Stupidità per ignoranza

Sono in auto. Il semaforo è verde, ma l’autovettura che mi precede non dà segno di muoversi. Il tempo passa. Le auto dietro di me cominciano a suonare ferocemente il clacson. “E dai muoviti”, sbraito all’indirizzo del conducente. “Datti una mossa. Non vedi che è verde?”. I clacson impazzano. “Stupido, perché non ti muovi?”. Volano termini offensivi. L’idiozia del primo conducente è ormai acclarata.

Dopo poco, lo vedo uscire dall’abitacolo. Si avvicina a qualcosa che è davanti al cofano della sua auto. Ci vuole ancora un po’ per capire che cosa sta succedendo. Una giovane di nemmeno trent’anni giace al suolo svenuta. Capito il motivo dell’immobilità, gli altri conducenti smettono di suonare il clacson. Ai loro occhi, il primo autista non è più uno stupido, ma un benefattore che ha prestato aiuto a una donna in difficoltà. Risolto il problema, il traffico riprende a scorrere e tutti, chiusi nei loro abitacoli, commentano l’accaduto.

Ci capita spesso di tacciare di stupidità un comportamento che non comprendiamo. Avviene quotidianamente. Una condotta che non risponde alle nostre aspettative e che non appare avere una immediata spiegazione sensata stimola in noi accuse di stupidità. Gli automobilisti ne offrono continuamente testimonianza. Ma lo stesso accade in altre dimensioni della vita quotidiana. Così, accusiamo di stupidità il concorrente del telequiz per non aver saputo rispondere a una domanda per noi facilissima, dimenticando che fattori quali l’emozione, la pressione del tempo che scorre, un’amnesia momentanea potrebbero essere responsabili della “clamorosa” défaillance. Ci irritiamo per lo “stupido” che cammina goffamente davanti a noi, intralciando il nostro passo, salvo poi renderci conto che la goffaggine è dovuta alla sua cecità.

La stupidità è una funzione della situazione e delle categorie cognitive attraverso cui la interpretiamo. Contrariamente a quanto sostengono i dizionari, essa non si esaurisce in manifestazioni di scarsa intelligenza, lentezza e fatica nell’apprendere, ottusità di mente. Stupido è talvolta semplicemente chi compie un’azione che non comprendiamo. La stessa azione, una volta compresa, non ci appare più stupida, ma dotata di senso e viene inserita in una delle numerose categorie cognitive che, per noi, danno significato a ciò che accade. Un automobilista che non preme l’acceleratore al verde del semaforo è uno stupido. A meno che fattori che dapprima non riusciamo a individuare convertano il suo status in altro e conferiscano una diversa legittimazione alla sua condotta. 

Afferma provocatoriamente Ricardo Moreno Castillo, nel suo Breve trattato sulla stupidità umana (Graphe.it Edizioni, Perugia): «È dunque appurato che, inevitabilmente, tutti nasciamo ignoranti, e per colpa della nostra ignoranza compiamo più stupidaggini di quelle che sarebbe necessario» (p. 15). Accusare qualcuno di stupidità a causa della nostra ignoranza è, dunque, a sua volta, stupido?

Naturalmente, come afferma lo scrittore Robert Musil nel suo Discorso sulla stupidità (Shakespeare and Kafka, Firenze, 1993), «occasionalmente noi tutti siamo stupidi; e dobbiamo occasionalmente anche agire da ciechi o semiciechi, altrimenti il mondo si fermerebbe; e se qualcuno volesse dedurre dai pericoli della stupidità la regola: “Astieniti dal giudizio e dalla decisione in tutto ciò di cui non comprendi abbastanza”, resteremmo inerti» (p. 54). Siamo tutti condannati, in sostanza, a compiere azioni stupide per ignoranza, non potendo fare a meno, nella vita di tutti i giorni, di giudicare e prendere decisioni.

Sono tante le ragioni per cui attribuiamo l’etichetta di “stupido” a chi compare sul palcoscenico della nostra vita. Per una visione completa avremmo bisogno di una prospettiva eminentemente sociologica. Sono attualmente impegnato nella scrittura di un articolo di sociologia della stupidità che spero possa conferire una nuova prospettiva a un tema solitamente appannaggio del giudizio del moralista.

La stupidità è molto più sapida di quanto sospettiamo.

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Pareidolie libresche

La foto che vedete ha fatto il giro del mondo e ritrae un oggetto di pietra ritrovato di recente in Australia. L’oggetto, che si trovava a 12 metri di profondità, somiglia a un libro, un libro pietrificato, e per qualcuno si tratta senz’altro di un libro “mineralizzato” risalente nientedimeno che a 330 milioni di anni fa, quando i libri non esistevano nemmeno.

Testimonianza di una civiltà perduta in grado di leggere e scrivere milioni di anni prima che ciò fosse possibile in Occidente? Sopravvivenza di una società aliena, un tempo diffusa sul nostro pianeta e oggi scomparsa?

Le teorie fantarcheologiche in materia si sprecano e l’Institute of Alternative History and Archaeology – un nome che è già un programma! – specula da tempo sul significato di questa scoperta, chiamando in causa scienziati come Jane Balme, della University of Western Australia, la quale, però, non ha mai parlato né scritto niente su questo “rinvenimento epocale”, semplicemente perché non ha nulla di epocale.

Si tratta, infatti, di un semplice effetto pareidolico che cospirazionisti, sostenitori delle pseudoscienze e cultori dei cosiddetti OOPArt, (Out Of Place Artifact, in inglese), ossia oggetti rinvenuti in contesti anacronistici, sbandierano a sostegno delle proprie teorie folli, ma che rimandano a realtà molto più prosaiche e sensate.

In questo caso, già smascherato da BUTAC, una semplice roccia a forma di libro ha alimentato fervidissime fantasie pseudoarcheologiche prive di fondamento; ennesima testimonianza che la pareidolia – nient’altro che un’illusione della percezione – si alimenta di credenze, aspettative, convinzioni umane che conferiscono senso all’insensato, significato a ciò che significato non ha. È sufficiente dunque una somiglianza iconica per scatenare deliri e speculazioni di ogni tipo.

