Perché si dorme in chiesa (ancora)?

Ho già dedicato due post (vedi qui e qui) al piccolo sermone di Jonathan Swift (1667-1745), intitolato A Sermon upon sleeping in church, pubblicato postumo nel 1776, un curioso testo, solo apparentemente ozioso, dedicato a uno dei “misteri” più inquietanti della fede: perché le persone si addormentano in chiesa? E quali ne sono le cause?

Rimandando ai due post citati per alcune considerazioni generali, offro qui nella mia personale traduzione il testo dello scrittore irlandese, facendolo precedere da una breve introduzione che, unendo teologia e psicologia, mostra come le spiegazioni proposte da Swift sulla narcosi indotta dalle omelie trovino fondamento in alcune teorie della psicologia contemporanea sull’utilizzo delle risorse attentive e sui fenomeni del mind wandering e del decoupling.

La psicologia contemporanea ci insegna che noia e sonnolenza sono consustanziali alla preghiera e alla predicazione, che richiedono una energia più intensa per superare queste comprensibilissime reazioni umane alla monotonia e alla ripetitività. Il problema è che non tutti sono in grado di dedicarsi intensamente a una maggiore devozione; circostanza che rende la fruizione della predica una chimera religiosa difficilmente attingibile, se non un’impresa sovraumana.

E non basta nemmeno l’esortazione di Giovanni Paolo II, il quale, ad esempio, considerava la corona del rosario, pratica che, come è noto, pare favorire stati di coscienza appannata, «come espressione di quell’amore che non si stanca di tornare alla persona amata con effusioni che, pur simili nella manifestazione, sono sempre nuove per il sentimento che le pervade» (Rosarium Virginis Mariae). Nella realtà, sono tante le persone che abbandonano le loro relazioni amorose proprio perché trovano noiose e ripetitive le effusioni sempre simili dei loro partner.

Insomma, un testo estremamente attuale, ora leggibile gratuitamente e integralmente nella mia traduzione.

 

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La sociologia della santità di Antonio Fogazzaro

Ne Il santo di Antonio Fogazzaro, pubblicato nel 1905 e messo all’indice dalla Chiesa cattolica pochi mesi dopo, Pietro Maironi, alias Benedetto, il protagonista del romanzo, è indotto da una improvvisa vocazione a condurre una vita monacale e profondamente religiosa, da cui è interamente assorbito. La pienezza del suo sentire religioso spinge il popolo a considerarlo un santo, in grado di guarire gli infermi e operare miracoli.

La fama di santo gli attira, però, antipatie, invidie e diffamazioni, in seguito alle quali viene convocato in Questura, dove un “funzionario pubblico”, con argomenti pretestuosi, tenta di persuaderlo ad abbandonare Roma, città in cui Maironi vive, per trovare casa all’estero o, comunque, lontano dalla capitale. Maironi si oppone alla decisione che altri, anche per motivi politici, oltre che di ordine pubblico, hanno preso per lui, ma, il funzionario ribatte proponendo una interessante teoria protosociologica sull’origine della santità:

La santità non è mai reale, è sempre, più o meno, una idealizzazione che lo specchio fa dell’immagine. Se c’è una santità è quella dello specchio, è quella della gente che crede ai Santi. Io non ci credo. […] Io non sono credente ma però apprezzo il principio religioso come elemento di ordine pubblico [perciò] il Governo non può avere piacere che si faccia un processo scandaloso a qualcuno che presso il popolo passa per santo: un processo che potrebbe poi anche provocare dei disordini (Fogazzaro, A., 1970, Il Santo, Mondadori, Milano, p. 266).

Per il funzionario governativo, la santità è una creazione sociale, il prodotto dei bisogni e delle necessità umanissime di una comunità che vive in un determinato luogo e in un determinato tempo. Donne e uomini che vivono in realtà contadine, sopraffatti da problemi concretissimi di alimentazione, abitazione, salute fisica e mentale, tendono a creare un santo taumaturgo, in grado di risolvere i problemi che la medicina ufficiale non è in grado di risolvere e a offrire opportunità di riscatto da un contesto percepito come infido, precario e pericoloso. Il santo è una idealizzazione, un precipitato di qualità indispensabili per superare i problemi dell’esistenza quotidiana; è uno specchio che riflette l’immagine di una comunità alienata, vinta dalla vita, schiacciata dal corso della storia.

La creazione del santo sortisce effetti di acquietamento sociale, di ordine pubblico in quanto i membri della comunità, affascinati dall’azione putativamente taumaturgica dell’uomo, si astengono dal riunire le proprie energie per contrastare l’ordine sociale responsabile della loro condizione di minorità. Il santo, in altre parole, come oppio sociale, come narcotico politico ed economico, come ipnotico dell’anima ribelle.

