. Ciò che si sa è che romani e greci antichi adoperavano di solito esclusivamente le mani. Varie attestazioni iconografiche ne segnalano la presenza già nell’XI secolo, anche se bisognerà attendere ancora qualche secolo perché si diffonda in tutti gli strati sociali. Il fatto curioso è che, per diverso tempo, la forchetta fu condannata dalla Chiesa quale esempio di immoralità.

Così scrive la storica (di recente scomparsa) Chiara Frugoni in un suo interessante libro:

Gli uomini di Chiesa ritennero la forchetta strumento di mollezza e perversione diabolica. San Pier Damiani (1007-1072) non ebbe alcuna pietà per la povera principessa bizantina Teodora, andata sposa al doge Domenico Selvo, che usava la forchetta e si circondava di raffinatezze cercando di ingentilire le maniere dell’Occidente: «Non toccava le pietanze con le mani ma si faceva tagliare il cibo in piccolissimi pezzi dagli eunuchi. Poi li assaggiava appena portandoli alla bocca con forchette d’oro a due rebbi»; la terribile morte della giovane donna, le cui carni andarono lentamente in gangrena è vista come una giusta punizione divina per un così grande peccato (Frugoni, C., 2001, Medioevo sul naso, Laterza, Roma-Bari, p. 114).

Per molto tempo la forchetta fu considerata segno di eccessiva stravaganza e il suo uso si generalizzò di pari passo con il diffondersi della pasta. Le ubbie religiose si opposero all’avanzare  della forchetta fino al XVIII secolo, quando finalmente, seppure con gradualità, lo strumento non fu più giudicato un mezzo di perdizione dell’anima.

La “stranezza” della forchetta risalta anche dal seguente brano:

Un viaggiatore francese, dopo aver visitato nel 1610 Venezia e le corti di Ferrara, Firenze e Roma, notava «un’altra usanza che non c’è in alcun altro paese da me visitato nei miei viaggi, né credo sia praticata da alcun altra nazione della cristianità, ma solo dall’Italia. Gli italiani usano sempre la  forchetta e se qualcuno, chiunque egli sia, che siede a tavola in compagnia di altri, sconsideratamente tocca con le dita il pezzo di carne da cui tutti  tagliano, dà offesa alla compagnia, perché egli trasgredisce le norme della buona educazione». Catturato dall’esempio, tornato in Inghilterra, egli fu  oggetto di ironie: «Fui motteggiato per questo frequente uso della forchetta da un mio amico, dotto gentiluomo, il quale nel suo allegro umore  non esitò a chiamarmi furcifer, perché usavo la forchetta a tavola».

Lo stupore dell’amico inglese, come di Thomas, derivava dal fatto che frapporre un mezzo meccanico fra le mani e il cibo era un obbligo della  donna mestruata, affinché costei evitasse il contatto contaminante col cibo. Perciò l’attrice Isabella Andreini, invitata ad un banchetto dai Gonzaga, si  ritenne offesa quando le venne presentata una forchetta. Sullo stesso metro  ragionava Luigi XIV, quando cacciò il pronipote duca di Borgogna, per aver  osato tirar fuori da un astuccio la propria forchetta. Avrebbe dato cattivo esempio ai bambini! (Bertelli, S., 1994, Corsari del tempo. Quando il cinema inventa la storia, Ponte alle Grazie, Firenze, p. 325).

Sembra bizzarro a noi contemporanei che l’uso della forchetta sia stato considerato per lungo tempo indice di cattiva educazione e di inciviltà. Diamo per scontato che la civiltà sia qualcosa di unico, che in ogni tempo sia stata la medesima in Occidente, senza riflettere che anche la civiltà e la cultura sono prodotti sociali, che variano nel tempo e nello spazio.

La lezione che possiamo trarre dalla storia della forchetta è che il comportamento rozzo di oggi può essere la condotta civile di domani, così come un gesto civile di oggi potrebbe essere considerato grossolano o condannabile tra qualche tempo. Lo dimostra, ad esempio, la storia dello scappellotto educativo, un tempo gesto consigliato a tutti i genitori per “raddrizzare” i figli riottosi all’obbedienza e oggi considerato un atto passibile di condanna penale.

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Siamo tutti idioti

“Persona di scarsa intelligenza, stupido, deficiente” così il vocabolario della Treccani definisce il significato del termine idiota, comunicando un’accezione che è nota a tutti coloro che parlano la lingua italiana. Sembrerebbe che non ci sia null’altro da aggiungere se non che, nel corso del tempo, a partire dagli antichi greci, la parola è andata assumendo svariati significati, spesso sorprendenti. Ripercorriamoli brevemente con l’aiuto di un breve saggio di Cesare Colletta, contenuto in un testo molto interessante dedicato alla stupidità e all’idiozia.