Sulla pareidolia, come sempre, rimando al mio Bizzarre illusioni. Lo strano mondo della pareidolia e i suoi segreti (Mimesis Edizioni, Milano, 2012).

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Galton e la saggezza delle folle

È possibile che le folle posseggano un’anima superiore che rende i loro giudizi giusti e affidabili? Il giudizio di una collettività di persone è davvero migliore di quello espresso da un singolo, per quanto esperto? Soprattutto, la democrazia – in quanto governo della moltitudine – è davvero la migliore forma di governo possibile?

Stando a quanto scriveva nel 1907 Francis Galton (1822-1911), cugino di Darwin, uomo poliedrico e plurisapiente, la risposta a tutte queste domande non può che essere positiva.

Se prendete, infatti, un gruppo di persone presenti a una fiera e le invitate a esprimere una valutazione accurata del peso di un bue, si vedrà che la media aritmetica – o meglio la mediana – delle loro opinioni si avvicina moltissimo alla soluzione corretta, fatto stupefacente e decisamente degno di approfondimento. Certo, metodologicamente ci sarebbe molto da ridire. L’esperimento di Galton ha una valenza più aneddotica che scientifica, seppure nel testo compaiano numeri e statistiche. Né lo stesso Galton riprovò a effettuarlo in ambienti diversi con persone diverse. Che sia poi una conferma della validità della democrazia, è tutto da vedere.

Varie obiezioni potrebbero, infatti, essere avanzate.

Galton non prende minimamente in conto il fatto che il giudizio delle masse possa essere profondamente condizionato da variabili psicologiche, sociologiche, politiche, antropologiche. Non considera i meccanismi persuasivi che agiscono sulle folle ad opera dei gruppi dei potenti e di quelli dei pari. Oggi, peraltro dovremmo considerare il ruolo dei mass media, dei social e delle miriadi di interazioni in cui siamo coinvolti quotidianamente. Insomma, la vox populi sembra distante dalla vox dei.

Eppure, oggi non manca chi, come il giornalista del «New Yorker» James Surowiecki è pronto a giurare che Galton avesse ragione. A patto, però, che siano rispettati i seguenti criteri di validità:

  • Diversità di opinione: ogni individuo deve avere un’opinione diversa dagli altri.
  • Indipendenza: le opinioni degli individui non devono venire influenzate da quelle altrui
  • Decentralizzazione: nessuno deve essere in grado di pilotare l’opinione degli altri dall’alto
  • Aggregazione: le opinioni devono poter essere aggregate in modo da ottenere un risultato finale.

Come è evidente, si tratta di criteri che difficilmente possono essere soddisfatti.

È estremamente problematico che ogni persona abbia un’opinione diversa da quella dei suoi simili, così come è praticamente impossibile professare un’opinione che non dipenda o sia condizionata da varie fonti di informazione (e persuasione). Nella realtà, le persone si influenzano a vicenda e pensano in maniera simile invece che sviluppare le proprie opinioni indipendentemente. Allo stesso modo, il peso delle opinioni altrui non sarà mai uguale a quello di ogni singolo individuo. Ci sarà sempre qualcuno le cui idee valgono più di quelle degli altri per competenza (esperti), esperienza, status sociale, carisma (opinion leaders). Infine, le opinioni non possono essere sempre aggregate in maniera perfetta.

Insomma, la teoria della “saggezza della folla” avrebbe validità solo in un empireo irraggiungibile. La folla non è necessariamente più intelligente della persona più intelligente che ne fa parte. Del resto, a bilanciare le idee di Galton, erano già interventi pensatori come Freud e Le Bon, profondamente convinti che le masse siano stupide e che lasciarsi coinvolgere dal pensiero delle folle significhi abdicare alla propria intelligenza.

La stessa democrazia produce spesso giudizi di compromesso, opinioni che si vengono incontro, che stanno in mezzo. Ma, anche in questo caso, non è sempre vero che in medio stat virtus. Tanto è vero che, ogni volta che viene emanata una legge, qualcuno rimane sempre scontento e la giudica dannosa, mentre anche i suoi più accesi fautori credono che “potrebbe essere migliorata”.

C’è poi il rischio che l’aggregazione matematica delle decisioni dei singoli membri della folla possa defluire in una sorta di mente o anima collettiva, un concetto più prossimo alla metafisica che alla scienza.

Leggete, allora, il breve testo di Galton, Vox Populi, nella mia traduzione, come una curiosità di un uomo curioso. Se non altro, potrebbe stimolare la vostra emulazione.

Riferimenti

Galton, F., 1907,  “Vox Populi”, Nature, n. 1949, vol. 75, pp. 450-451.

Surowiecki, J., 2005, La saggezza della folla, Fusi Orari, Roma.

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“Si stava meglio quando si stava peggio”

 “Ah, i bei tempi andati!”. “O tempora, o mores!”.

Una vena nostalgica pulsante percorre tanti discorsi quotidiani di tanti fra noi, no necessariamente vecchi. Un tempo, le persone erano più oneste, gentili e socievoli; i ragazzi più rispettosi; i sentimenti e gli amici più sinceri; le ragazze acqua e sapone; la vita meno complicata; il cibo più genuino; le relazioni più spontanee; i rapporti di vicinato erano una cosa seria; la musica era più armonica; il calcio era più autentico. C’era meno criminalità e i crimini erano meno efferati di oggi; tante malattie e disagi psichici non esistevano; trovare lavoro era più facile; ci si divertiva con poco e ai bambini era sufficiente giocare a nascondino o a campana.

Mentre oggi… oggi non si capisce niente. Non puoi più fidarti di nessuno. Si pensa solo ai fatti propri. Nessuno ha più rispetto per gli altri e i “giovani di oggi” sono viziati, irresponsabili, strafottenti e violenti. Con i vicini solo buongiorno e buonasera. Le ragazze si truccano troppo e hanno troppe pretese, mentre i ragazzi pensano solo al fisico e al profilo Instagram. I rapporti sociali sono assediati da mille diavolerie tecnologiche. La musica è inascoltabile, solo rumore; il calcio è diventato un fatto commerciale e i calciatori mercenari che cambiano bandiera dalla sera alla mattina. La criminalità dilaga come non mai e i criminali sono diventati più crudeli e spietati. Ci si ammala per patologie che prima nessuno sentiva nemmeno nominare, mentre i bambini crescono troppo in fretta, esposti come sono a tonnellate di sesso e violenza nei media.