Non so se Antonio Fogazzaro fosse a conoscenza delle teorie sociologiche che, negli anni della composizione delle sue opere principali, tentavano di spiegare in termini di conflitto di classe i contrasti tra i membri delle società dell’epoca. Le osservazioni del suo funzionario governativo lasciano intravedere, però, una visione sociologica del mondo in cui il sacro è un prodotto eminente della società e il santo una risposta ai suoi bisogni più profondi.

Alla fine del romanzo, Pietro Maironi, alias Benedetto, muore sopraffatto dalla cattiveria degli uomini, forse inconsapevole dell’ambigua potenza della santità a lui attribuita. Ma, si potrebbe dire, morto un santo se ne fa un altro. Non a caso la storia del XX secolo è segnata dall’emergere di tanti santi “reali” – san Pio, santa Faustina Kowalska, santa Teresa di Calcutta ecc. – a cui il popolo cattolico si è rivolto per tentare di trovare un senso e una soluzione alle proprie vicende personali, minacciate da forze sociali avvertite come potenti e invincibili con mezzi umani.

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Amare e lamentarsi di ciò che amiamo

È proprio vero! Amiamo lamentarci di ciò che accade nel mondo salvo non riuscire a fare a meno proprio di ciò di cui ci lamentiamo. Si tratta di uno dei paradossi della modernità su cui rifletteva già qualche anno fa Zygmunt Bauman in un brano del suo Le sfide dell’etica, (Feltrinelli, Milano, 2018, pp. 209-210) che è opportuno riportare nella sua lunghezza.

Noi tutti ci lamentiamo per l’inquinamento e per il disagio dovuti alla privatizzazione del “problema dei trasporti” attuata nella forma del commercio di automobili, ma la maggior parte di noi si opporrebbe decisamente all’abolizione delle auto private, mentre un’alta percentuale si guadagna da vivere, direttamente o indirettamente, con attività legate al prospero mercato automobilistico. Di conseguenza, ogni rallentamento nella produzione di automobili viene per lo più interpretato come una catastrofe nazionale. Tutti ci opponiamo all’accumulo dei rifiuti tossici, ma gran parte di noi cerca di sedare le proprie paure esigendo che tali rifiuti siano scaricati in casa altrui (purché lontana).

La dichiarazione di guerra contro il colesterolo fa scendere in piazza gli allevatori di mucche da latte in difesa del mercato del latte e dei latticini. La crescente consapevolezza popolare dei pericoli derivanti dal fumo significa il fallimento non delle compagnie del tabacco (che possono facilmente diversificare il loro capitale) ma dei milioni di coltivatori poveri per i quali la tabacchicoltura è la sola fonte di sostentamento. Vogliamo macchine, e macchine più veloci, per raggiungere le foreste alpine, solo per scoprire alla fine del viaggio che non esistono più, che sono state distrutte dai gas di scarico. Possiamo anche nutrire una profonda diffidenza nei confronti di un sistema industriale che, nel suo insieme, genera pericoli in continuazione, ma ogni suo frammento troverà facilmente in manager e impiegati del settore i suoi difensori più strenui e fidati, pronti a combattere per prolungarne l’esistenza.

Rabbrividiamo al pensiero degli stermini di massa, ma molto meno al pensiero degli strumenti che li rendono possibili; i proprietari, i lavoratori, i negozianti e i parlamentari locali non esitano a unire le loro forze per proteggere le fabbriche di armi, i cantieri per la costruzione di navi da guerra o le industrie produttrici di sostanze chimiche potenzialmente letali (a condizione che, naturalmente, queste stesse fabbriche siano “sicure dal punto vista ambientale” per gli elettori dei parlamentari). Nuove ordinazioni di armi vengono accolte con entusiasmo, il loro annullamento è causa di proteste. Una volta declinato l’“impero del male”, con i suoi immensi istituti militari di ricerca e di sviluppo per la progettazione di armi “nuove e migliori”, non avendo più ragioni per liberarci periodicamente delle nostre scorte di armi inutilizzate in nome dell’autentico o presunto “progresso” del nemico, vengono attivamente cercati – con il nostro sostegno – nuovi bersagli, allo scopo di sgomberare magazzini che traboccano di armi e fare spazio a nuove e continue forniture.