Progressivamente, il termine “idiota” ha assunto i seguenti significati, che talvolta sono coesistiti:

  1. Privato cittadino, in opposizione allo Stato. In questa accezione si trova in Tucidide e Platone.
  2. Qualcuno che non ricopre cariche pubbliche, che non fa politica. Erodoto e Tucidide offrono vari esempi di questa accezione.
  3. Suddito, non appartenente alla famiglia reale. Ancora Erodoto.
  4. Soldato semplice (Senofonte).
  5. Laico in opposizione a sacerdote (Bibbia greca).
  6. Uomo qualunque, uomo comune (Platone).
  7. Chi sia sprovvisto di un sapere professionale, profano (Tucidide, Senofonte).
  8. Dilettante (Senofonte).
  9. Ignorante (Menandro, Sesto Empirico).
  10. Infine, l’accezione medico-psichiatrica di “persona affetta da idiozia” ovvero da uno stato di grave insufficienza mentale si trova nel 1690 nel dizionario di un tale Furetiére. Da qui discende, in sostanza, l’accezione odierna più usata di persona stupida

Se volessimo aderire ai significati etimologici del termine “idiota”, potremmo ben dire che siamo tutti idioti nel senso che siamo tutti privati cittadini. Inoltre, pochi di noi si dedicano alla vita pubblica o appartengono a una famiglia reale. Alcuni di noi sono stati soldati semplici. Siamo sicuramente uomini qualunque, almeno la maggior parte di noi e, anche se possediamo conoscenze professionali, siamo sicuramente profani riguardo ad altre discipline. Infine, pochi di noi sono idioti nel senso medico ottocentesco (affetti da un grave disturbo mentale).

Insomma, in base alla storia del termine, siamo tutti idioti per qualche verso, che ne siamo consapevoli o no. Ma è probabile che, se pure ci attenessimo alla sola accezione odierna, troveremmo facilmente almeno una persona ai cui occhi appariamo come dei perfetti idioti.

Non c’è scampo. L’idiozia è una etichetta sempre incombente su di noi.

Fonte

Frescura, V., Papparo, C. F. (a cura di), 2000, Stupidi e idioti. Undici variazioni sul tema, Luca Sossella Editore, Roma, pp. 155-161.

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La criminalità in Italia tra realtà e percezione

Qual è l’andamento della criminalità in Italia negli ultimi anni? I delitti sono in aumento o in diminuzione? Ci sentiamo più o meno sicuri oggi rispetto a qualche anno fa? Quali reati preoccupano di più?

Ha cercato di rispondere a queste e ad altre domande, l’indagine “La criminalità: tra realtà e percezione”, curata dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale della Polizia Criminale e l’Eurispes sulla base dei dati elaborati dal Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale nel periodo 2007-2022.

Secondo l’indagine, il «totale generale dei delitti ha mostrato un andamento altalenante sino al 2013, per poi evidenziare una costante flessione dal 2014 al 2020. Nel 2021 e nel 2022 si ha, invece, una risalita: in particolare, nel 2022, i delitti commessi registrati sono 2.183.045, con un incremento rispetto al 2021 del 3,8%». Gli stessi curatori fanno però notare la particolarità degli anni 2020 e 2021, caratterizzati da limitazioni al movimento delle persone, che hanno inciso moltissimo anche sui “movimenti” dei criminali. È evidente che i confronti assumono un aspetto diverso secondo l’anno di confronto. Se questo viene effettuato con il 2019, molti delitti che, rispetto al 2021, appaiono in aumento, sono registrati invece in diminuzione.

È un dato interessante questo, che dimostra che con le statistiche si può (almeno in parte) barare, evidenziando questo o quel confronto secondo le convenienze del caso. Insomma, la statistica come forma di retorica pubblica.

Citando, comunque, i dati della ricerca emerge che, rispetto al 2021 «l’aumento dei reati nel 2022 ha riguardato, i furti (+17,3%), le estorsioni (+14,4%), le rapine (+14,2%), le violenze sessuali (+10,9%), la ricettazione (+7,4%), i danneggiamenti (+2,9%) e le lesioni dolose (+1,4%); in diminuzione invece lo sfruttamento della prostituzione e della pornografia minorile (-24,7%), l’usura (-15,8%), il contrabbando (-10,4%), gli incendi (-3%) e i danneggiamenti seguiti da incendio (-2,3%)».

Prendendo in considerazione, invece, il quadriennio 2019-2022, i dati assumono un andamento più irregolare in quanto gli atti persecutori e i maltrattamenti contro familiari e conviventi mostrano un decremento nel 2022. Le violenze sessuali, invece, a fronte di un decremento nel 2020 rispetto all’anno precedente, mostrano un andamento incrementale nel biennio successivo.

Nell’ultimo anno sono stati registrati 314 omicidi, con 124 vittime donne (+4% rispetto al 2021), di cui 102 uccise in àmbito familiare/affettivo; di queste, 60 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Una diminuzione, invece, si rileva per i delitti commessi in ambito familiare/affettivo, che da 148 scendono a 139 (-6%).
Il totale degli omicidi commessi passa da 304 nel 2021 a 314 nel 2022 (+3%); in generale, comunque, si registra negli anni un calo di questo reato, che erano il doppio nel 2007 (632).

Nonostante vari incrementi, appare, dunque, problematico parlare di un imbarbarimento della vita sociale. Lo testimonia anche l’accresciuto senso di sicurezza degli intervistati dell’indagine: «Il 61,5% dei cittadini afferma di vivere in una città/località che giudica sicura. Rispetto ai risultati ottenuti alla stessa domanda nella rilevazione effettuata dall’Eurispes nel 2019, aumenta la quota di quanti si sentono in sicurezza nel luogo di residenza (erano il 47,5%)».

Insomma, perfino il senso di sicurezza, dopo decenni di insicurezza conclamata e quasi auspicata, sembra recuperare nell’opinione degli italiani. Potrebbe forse dipendere da una sorta di effetto pandemia ossia dalla sensazione di essere “scampati” al virus e quindi di sentirsi più sicuri? Non lo sappiamo. Addirittura, poi, un’ampia fetta del campione intervistato (47%) si dice convinto che i reati sono commessi in egual misura da italiani e stranieri! Piccole, grandi novità rispetto a indagini precedenti da cui traspariva che gli italiani si sentivano in gran parte insicuri a causa degli stranieri!

Il vento sta forse cambiando?

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