La litania dei “bei tempi andati” non è un fatto nuovo. Il mito dell’età dell’oro – un’epoca primigenia in cui avrebbero regnato letizia, tranquillità e abbondanza – è vecchio quanto l’umanità. Nel poema di Esiodo, Le opere e i giorni, risalente all’VIII secolo a. C., si descrive un tempo in cui gli uomini vivevano come dei e «passavano la vita con l’animo sgombro da angosce, lontani, fuori dalle fatiche e dalla miseria; né la misera vecchiaia incombeva su loro […] tutte le cose belle essi avevano». Esiodo contrapponeva l’età dell’oro a quella del ferro, in cui viveva egli stesso, dove la vita era fatica e dolore (Polidoro, 2019, p. 299). Molto simile è il mito dell’Arcadia, luogo idealizzato dove uomini e natura vivono in perfetta armonia. L’Arcadia divenne una delle ambientazioni preferite della poesia bucolica, interpretata da Teocrito e Virgilio. Quest’ultimo, ad esempio, teorizza nella quarta egloga delle sue Bucoliche l’arrivo di un misterioso puer che avrebbe preannunciato il ritorno dell’età dell’oro.

Anche l’Eden biblico rappresenta una versione dell’età dell’oro. Occorre, infatti, l’intervento del serpente tentatore per far bandire Adamo ed Eva dalle sue delizie e far loro scoprire dolore e sofferenza. Nei versi finali dell’Apocalisse (22, 5), viene prefigurato un mondo edenico in cui: “Non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli”.

Miti dell’età dell’oro sono presenti anche in altre culture. Ad esempio, nelle antiche culture babilonese, sumera e indiana.

Come ricorda Lucrezia Ercoli, «la sindrome dei bei tempi andati è sempre esistita, ma la collocazione temporale di quest’età dorata è sempre diversa. Un’unica costante: è sempre lontana dal presente in cui viene nostalgicamente nominata» (Ercoli, 2022, p. 16). Tale costanza lascia intendere che essa sia un archetipo culturale, un mito, la cui continua rievocazione serve, da un lato, a denunciare le nefandezze del mondo imperfetto in cui viviamo, dall’altro a contrapporvi un passato remoto verso cui tendere idealmente e che ci rassicura raccontandoci che l’umanità può essere felice. Questa epoca primigenia in cui tutti sono gioiosi e in armonia con il mondo rappresenta, dunque, un artificio narrativo che ci aiuta a vivere. Come dice ancora Ercoli: «Siamo noi che costruiamo i tratti dell’epoca d’oro, siamo noi che cerchiamo in un passato vagheggiato e lontano – che non abbiamo vissuto in prima persona e che possiamo ricostruire a posteriori selezionando i suoi profili migliori – i tratti della vera felicità che non rintracciamo nel presente» (Ercoli, 2022, p. 17).

In effetti, se ci spogliamo di ogni nostalgia e ci affidiamo alle statistiche, quello dei “bei tempi andati” appare pateticamente per quello che è: un mito privo di fondamento. Come mostra, ad esempio, dati alla mano, Steven Pinker ne Il declino della violenza (2013), la nostra può essere considerata l’epoca più pacifica della storia dell’umanità. Basti pensare che il tasso di omicidi nell’Europa medievale era oltre trenta volte quello attuale, mentre schiavitù, torture, pene orribili, anche per motivi che oggi considereremmo banali, sono state per millenni pratica quotidiana. Condotte quali stalking, molestie, violenze sessuali, “abuso di mezzi di correzione” non erano considerate riprovevoli o, comunque, erano trattate con estrema indulgenza. La mortalità infantile, una volta diffusissima, è oggi estremamente contenuta. Lo stesso vale per il lavoro minorile, la violenza predatoria, le rivalse dettate dalla vendetta, la letalità delle malattie. Per non parlare del cibo, delle comunicazioni, dell’educazione dei figli, dell’istruzione, della qualità della vita, del rapporto tra culture diverse: tutto è molto migliorato rispetto a cento anni fa.

Ma allora, se le cose stanno così, perché tante persone credono che un tempo il mondo fosse migliore?

Una risposta sociologica la fornisce ancora Lucrezia Ercoli: «La nostalgia, da sempre, è il sentimento dominante della crisi. Quando il presente è opaco e il futuro incerto, quando i cambiamenti sono troppo repentini e disorientanti, ci si tuffa nella geometria invariabile della nostalgia che ricostruisce un passato idilliaco, seleziona i ricordi positivi, sfronda i dettagli dolorosi, rinsalda le radici sicure. Un rassicurante ritorno indietro è l’unico modo per esorcizzare il terrore del mutamento» (Ercoli, 2022, p. 7).

La rievocazione di un passato roseo, più immaginario che reale, serve, dunque, a proteggere noi stessi dalle incertezze di un presente incerto e imprevedibile: una sorta di meccanismo di difesa funzionale al nostro equilibrio sociale e mentale. Non a caso periodi di crisi sociale, quali quelli che si hanno in occasione di rivoluzioni, guerre, pandemie, favoriscono le più straordinarie regressioni passatiste.

Un effetto di tali regressioni è che la comunità può reinventarsi «attraverso la produzione di un forte attaccamento nostalgico per un passato idealizzato» (Ercoli, 2022, p. 42), un passato che presenta caratteristiche che lo fanno somigliare al futuro: «plasmabile, duttile modificabile, adattabile e reinterpretabile. Il passato è pieno di buchi che la nostalgia si affretta a completare a posteriori. La nostalgia unisce i puntini dando vita a figurazioni di volta in volta diverse, a seconda delle necessità» (Ercoli, 2022, p. 43).