Mentre noi sogniamo un mondo più sicuro e più pacifico, i mercanti d’armi, sovvenzionati o no dai governi, cercano d’ingraziarsi dittatori piccoli e grandi, promuovendo la loro merce non come armi, ma come strumento del potere e del riscatto dei poveri. Infine, siamo molto preoccupati per quella che chiamiamo “esplosione demografica”, ma tutti – com’è naturale, giusto e ovvio – accogliamo entusiasticamente come “progresso” i passi avanti fatti nel prolungamento della vita, individuale e, ovviamente, ciascuno di noi è desideroso di trarre un vantaggio personale dalle sue conquiste. Ma non si tratta semplicemente del fatto che ciò che è veleno per alcuni è cibo per altri; ancora più sconcertante per il fronte unito antirischio è che sostanze che sono velenose se assunte in dosi massicce, a piccole dosi si dimostrino il cibo quotidiano di cui la maggior parte delle persone non può, o non vuole, fare a meno.

Dalle osservazioni di Bauman ricaviamo una prospettiva che ho definito “enantiodromica” sulla modernità. Dai fenomeni comunemente ritenuti negativi (inquinamento, fumo, automobili, sovrappopolazione, armi) derivano conseguenze anche positive (maggiore mobilità, crescita delle industrie, maggiore densità e varietà delle relazioni) che rendono estremamente difficile assumere un atteggiamento di netta condanna nei confronti dei suddetti fenomeni.

Ho scritto qualche anno fa un libro sul tema dell’ambiguità enantiodromica in criminologia dove osservavo che, ad esempio, tra le conseguenze del rapimento di un bambino può esserci il ridestarsi della solidarietà all’interno di una comunità; la prostituzione può salvaguardare, secondo alcuni autori, la sacralità del matrimonio; il gioco d’azzardo può servire a risanare le casse dello stato; la criminalità organizzata “dà lavoro” a masse di diseredati; la corruzione è abominevole, ma indubbiamente “lubrifica” alcuni procedimenti amministrativi ecc.

Si tratta di fenomeni di cui non vorremmo mai sentire parlare, ma con cui non possiamo non confrontarci. Eppure, sono abitualmente trascurati dalla criminologia tradizionale, forse perché imbarazzanti, spiazzanti, dissacranti. Per una analisi approfondita della prospettiva enantiodromica, rimando ovviamente al mio Verso una criminologia enantiodromica, Aracne Editrice, 2015.

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L’ordine come giudizio sul disordine

Ogni forma di vita si basa su una precisa concezione di ordine e disordine. Ordiniamo il mondo in un certo modo e, per differenza, tutto ciò che non rientra nella nostra idea di ordine viene avvertito come disordine.

Il problema è che non esiste una unica forma di ordine, ma molteplici. Un altro problema è che, a dispetto di ciò, tendiamo a pensare il mondo come se la forma di ordine che gli imponiamo fosse unica e assoluta. Di qui, il fastidio, il disgusto, il livore, la rabbia nei confronti di coloro che mettono in discussione il nostro concetto di ordine, contrapponendogliene un’altra.

Così, chi non si adegua al nostro ordine morale viene definito “immorale”. Chi non si adegua ai nostri standard sessuali e di genere viene percepito come “pervertito”, “promiscuo”, “frocio” ecc. Chi non si conforma ai nostri criteri economici viene definito “ingenuo”, “disonesto”, incapace di giudizi equilibrati (quando, in realtà, non fa altro che obbedire a diversi criteri di economia). Chi non corrisponde ai nostri paradigmi emotivi diventa automaticamente “irrazionale”, “eccessivamente emotivo”, “volubile”, “imprevedibile” ecc.

Insomma, imporre un ordine al mondo significa contemporaneamente disegnare una mappa del disordine, luogo in cui amiamo confinare tutti quelli che non intendono o non sono in grado di condividere i nostri stessi standard morali, sessuali, economici, politici ecc.

È così, in fondo, che nascono razzismo, classismo, ageismo e altri ismi contemporanei: perché qualcuno ritiene che la propria forma di ordine sia l’unica possibile o accettabile e chiunque non vi si conformi ha, in sé, qualcosa di negativo, che, talvolta, lo rende poco umano.

Tutto ciò traspare anche in vari ambiti della vita quotidiana. I “vecchi” accusano i “giovani” di ascoltare “rumore” perché la loro idea di musica è diversa dalla loro. La cucina dei migranti è accusata di “puzzare” perché non si conferma agli standard culinari dei “locali”. Lo “zingaro” è accusato di “pigrizia” perché non si conferma agli ideali produttivistici del borghese. La donna che non corrisponde a determinati criteri di modestia e pudore viene definita “sfacciata”, “impudica”. E così via.

Ogni forma di ordine contiene in sé un’idea prescrittiva e ideale del mondo, che conduce inevitabilmente al giudizio negativo nei confronti di chi non la condivide. È difficile rinunciarvi, assumere una prospettiva relativistica, prospettica nei confronti del mondo. È più facile e cognitivamente più agevole parlare male, accusare e/o respingere chi si difforma dalla nostra idea di ordine. Perfino quando l’idea di ordine dell’altro potrebbe risultare più vantaggiosa della nostra perché più inclusiva.