Un altro effetto è l’emergere di movimenti politici conservatori che si propongono di ridare smalto alla comunità attraverso il recupero di motivi idealizzati, seppure anacronistici, del passato, assunti a verità cui aderire in maniera irriflessa. Tali movimenti hanno spesso un carattere revanscista, nazionalista e populista e possono attrarre un seguito anche numeroso di seguaci, abbacinati dall’idea di ritornare a un passato glorioso privo di complessità storica e rimesso a lucido alla bisogna.

Si spiegano così fatti apparentemente bizzarri come la forte nostalgia sperimentata in Cina per i tempi della Rivoluzione culturale (1966-1976) quando professionisti e studenti furono costretti ad abbandonare le loro occupazioni per svolgere umilianti lavori manuali in comunità rurali; quando tutti erano obbligati a vestirsi allo stesso modo e a evitare ogni forma di individualismo; quando moltissime persone patirono la fame e morirono di stenti. Così come potrebbe parere strano provare nostalgia per gli anni della DDR, la Repubblica democratica tedesca (1945-1989), uno dei periodi più grigi della storia della Germania. Eppure oggi hanno mercato cioccolatini, detersivi e birra che richiamano quegli anni ed è stato coniato il termine Östalgie (dal tedesco Öst), per definire la nostalgia per la Germania Est  (Stracciari, Fioritti, 2023, pp. 97-98). Pensiamo infine al fascismo che, in Italia, trova ancora stimatori che pure non hanno mai vissuto quel periodo, né studiato ciò che avvenne nel Ventennio, ma che sono abbagliati dalla figura irreale e sublimata di un Mussolini che “fece grande l’Italia”.

In una società fondata sul consumo come quella in cui viviamo è inevitabile che certi ritorni al passato siano mercificati a favore di una prospera industria del vintage. Anzi, la nostra può essere definita l’epoca del vintage perché la costruzione idealizzata del passato «porta all’incasso oggetti e mode passate riproposti e adattati all’epoca contemporanea per soddisfare gli appetiti nostalgici dei consumatori. Ed è questo che ha spinto numerosissime aziende di svariati settori ad adottare quello che viene definito vintage marketing o retromarketing per le loro campagne pubblicitarie, ma anche per rilanciare prodotti, mode, costumi e così via» (Stracciari, Fioritti, 2023, p. 133).

Ecco quindi che molte pubblicità di prodotti, in particolare quelli alimentari, sfruttano l’attrazione che il passato ha su di noi ricordando luoghi, situazioni, ambientazioni dove la vita era – forse solo apparentemente – più semplice e meno logorante. Figure vintage, come le nonne e i nonni, imperano nei canali pubblicitari dedicati al cibo, fin dagli anni ’60: il gelato Coppa del nonno, i biscotti con la ricetta della nonnina. Le cose di una volta sono vendute come più genuine, più sane. Espressioni come «Buono come quello di una volta» sono al centro di molti spot pubblicitari di prodotti alimentari. Le immagini di «una volta» celebrano il mondo del passato come fosse più armonioso, semplice, genuino, dove è evidente il richiamo a un legame con la natura quasi bucolico, con spot pubblicitari e jingle diventati leggenda, dove imperversano mulini bianchi e armoniose fattorie (Stracciari, Fioritti, 2023, pp. 131-132).

L’incertezza della crisi può riguardare non solo la società, ma anche l’individuo. Alcune fasi della vita ci espongono più di altre alla reminiscenza consolatoria del passato. La transizione dall’adolescenza alla giovinezza, l’ingresso nella maturità, l’affacciarsi dell’invecchiamento, periodi della nostra esistenza in cui dobbiamo affrontare importanti adattamenti identitari, sono particolarmente forieri di nostalgie di vari tipi (Stracciari, Fioritti, 2023, p. 33).

Un esempio cristallino di questo fenomeno ci viene da alcune parole scritte da Milan Kundera nel suo L’insostenibile leggerezza dell’essere:

Mi commuovo sfogliando un libro su Hitler. Guardando le immagini della Germania degli anni Trenta mi si bagnano gli occhi di lacrime. Ho vissuto il nazismo, ho affrontato le atrocità della guerra, molti dei miei familiari sono stati deportati nei campi di concentramento. Eppure, anni dopo, piango guardando le foto in bianco e nero che raccontano l’ascesa del Führer.

Come giustificare questa assurda riconciliazione con Hitler, che sostituisce alla rabbia e al disprezzo un’autentica commozione? La risposta è semplice: mi ricordano la mia infanzia. In quelle foto d’epoca non ci sono documenti della Storia dei totalitarismi del Novecento, ci sono ricordi personali degli anni fulgenti della mia giovinezza perduta, un periodo della mia vita che non tornerà mai più (cit. in Ercoli, 2022, p. 39).

Nella vecchiaia, in particolare, il luogo comune dei “bei tempi andati” attecchisce per una serie di ragioni che la psicologia ha ben indagato.

L’avanzare dell’età induce un atteggiamento conservativo, un maggiore attaccamento alle abitudini, una resistenza al cambiamento, la propensione ad aggrapparsi al passato. Negli ultimi anni della vita, si rimpiange quello che si era un tempo, si ha nostalgia del modo disincantato, non corrotto dall’esperienza, con cui il mondo veniva visto. Si rimpiange la giovinezza propria e la giovinezza del mondo. La stessa giovinezza viene idealizzata e il passato dipinto come migliore di quanto non fosse.

Una conseguenza psicologica è che si estende la propria percezione a regola generale. Il vecchio che dice: “Oggi non si capisce più niente” dice, in realtà: “Io non capisco più niente”. L’anziano che ripete in continuazione: “Che tempi viviamo!” intende, in realtà: “Che tempi vivo!”. La psicologia diviene sociologia; il proprio disagio è promosso a disagio collettivo; i propri problemi si traducono in problemi dell’umanità. Il mondo senza valori di cui si lamenta il vecchio è, in realtà, un mondo che ha cambiato i propri valori.