L’idea di ordine è come un’abitudine. Una volta adottata è difficile sbarazzarsene e sostituirla con un’altra. Così come è difficile evitare di giudicare in base a quell’idea. Così, diventiamo tutti caricaturali casalinghe impazzite, ossessionate dalle pattine. E ci chiudiamo nella nostra idea assolutizzandola come un dogma.

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Il villaggio turistico come istituzione totale

La storia del villaggio turistico, come quella di altre formule turistiche di successo, vanta ormai una sua mitologia, non disgiunta da un elemento di casualità. Il suo ideatore è, di solito, identificato nel commerciante belga Gérard Blitz, il quale ebbe l’intuizione di creare un campo di tende in Toscana nel quale offrire una vacanza sportiva all’aria aperta. Questa idea, apprezzata dai turisti, diede origine al Club Méditerranée, di cui Blitz era socio fondatore, che aprì il suo primo villaggio il 5 Giugno 1950 nella baia di Alcudia, sull’isola di Maiorca, nelle Baleari (Garibaldi, 2006; Gulotta, 2033).

A partire dagli anni Sessanta, il villaggio turistico conosce un enorme successo, che continua ancora oggi, e che vede impegnati operatori celebri come Valtur, il Ventaglio, Club Vacanze, Robinson. Progressivamente, alle tende e alle capanne si aggiungono i bungalow, ma anche appartamenti e piccole ville. Le attività proposte diventano sempre più variegate e su misura, il personale sempre più specializzato, l’offerta sempre più ricca e articolata, i luoghi geografici sempre più disparati.

Da un punto di vista sociologico, il villaggio turistico si configura come uno «spazio sociale creato ad hoc» (Gulotta, 2003, p. 218) che sorge in una sorta di zona extraterritoriale e che tende a proporsi come “socialmente autarchico”, anche se ovviamente ognuno è libero di uscire dai suoi confini. In esso, la vita ordinaria subisce una sospensione: il turista dimentica gli affanni dell’esistenza quotidiana, abbandona momentaneamente il lavoro e, forte della formula all inclusive (che permette di fruire di tutta una serie di servizi già compresi nel prezzo pagato in anticipo) non deve preoccuparsi di nulla dal momento che di tutto – dal cibo al divertimento, dall’alloggio alle attività da svolgere nel corso delle giornate – si occupano altri.

Nel villaggio la vita è più semplice: la socializzazione è facile, anche grazie alla temporanea abolizione delle differenze di ceto, classe e professione, spesso rappresentata da una sorta di imposizione del “tu” a ogni rapporto interno al villaggio. Al tempo stesso, il villaggio crea un contesto protetto e rilassato, tendenzialmente passivizzante, in cui persino il denaro viene revocato e rimpiazzato da braccialetti, palline o gettoni. I normali rapporti economici sono momentaneamente, seppure illusoriamente, accantonati. Le competenze e abilità ordinarie non hanno più alcuna importanza: è più importante saper ballare e cantare che redigere un atto notarile o riparare un tubo che perde.

Sono abolite anche le gerarchie d’età. Sono gli animatori, di solito giovani, a farla da padrone. La loro volontà si impone a tutti – giovani e vecchi – e nessuno può reclamare diritti speciali in virtù della propria anzianità. Al tempo stesso, è tendenzialmente bandita ogni timidezza e l’introversione cede il passo all’estroversione, anche grazie alle pressioni in tal senso di animatori e ospiti del villaggio.

Ciò, tuttavia, non significa che non vi siano regole. Al contrario, la vita del villaggio è densamente scandita da regole esplicite e implicite di ogni tipo; regole talmente avvolgenti e imperative che la loro trasgressione viene avvertita come un tradimento della vita comunitaria. Dalle prime ore del mattino alle ultime della notte, il tempo del turista è fatto rientrare in un preciso calendario di attività a cui si è liberi di aderire, ma che condizionano le esistenze dei villeggianti, anche dei più riottosi e timidi, in maniera significativa. La vita del villaggio è dominata da una maniacale ritualità giornaliera che, forse, troveremmo insopportabile nella vita quotidiana, ma che, in ambito turistico, viene vissuta come un gioioso e passivizzante trasporto verso il divertimento. Esistono anche riti di passaggio, come il cocktail di benvenuto e lo spettacolo del fine settimana, a testimonianza del fatto che la dimensione sociale del villaggio è totalmente distinta da quella della vita ordinaria e richiede precise modalità di ingresso e di uscita. Esistono, infine, regole di condotta e precisi divieti che disciplinano in modo rigoroso la vita di villaggio, configurando forme di devianza comportamentale particolarmente odiose.