Questi processi sono facilitati dall’azione di alcuni meccanismi psicosociali su cui conviene soffermarsi.

È stato dimostrato, ad esempio, che i ricordi negativi con il tempo vengono cancellati o molto attenuati, lasciando spazio a quelli positivi. Pertanto, più invecchiamo e più abbiamo la tendenza a vedere il passato come qualcosa di positivo, cosa che fa dire a chi è anziano: “Si stava meglio prima…”.

Questo fenomeno è soprannominato “ricordo roseo”, traduzione dell’inglese rosy retrospection, e agisce soprattutto nel caso di eventi moderatamente piacevoli. In una serie di esperimenti, gli psicologi Mitchell e Thompson (1994; 1997) esaminarono le aspettative delle persone, le esperienze reali e il successivo ricordo di eventi significativi della vita: un viaggio in Europa, una vacanza per il Giorno del Ringraziamento e un viaggio in bicicletta di tre settimane in California. I risultati degli studi supportarono l’ipotesi che le aspettative delle persone riguardo agli eventi personali sono più positive della loro esperienza reale durante l’evento stesso. Ma ciò è vero anche per il loro successivo ricordo. In altre parole, le persone tendono a ricordare gli eventi di cui hanno fatto esperienza più favorevolmente e positivamente di quanto ritenessero nel momento in cui accadevano.

Un altro meccanismo psicologico correlato al luogo comune dei “bei tempi andati” è il cosiddetto “effetto alone”, termine con il quale si indica il fenomeno per cui un’impressione generale positiva o una singola caratteristica di un individuo, fatto o evento domina la percezione che gli altri hanno di questi, anche per tratti diversi. Per il vecchio, ad esempio, quasi tutto ciò che appartiene al passato è di per sé valido perché associato alla gioventù, come se un gigantesco alone positivo lo avvolgesse. Al contrario, la contemporaneità è percepita in maniera infausta e perfino i suoi aspetti più positivi sono screditati a favore di quelli del mondo di ieri.

Alcuni studi hanno tentato di indagare le ragioni per cui molti di noi sono convinti del fatto che la moralità del nostro tempo sia in declino rispetto a quella dei tempi passati.

Ad esempio, in un lavoro di metanalisi pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature, Mastroianni e Gilbert (2023) partono dalla domanda: perché tante persone in epoche e luoghi diversissimi hanno creduto che la moralità del proprio tempo fosse in declino rispetto ai tempi passati? Secondo gli autori, la percezione del declino morale è un’illusione psicologica a cui soggiacciono gli individui per vari motivi. A dimostrazione di ciò, attingendo a una serie di dati provenienti da studi effettuati tra il 1949 e il 2019 in cui veniva chiesto agli intervistati se ritenessero che negli ultimi anni le persone fossero divenute meno oneste e morali, Mastroianni e Gilbert hanno mostrato che oltre l’80% degli intervistati, provenienti da almeno 60 nazioni diverse, hanno dichiarato di credere che la moralità sia in declino e hanno attribuito tale declino sia al calo della moralità degli individui con il passare degli anni sia al declino della moralità delle successive generazioni. Il dato interessante è che, in settanta anni di studi del genere, la maggior parte degli intervistati ha persistentemente dichiarato di credere in un declino della moralità collettiva. Se a questa convinzione corrispondesse una verità fattuale, dovremmo vivere in un mondo cinico e immorale da tempo, circostanza che suggerisce che la percezione del declino morale sia solo un’illusione. Inoltre, se si domanda agli intervistati quando ha avuto inizio il processo di degrado morale, molti lo collocano intorno al loro anno di nascita. Come si spiegano questi risultati così coerenti nel tempo e nello spazio?

Per gli autori, l’illusione del declino morale può essere spiegato da due noti fenomeni psicologici. In primo luogo, numerosi studi hanno evidenziato che gli esseri umani tendono a cercare e prestare attenzione alle informazioni negative che riguardano gli altri e i mass media assecondano questa tendenza dando sproporzionato risalto agli individui che non si comportano bene. Di conseguenza, si è esposti più a informazioni di segno negativo che a informazioni di segno positivo sulla moralità delle persone; esposizione che favorisce la percezione di una moralità in calo.

In secondo luogo, numerosi studi hanno evidenziato che, quando le persone richiamano alla mente eventi passati positivi e negativi, tendono a dimenticare o ad accantonare gli eventi negativi o ad averne un ricordo distorto, se non addirittura positivo. I ricordi di eventi negativi tendono, infine, a perdere il loro impatto emotivo. Di conseguenza, le persone tendono a credere che il passato sia un’epoca più morale di quanto non sia il presente. Insieme, i due fenomeni favoriscono l’illusione del declino morale: il primo meccanismo (definito in inglese, biased exposure effect) contribuisce a far percepire il presente come una sorta di terra desolata da un punto di vista morale, il secondo (definito in inglese biased memory effect) contribuisce a far percepire il passato come un paese delle meraviglie morali e quando chi vive in una terra desolata ricorda di aver vissuto nel paese delle meraviglie, tenderà naturalmente a concludere che il paesaggio è cambiato.

Una fallacia della memoria che opera a vantaggio del luogo comune secondo cui “Si stava meglio quando si stava peggio” è il cosiddetto fading affect bias o “bias dell’emozione che svanisce”. Nel 2003, Walker, Skowronski e Thompson, passando in rassegna dati provenienti da varie ricerche, notarono che le emozioni associate ai ricordi di eventi negativi svaniscono più rapidamente delle emozioni associate ai ricordi di eventi positivi. La conseguenza di ciò è che gli avvenimenti del passato appaiono più felici di quanto non siano stati in realtà. In questo modo, le persone ingannano se stesse e costruiscono un’identità più rosea di quella reale.            

Infine, mi piace richiamare un bias, che potremmo chiamare “bias del vicino di casa”, che ci permette di capire perché possediamo ricordi più ottimistici di persone conosciute durante l’infanzia.