Non significa nemmeno che non vi siano gerarchie. La struttura del villaggio è dominata da una precisa organizzazione che vede al vertice il capovillaggio, sotto cui ci sono i capi del servizio sportivo e dell’animazione, sotto cui troviamo gli animatori, gli istruttori, i bagnini ecc. Di questa gerarchia, però, il turista ha una consapevolezza solo parziale. Il mondo in cui vive per una, due o più settimane è un mondo magico in cui tutto ciò che viene desiderato si materializza improvvisamente, quasi dietro non vi fossero lavoro, fatica e, appunto, organizzazione.

I motivi del successo sono anche motivi di critica per alcuni. La dimensione compensativa ed evasiva del villaggio serve a consentire all’ospite di “ricaricare le batterie” in vista del suo rientro nella società alienata e si rivela, in ultima analisi, funzionale a quest’ultima. L’abbandono di status e ruoli ordinari è solo un’illusione che ribadisce la loro forza. L’assoluta apoliticità e spensieratezza della vita di villaggio serve a sopprimere ogni anelito alla critica e al cambiamento dell’esistente, sostituiti dal desiderio infantile di divertirsi. In definitiva, il villaggio sortisce un effetto narcotizzante sulle coscienze. Ogni velleità di pensiero critico trova in esso il proprio nirvana. Nessuno mette in discussione norme e istituzioni della propria società a cui ci si riconsegna “ricaricati”, pronti a subire ulteriori dosi di alienazione. Inoltre, dietro la giocosa informalità apparente della vita di villaggio si celano i medesimi ritmi lavorativi che sottendono la vita quotidiana dei villeggianti, di cui, però, questi ultimi colgono solo il prodotto finale, obliando forme e strutture del lavoro organizzativo che sostiene quel prodotto.

Per quanto possa sembrare bizzarro, paradossale o straniante, il villaggio turistico presenta una organizzazione sociale che offre caratteristiche affini alle istituzioni totali descritte dal sociologo canadese Erving Goffman (1922-1982) nel suo celebre Asylums (1961).

Qui un mio breve saggio su questa insospettabile affinità che getta una luce inquietante su una delle soluzioni turistiche più appetite da chi è in cerca di svago.

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Calcio e rosario

Quello che vedete in foto accanto al produttore cinematografico e presidente del Napoli Aurelio De Laurentis è Natan Bernardo de Souza, o semplicemente Natan, difensore brasiliano di 22 anni, le cui prestazioni sono state recentemente acquisite dalla equipe partenopea. Il calciatore proviene dalla squadra brasiliana del Bragantino.

Noterete, altresì, che il calciatore brasiliano esibisce un rosario intorno alla mano sinistra.

Calcio e religione. Calcio e superstizioni. Calcio e preghiere. Sono alcuni dei temi di cui mi sono occupato nel mio libro Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso, pubblicato dall’editore Meltemi nel 2020.

Con lo stesso editore pubblicherò il prossimo anno un libro dedicato al rosario, visto non come strumento di preghiera, ma come mezzo di interpretazione sociologica e psicologica della realtà attuale e passata.

Si tratta di un libro unico in cui saranno esaminati genesi, segreti e funzioni sociali e psicologiche di una “arma spirituale” oggi considerata da molti un cascame religioso o, al più, un ornamento estetico, ma che, per secoli (e ancora oggi, in realtà), è stata ritenuta uno strumento di comunicazione privilegiata con il divino, nonché un mezzo straordinario di contenimento esorcistico del maligno.

L’assoluta modernità di quella che è definita la più importante devozione extraliturgica cattolica è evidente da questa fotografia. Perché un calciatore di una importante squadra del campionato italiano di calcio sente l’obbligo di mostrare i grani del suo rosario a tutti? Quali sono le funzioni sociali di questo strumento nella contemporaneità? E se, nel tempo, fosse servito per scopi non detti e insospettabili?

Scopriremo tutto ciò nei prossimi mesi.

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La superstizione nel baseball

In Aloni, stregoni e superstizioni, ho raccontato, fra l’altro, dell’importanza delle superstizioni nella vita quotidiana e di come esse assolvano varie funzioni psicologiche e sociali.

Le superstizioni sono ovviamente diffuse anche in tanti sport di squadra, come nel baseball. Lo testimonia un brano di un celebre romanzo dello scrittore americano E. L. Doctorow, Ragtime (2015, Mondadori, Milano), in cui viene descritto ciò che accade nel corso di un incontro tra la squadra di Boston e i Giants di New York.