Afferma Emily Cockayne nel libro Cheek by Jowl. A History of Neighbours:

I ricordi infantili dei vicini sono diversi da quelli degli adulti. I bambini abitualmente non notano chi disturba e fanno facilmente amicizia. È probabilmente per questo motivo che molte persone credono che i vicini fossero più amabili un tempo, quando erano giovani. Forse non ne hanno mai saputo il mestiere, ma ne ricordano la generosità o l’avarizia (Cockayne, 2013, pp. 60-61).

Ognuno di noi può confermare la pervasività di questo bias. Quando siamo piccoli, il vicino di casa è la figura che ci accarezza, ci sorride, gioca con noi, ci racconta storie divertenti o ci incoraggia a giocare con il figli. Di lui o lei conosciamo poche caratteristiche di personalità. Non sappiamo né ci interessa nulla del lavoro che fa, di come sbarca il lunario, se va d’accordo con il (o la) partner, se ha dei debiti nei confronti dello stato o se ha problemi con la giustizia. Queste sono cose “per i grandi”. Di conseguenza, è facile, una volta adulti, cullarsi nell’illusione che, quando eravamo bambini, i vicini di casa fossero migliori di oggi; illusione che si spande ad avvolgere tutti gli aspetti del mondo che, naturalmente, “va sempre peggio di un tempo”.

Si tratta dell’ennesima “distorsione mentale” che contribuisce ad alimentare il pessimismo nei confronti delle sorti dell’umanità tipico della maturità e, ancor di più, della terza età.

Come abbiamo notato, i vecchi confondono spesso la propria percezione del passare del tempo e delle fasi della vita con quella dell’andamento del mondo, per cui il ricordo dell’energia, dell’ottimismo e del piacere dei vent’anni diventa ricordo di una sorta di età dell’oro che contrasta violentemente con un presente fatto di energie ridotte, disillusioni, aspettative funeste nei confronti della vita, che diventano facilmente pensiero pessimista e catastrofista sul futuro del mondo.

Forse bisognerebbe semplicemente concludere con Qoelet 7, 10: «Non dire: “Come mai i giorni di prima erano migliori di questi?”, poiché non è da saggio domandarsi questo».

È vero. Non è saggio. Ma continuiamo a farlo imperterriti.

Riferimenti

Cockayne, E., 2013, Cheek by Jowl. A History of Neighbours, Vintage, London.

Ercoli, L., 2022, Yesterday. Filosofia della nostalgia, Ponte alle Grazie, Milano

Mastroianni, A. M., Gilbert, D. T., 2023, “The Illusion of Moral Decline”, Nature, vol. 618, pp. 782-789.

Mitchell, T. R., Thompson, L., 1994, “A Theory of Temporal Adjustments of the Evaluation of Events: Rosy Prospection and Rosy Retrospection-”, Advances in Managerial Cognition and Organizational Information Processing, vol. 5, pp. 85-114.

Mitchell, T. R., Thompson, L., Peterson, E., Cronk, R, 1997, “Temporal Adjustments in the Evaluation of Events: The “Rosy View””, Journal of Experimental Social Psychology, vol. 33, n. 4, pp. 421-448.

Pinker, S., 2013, Il declino della violenza, Mondadori, Milano.

Polidoro, M., 2019, Il mondo sotto sopra, Piemme, Milano

Serres, M., 2018, Contro i bei tempi andati, Bollati Boringhieri, Torino.

Stracciari, A., Fioritti, A., 2023, Nostalgia. Una risorsa per il benessere, Il Mulino, Bologna.

Walker, W. R.; Skowronski, J. J.; Thompson, C. P., 2003, “Life is Pleasant – And Memory Helps to Keep It That Way”, Review of General Psychology, vol. 7, n. 2, pp. 203-210.

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Pavlov, Diderot e la religione come riflesso condizionato

A chi studi la religione non sarà sfuggito il carattere pavloviano di molte sue manifestazioni.

Ricordiamo che con condizionamento pavloviano o classico, si intende una forma di apprendimento in cui il comportamento (risposta condizionata) è prodotto da uno stimolo (stimolo condizionato) che ha acquisito forza dall’associazione con uno stimolo biologicamente significativo (stimolo incondizionato).

È il caso classico del cane che prende a salivare sentendo una campanella perché ha appreso che ogni volta che sente una campanella gli viene portato del cibo. Questa forma di condizionamento spiega tanti eventi apparentemente misteriosi come, ad esempio, le sbalorditive prestazioni degli animali da circo, prestazioni “create” tramite condizionamento pavloviano o altre forme di condizionamento.

Lo stesso Ivan P. Pavlov (1849-1936), l’iniziatore degli studi sui riflessi condizionati, pensava che i fenomeni religiosi fossero in realtà una forma di condizionamento. In Italia, agli inizi del XX secolo, lo psicologo e religioso Agostino Gemelli (1878-1959) evidenziò una possibile connessione tra alcune reazioni fisiologiche come le stimmate e determinati disturbi nevrotici di natura psicopatologica per la cui comprensione era necessario il ricorso non alla teologia, ma alla psicologia.

Molte manifestazioni religiose obbediscono a un meccanismo di condizionamento di questo tipo.

Ne era ben consapevole il filosofo francese Denis Diderot (1713-1784), il quale, nel celebre romanzo La monaca, fa pronunciare le seguenti parole a Susanna, la protagonista del racconto:

Non ho mai avuto vocazione per il chiostro, e lo dimostra abbastanza il mio operato; ma in convento mi sono abituata a certe pratiche che ripeto senza pensarci; per esempio, suona una campana? mi faccio il segno della croce, o m’inginocchio. Bussano all’uscio? dico Ave. M’interrogano? la mia risposta termina sempre con un sì o no, madre cara o sorella mia. Se sopraggiunge un estraneo, le braccia mi s’incrociano sul petto, e invece di far la riverenza m’inchino (D. Diderot, La monaca, Editori Associati, Roma, 1966, pp. 255-256).

Anche la recita del rosario induce un condizionamento di tipo pavloviano: l’associazione tra la ripetizione continua e costante della preghiera (stimolo incondizionato) e determinati stati d’animo (fervore, rilassamento, meditazione), quali stimoli condizionati, provoca il curioso effetto per cui l’inizio del rosario è sufficiente a indurre lo stato psicologico in questione, che, alla conclusione della preghiera, scomparirà repentinamente. Il praticante è così suggestionato a sperimentare determinate condizioni psichiche, che lo predispongono ad accogliere e fare suoi i contenuti del messaggio religioso trasmesso attraverso la preghiera.

Oppure, pensiamo ai credenti che si sentono spinti a farsi il segno della croce, ogni volta che passano accanto a una chiesa. O a recitare l’Eterno riposo (“L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua”) ogni volta che sono in presenza di un defunto.

Si tratta di una fenomenologia di comportamenti vasta, probabilmente non indagata a sufficienza da questo punto di vista.

Ne parlerò in un libro che andrà in stampa il prossimo anno dedicato alla sociologia e psicologia del rosario.

Avremo modo di parlarne.

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Un caso di pareidolia in Denis Diderot

La monaca (La religieuse nell’originale francese) è un romanzo di Denis Diderot, pubblicato postumo nel 1796, ispirato alla vera storia di Marguerite Delamarre, costretta a prendere i voti nonostante la sua volontà contraria. Si tratta di un’opera anticlericale, presto collocata fra i libri proibiti, anche per i suoi contenuti erotici.

Il romanzo narra la storia di Susanna Simonin, obbligata dai genitori a prendere i voti e a essere rinchiusa nel convento di Longchamp, dove diventa oggetto di torture e sevizie di ogni genere a causa della sua volontà dichiarata di non accettare la propria condizione. Passata al convento di Arpajon, la sua strada si incrocia con quella della madre superiora che la assedia con palesi tentativi di seduzione, che la portano spesso a entrare in intimità con la protagonista, suscitando in lei desideri e sensazioni nuove, nemmeno comprese fino in fondo dalla giovane.

Invitata a confessarsi da padre Lemoine, questi, appreso del comportamento della superiora, invita Susanna a starle alla larga per non cadere vittima dei suoi artifizi seduttivi e dipinge la stessa come una sorta di demone tentatore.

Suggestionata dalle parole del confessore, l’immaginazione di Susanna prende a conferire alla superiora tratti luciferini fino a che, dopo la confessione, durante un incontro con la medesima, la giovane dichiara:

Mi fermai, volsi ancora il capo verso di lei, e m’avvidi d’essere stata atterrita da una strana apparenza creata dalla mia immaginazione; era tutta colpa della sua posizione rispetto alla lampada della chiesa, che le illuminava solo il viso e l’estremità delle mani, e lasciava il resto nell’ombra, mostrandola così sotto uno strano aspetto (Diderot, D., 1966, La monaca, Editori Associati, Roma, p. 227).

Si tratta di un caso evidente di pareidolia facciale, vale a dire di una illusione percettiva, alimentata da credenze, aspettative e convinzioni, oltre che da condizioni visive incerte, in forza della quale il viso di un individuo appare diverso da quello che è perché il soggetto proietta su di esso tratti e fattezze puramente illusori.

Ciò che accade a Susanna è qualcosa che può accadere a tutti noi. Suggestionati da una credenza, dalle parole riferite da qualcuno, da un timore o una speranza, specialmente se il luogo in cui il fenomeno accade è malamente o parzialmente illuminato, possiamo, senza esserne coscienti, attribuire a un volto caratteristiche diverse da quelle originali, ma mai casuali. Come Susanna vede Satana sul volto della superiora dopo essersi confessata con padre Lemoine, così noi possiamo vedere nella passante casuale le fattezze del volto della nostra amata che aspettiamo con impazienza. Oppure, terrorizzati dalla presenza di qualcuno, possiamo “vedere” il suo volto minaccioso tra la folla, anche se ciò non è vero.

Ciò che vediamo è, in ultima analisi, frutto dell’apparato cognitivo con cui “accogliamo “il volto che incrociamo. La paura ci induce a vedere un volto pauroso. La gioia un volto che ispira contentezza. E così via.

È così che hanno luogo i fenomeni pareidolici, sui quali, se volte saperne di più, rimando al mio Bizzarre illusioni. Lo strano mondo della pareidolia e i suoi segreti (Mimesis Edizioni, Milano, 2012).

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Sulla psicologia dei portieri in un recente studio

Nel calcio, i portieri professionisti possiedono abilità percettivo-cognitive diverse dal resto dei giocatori in campo (outfield players, in inglese)?

È questa la domanda che si sono posti gli autori di Distinct profiles of multisensory processing between professional goalkeepers and outfield football players, ricerca che compare nella sezione Correspondence della rivista “Current Biology” di ottobre di quest’anno. È curioso notare che tra essi compare il nome di Michael Quinn (gli altri due sono Rebecca J. Hirst e David P. McGovern), ex portiere professionista irlandese.

Per farla breve, la risposta è sì. I portiere professionisti sono più rapidi nell’elaborare le informazioni provenienti da sistemi sensoriali diversi rispetto agli altri calciatori, il che potrebbe spiegare perché sono tanto abili nell’adottare importanti decisioni nel giro di una frazione di secondo, quando sono chiamati in causa.

Per indagare la loro ipotesi, i ricercatori hanno reclutato 20 portieri professionisti, 20 calciatori che occupavano altri ruoli in campo e 20 soggetti non impegnati nel calcio professionistico (gruppo di controllo), tutti uomini.

Ogni partecipante è stato esposto a una o due immagini mostrate brevemente su uno schermo, seguire da uno, due o zero segnali acustici. Di norma, se esposti in rapida successione a un’immagine e a due segnali acustici, gli individui assumono erroneamente che vi siano state due immagini. In altre parole, segnali visivi e uditivi sono uniti. Con l’aumento dell’intervallo tra immagine e suono, tuttavia, l’illusione diventa più debole.