Dalla parte dei Boston, il ragazzo che raccoglieva le mazze e le riportava alle panchine era, a una più attenta osservazione, un nano, anche lui con l’uniforme della squadra, ma in proporzioni ridotte. Emetteva le sue grida e le sue invettive con voce da soprano. La maggior parte dei giocatori prima della battuta lo toccava sulla testa, un gesto ch’egli sembrava incoraggiare, cosicché Papà si rese conto che era una sorta di rituale scaramanzia. Dalla parte dei Giants non c’era nessun nano, ma uno strano individuo ossuto, la cui uniforme gli pendeva addosso come su un attaccapanni; era fortemente strabico e sembrava imitare il gioco in una sorta di trasognata pantomima, battendo palle immaginarie più o meno all’unisono con le battute vere. Aveva l’aria di un mentecatto. Roteava il braccio come le pale di un mulino a vento. Papà cominciò a spostare la sua attenzione su questo disgraziato personaggio, evidentemente una sorta di portafortuna della squadra, come il nano per i Boston. Durante ì momenti stanchi della partita il pubblico lo apostrofava a gran voce e applaudiva alle sue buffonate. Effettivamente nel programma era indicato come la mascotte della squadra. Il suo nome era Charles Victor Faust. Era chiaramente un povero minorato che s’immaginava di essere anche lui uno dei giocatori, ed era tenuto in squadra per loro divertimento (pp. 188-189).

In questo episodio, la superstizione investe alcuni componenti delle due squadre, ritenuti, a causa della loro diversità fisica e mentale, “portatori” di fortuna. Del resto, toccare la gobba per chiamare a sé la buona sorte è un comportamento diffuso anche nella cultura europea. Doctorow mostra, tuttavia, che lo status di portafortuna non è eterno e può sempre essere revocato.

Non sarà privo d’interesse ricordare che questo povero diavolo, Charles Victor Faust, fu effettivamente fatto giocare in squadra, in una partita verso la fine di quella stessa stagione, quando ormai i Giants avevano vinto lo scudetto e non avevano più da preoccuparsi. Per un momento la sua illusione di essere un grande giocatore di una squadra d’importanza nazionale divenne realtà. Subito dopo, però, venne a noia ai giocatori e l’allenatore McGraw non lo considerò più una mascotte. L’uniforme gli venne confiscata e fu buttato fuori senza tante cerimonie. Venne internato in un manicomio, dove morì pochi mesi dopo (p. 190).

La vicenda di Charles Victor Faust mostra come la medesima disabilità può ricevere attribuzioni tanto positive quanto negative, secondo le circostanze e la mutevolezza delle opinioni. Un ritardo mentale o un’alterazione fisica possono essere ritenute misure apotropaiche in un caso, e situazioni di cui sbarazzarsi, quando sopravviene la noia, in un altro.

E così il destino dei disabili rimane in balia delle alterne convinzioni umane, sempre disposte, comunque, a marginalizzare l’altro, quando questi esibisce forme fisiche o mentali distinte da quelle dei più.

Per un approfondito esame del ruolo delle superstizioni nella vita quotidiana, rimando ovviamente al mio Aloni, stregoni e superstizioni.

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Montaigne e gli animali di ieri e di oggi

I Turchi hanno offerte e ospedali per le bestie. I Romani avevano a spese pubbliche l’allevamento delle oche, per la vigilanza delle quali il loro Campidoglio era stato salvato; gli Ateniesi ordinarono che le mule e i muli che erano stati adoperati per la costruzione del tempio nominato Hecatompedon fossero liberi, e che fossero lasciati pascolare ovunque senza divieto.

Gli Agrigentini avevano come usanza pubblica di seppellire con un rito le bestie che avevano avute care, come i cavalli di qualche raro merito, i cani e gli uccelli utili, oppure che avevano servito di passatempo ai loro figli. E la magnificenza che era loro solita in tutte le altre cose, si manifestava anche singolarmente nella sontuosità e nel numero dei monumenti innalzati a tal fine, i quali hanno durato come ornamento parecchi secoli dopo.

Gli Egiziani seppellivano i lupi, gli orsi, i coccodrilli, i cani e i gatti in luoghi sacri, imbalsamavano i loro corpi e portavano il lutto alla loro morte.

Cimone diede onorevole sepoltura alle giumente con cui aveva guadagnato per tre volte il premio della corsa nei giochi Olimpici. Il vecchio Santippo fece seppellire il suo cane su un promontorio, sulla costa del mare che poi ne ha conservato il nome. E Plutarco, dice egli, si faceva scrupolo di vendere e mandare al macello per lieve guadagno un bue che l’aveva servito molto tempo (“Della crudeltà” in Montaigne, M. de, 1986, Saggi, vol. 2, Mondadori, Milano, p. 115).

Così il filosofo Michel de Montaigne, nel saggio Della crudeltà, ricordava l’amore degli antichi per gli animali, esaltati e celebrati più di molti umani, non dissimilmente da come accade anche oggi, epoca in cui gli animali sono oggetto di una antropomorfizzazione spinta che ci conduce a proiettare su di essi tutto ciò che di umano possiamo immaginare, spesso in maniera talmente eccessiva da apparire caricaturale.

Così, non è difficile imbattersi nella donna di mezza età che invita il proprio cane a salire “da nonno”, nemmeno fosse un figlio umano. O l’uomo talmente invaghito del proprio chihuahua da chiedergli in maniera invereconda: “Sono o non solo il tuo amore?”.

C’è però una differenza tra l’amore per gli animali dei contemporanei e quello degli antichi citati da Montaigne. Questi ultimi esaltavano le loro creature solo in determinate circostanze, Quando, ad esempio, riconoscevano (proiettivamente) loro meriti o utilità particolari, li associavano (superstiziosamente) a imprese, fatti, luoghi determinati, vi attribuivano significati sacri in coerenza con la loro religione.

Oggi, l’amore per gli animali si è “democratizzato” e prescinde totalmente da meriti, utilità, sacralità. Si adora il pet in quanto tale in virtù di una ideologia diffusa, superstiziosamente votata alla loro trasformazione in surrogati degli umani. Forse perché stabilire relazioni con i propri simili è eccessivamente oneroso.

E allora meglio chiedere amore incondizionato al proprio pesciolino rosso piuttosto che a un uomo o una donna. Meglio proiettare sul quadrupede i propri desideri che dialogare con il bipede che potrebbe smentirli o negarli. Meglio costruire un universo creaturale a nostra immagine che confrontarci con chi non scodinzola a ogni nostra parola.  

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“Mangia tutto che i bambini muoiono di fame in Africa”

Ognuno di noi è stato ammonito in questo modo durante l’infanzia. Non gradivamo quella roba verde che si chiama verdura? Odiavamo legumi, pesce e frutta? La frittata della zia proprio non ci andava giù? “Mangia che i bambini muoiono di fame in Africa (o in qualche altro luogo abbastanza remoto da suscitare riverenza, angoscia e sospensione del dubbio)”. Qualcuno di noi è cresciuto con l’incubo dei bambini poveri afflitti da inedia perenne. Tutti quei nostri coetanei sparsi nel mondo in attesa che mandassimo giù quel boccone indesiderato! Una conferma, se volete, dell’idea infantile che il mondo gira intorno a noi: basta compiere un gesto ed esso avrà ripercussioni su tutto il pianeta. Così, se sorrideremo sempre, mamma e papà non divorzieranno. Se saremo generosi con l’amichetto e gli doneremo il nostro orsetto preferito, quello crescerà sano e generoso a sua volta e l’umanità intera ci ringrazierà. Se accetteremo il regalo rivoltante della vecchia nonna sdentata, questa vivrà fino a cento anni.

Il problema è che questa celebre strategia retorica adoperata dai genitori per invogliare i figli piccoli a mangiare – ormai divenuta un luogo comune dell’arsenale verbale degli adulti disperati – è sbagliata da almeno tre punti di vista.

Innanzitutto, è sbagliata dal punto di vista pedagogico, in quanto induce un senso di colpa per una situazione – la fame nel mondo, ma anche le scelte iperconsumistiche delle società dell’abbondanza che si trovano in Occidente – di cui il bambino/la bambina non è affatto responsabile. Non è ingoiando quel boccone rivoltante che i bambini del continente nero – come veniva chiamata l’Africa con un termine politicamente scorretto – risolveranno improvvisamente il problema dei propri bisogni primari.

I genitori sanno che la loro argomentazione fa acqua da tutte le parti, ma si aggrappano al valore patetico, emotivo, sconvolgente della formula. Cosa sbagliatissima pedagogicamente perché i bambini che rispondono positivamente a questi appelli imparano a cedere alle retoriche emotive più che alla voce della ragione. E si sa che demagoghi e populisti amano rivolgersi ai loro proseliti usando argomentazioni che fanno leva sul pathos: “Votate per me e nessun migrante stuprerà più le vostre donne o ruberà i vostri posti di lavoro!”. Come se violenza sulle donne e disoccupazione dipendessero dalle migrazioni planetarie.

Un altro errore consiste nel fatto che chi usa spesso questa formula motiva il bambino/la bambina con “ricompense” estrinseche piuttosto che intrinseche. Invocare regolarmente i bambini che muoiono nel mondo piuttosto che le proprietà degli alimenti che si mangiano fa sì che il bambino/la bambina si abitui ad agire in base a motivazioni estrinseche (studiare per fare piacere a mamma e papà; lavorare solo per lo stipendio a fine mese ecc.) e agire in base a motivazioni estrinseche vuol dire non diventare mai pienamente adulto. È vero che i bambini piccoli sono più motivati estrinsecamente che intrinsecamente, ma l’uso sistematico di questo tipo di leve motivazionali, anche in età successive, può avere conseguenze evolutive non auspicabili.

L’ammonimento “Mangia tutto quello che hai nel piatto…” è sbagliato anche dal punto di vista logico. L’errore logico si chiama “errore della conclusione sbagliata” e si può riassumere nella formula: l’azione non porta alla soluzione del problema. Come accennato in precedenza, mangiare tutto quello che si ha nel piatto non risolve il problema della fame in Africa. Detto altrimenti: per quale motivo se il bambino/la bambina non mangia, i bambini africani dovrebbero morire? Un bambino/una bambina sveglio/sveglia potrebbe perfino ribattere con un “Ma se ad avere fame sono i bambini africani, perché non inviti a pranzo loro?” oppure far notare che anche il contrario potrebbe essere vero: “Mandiamo quello che dovrei mangiare in Africa dove tanti bambini muoiono di fame”. Ma anche questa soluzione non risolverebbe ovviamente il problema della fame in Africa.

Da un punto di visto logico, questo errore presenta molte affinità con la cosiddetta Ignoratio elenchi o fallacia della conclusione irrilevante, un tipo di fallacia che consiste nel presentare un argomento a sostegno di una tesi completamente fuori traccia. Si tratta di una fallacia molto diffusa, ampiamente utilizzata da pubblicitari, politici, persuasori in genere. In ambito religioso, ad esempio, un cristiano convinto di dimostrare che gli insegnamenti della sua religione sono veri, può rimarcarne gli effetti benefici su molte persone, creando un’atmosfera positiva a sostegno della sua argomentazione. Naturalmente, il fatto che la religione cristiana sia di conforto e sollievo per molti non dimostra che sia logicamente vera. Eppure, questa strategia risulta efficace in molte situazioni.

“Mangia tutto quello che hai nel piatto che i bambini muoiono di fame in Africa” è un disastro pedagogico, un cortocircuito logico, una meschina strategia retorica. In altre parole, un luogo comune da evitare assolutamente.  

Riferimenti:

Heinrichs, J., 2023, Mi hai convinto. Come Aristotele, Homer  Simpson e Barack Obama possono insegnarti ad avere (sempre) ragione, Mondadori, Milano, pp. 223-224.

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Le parole pronunciate male nel tennis

Ci sono alcune parole inglesi, ormai entrate in pianta stabile  nel nostro lessico sportivo, la cui pronuncia sbagliamo sistematicamente. Il perché è presto detto. Nonostante anni e anni di insegnamento scolastico, i nostri errori fonetici scaturiscono dal fatto che questi termini sono pronunciati SEMPRE in maniera errata da giornalisti, commentatori, opinionisti ed esperti televisivi.

Detto altrimenti, a furia di sentirli pronunciare in maniera sbagliata da personaggi autorevoli e simpatici, la cui presenza nelle nostre vite è praticamente quotidiana, tendiamo a pensare che la pronuncia corretta di questi termini debba essere quella che sentiamo ogni giorno in televisione, salvo poi ricrederci amaramente quando andiamo all’estero o parliamo con un madre lingua. 

Pensiamo a Wimbledon. La pronuncia corretta è “wimbəldən”, ma noi italiani tendiamo a “leggerla come si scrive”.

Oppure, pensiamo a tie-break o a break-point. In entrambi i casi, break andrebbe pronunciato “breik”, ma noi italiani preferiamo “brek”, come ci “insegnano” ore e ore di cronache televisive. Nel primo caso, poi, curiosamente, pronunciamo correttamente la prima parte della parola (“tai”) e male la seconda. Misteri del mondo degli errori!

Un’ultima considerazione sul termine assist, non propriamente tennistico, ma molto diffuso nel calcio. Da noi è inevitabile e irresistibile collocare l’accento sulla prima vocale, mentre andrebbe collocato sulla seconda: “ə’sist”. Ma provate a pronunciarlo correttamente davanti ad altri italiani! La prima reazione sarà di perplessità, seguita da un atteggiamento di blanda riprovazione o di ridicolo.

Una volta che un errore di pronuncia diventa abituale e consacrato dal tempo, è difficile considerarlo tale e chi cerca di correggerlo appare pretenzioso e fatuo. Il problema però è che quando viaggiamo all’estero, le bruttissime figure non si contano, alimentando l’idea che l’inglese, gli italiani, proprio non lo conoscono

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