I ricercatori hanno scoperto che i portieri riescono a individuare con precisione il numero di immagini e suoni a un intervallo temporale molto inferiore rispetto agli altri soggetti, siano essi gli altri calciatori professionisti o i non calciatori. Nelle parole dei tre autori, “i portieri esibiscono sia una migliore stima audiovisiva sia una tendenza a priori a isolare i segnali sensoriali rispetto agli altri due gruppi”. Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che i portieri hanno necessità di separare stimoli visivi e uditivi per una migliore esecuzione delle loro prestazioni e, quindi, elaborano con maggiore prontezza e rapidità gli stimoli multisensoriali.

Ad esempio, quando un calciatore colpisce la palla, i portieri non solo utilizzano informazioni visive per decidere la direzione della palla, ma fanno affidamento anche su informazioni uditive come il suono della palla nel momento in cui viene colpita; comunque, la relazione tra questi stimoli multisensoriali varia in relazione alla distanza di chi colpisce la palla dal portiere e, in molti casi, ad esempio quando la palla è colpita fuori dall’area di rigore, le informazioni sensoriali sono momentaneamente dissociate. In altre situazioni, come quando chi colpisce la palla è coperto da altri calciatori, i portieri fanno affidamento più su informazioni uditive che su informazioni visive.

Ovviamente, a questo punto la grande domanda è: tali abilità percettivo-cognitive dipendono dalla pratica costante del ruolo o da precedenti doti innate? Gli autori non sono in grado di rispondere a questo importante quesito, che peraltro ripropone l’annosa questione nature vs. nurture.

Nel frattempo, in attesa che la scienza trovi una risposta definitiva, vi rimando al mio Hanno visto tutti! Nella mente del tifoso (Meltemi Editore, Milano, 2020) nel quale cito numerosi altri studi sulla psicologia dei calciatori.

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L’idolatria dell’ambiente come nuova devozione

 “La fine del mondo è vicina”. “Il mondo è sull’orlo dell’estinzione”. “Il cambiamento climatico causerà miliardi di morti”. “Andremo tutti all’inferno per causa nostra”. “Il mondo ha poco più di dieci anni per porre un freno al cambiamento climatico”. “Homo sapiens potrebbe essere la causa della sesta estinzione”. “La nostra casa è in fiamme”.

Sembra che ormai l’allarmismo apocalittico sia la cifra più caratterizzante dell’ambientalismo odierno. Non c’è rapporto, articolo, convegno o banale discussione tra ecologisti che non termini con un monito catastrofico sul futuro dell’umanità, frequentissimamente tinto di macabro profetismo. La ricetta ideale per propagare un terrorismo paralizzante, generatore di ansia e ossessioni di ogni tipo.

Si pensi ai rapporti dell’IPCC (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, un organismo dell’ONU): geremiadi su geremiadi su disastri naturali, innalzamento del livello dei mari, desertificazione e degrado del suolo. Ma anche: siccità, uragani, cancellazione di foreste pluviali (compresa quella amazzonica), eventi meteorologici estremi, crollo dei sistemi alimentari, perdita di suolo, sprofondamento dei ghiacciai, aumento esponenziale del numero degli incendi, eventi critici irreversibili.

Il problema, come avverte Giulio Meotti, è che i rapporti dell’IPCC sono considerati dai media e dalla maggior parte dei decisori pubblici infallibili come un tempo la parola dei pontefici (Meotti, 2021, p. 4), nonostante i frequenti errori – con tanto di scuse posteriori – in essi contenuti e i toni spesso tutt’altro che scientifici con cui sono redatte alcune pagine.

I medesimi allarmismi compaiono in autori come David Wallace-West, il quale non esita a riferire che con l’aumento della temperatura di due gradi, «le calotte glaciali cominceranno a sciogliersi e a sfaldarsi, ci saranno quattrocento milioni di persone in più che avranno carenza d’acqua, le principali città delle fasce equatoriali diventeranno invivibili e le ondate di calore mieteranno migliaia di vittime ogni estate, anche alle latitudini settentrionali» (cit. in Shellenberger, 2021, p. 20). Se ne potrebbero citare tantissimi altri.

Insomma, un ambientalismo apocalittico la cui malattia infantile di elezione è il catastrofismo ipertrofico e la cui caratteristica dominante è una fortissima verve religiosa. Per dirla senza falsi pudori, l’ambientalismo è una religione (Environmentalism is a religion), come recita il titolo del breve intervento del 2003, qui da me tradotto in italiano, di Michael Crichton (1942-2008), scrittore acclamato, sceneggiatore, regista e produttore televisivo (ad esempio di: E.R. – Medici in prima linea), noto per romanzi come Jurassic Park (1990), da cui è stato tratto un celebre film di Steven Spielberg, Punto critico (1996) e Stato di paura (2004), che ripercorre le conseguenze nefaste dell’allarmismo ambientale in salsa eco-terroristica.

Che l’ambientalismo sia diventato una religione è oggi abbastanza evidente.

Tutto ciò che è “verde” (green, nella lingua dominante di oggi) attira magicamente su di sé ogni tipo di connotazione positiva. Tanto che l’aggettivo “verde” ha ormai preso il posto di “divino”. Dio è verde, senz’ombra di dubbio. Al tempo stesso, ogni evento meteorologico avverso è ricondotto a un’unica causa monoteistica: il riscaldamento globale, nuovo demone del nuovo pantheon religioso. Per cui: alluvioni? La colpa è del riscaldamento globale. Aridità? La colpa è del riscaldamento globale. Niente neve? La colpa è del riscaldamento globale. Troppa neve? La colpa è del riscaldamento globale. Bufere? La colpa è del riscaldamento globale. Assenza di piogge? La colpa è del riscaldamento globale. Una vera e propria religione monoteistica, insofferente di pensieri divergenti (eretici?) e altri “dei” (una volta, ad esempio, tutte le colpe erano addossate alle “contraddizioni del sistema”). Se nel Medioevo le calamità naturali venivano attribuite all’ira divina; oggi sono attribuite ai cambiamenti climatici, che probabilmente (e apocalitticamente) porranno termine al mondo per come lo conosciamo.

Di qui una visione binaria, manichea del mondo per cui il dibattito internazionale sul cambiamento climatico vede una inquietante polarizzazione tra quanti lo negano in ogni modo (i “reprobi”) e quanti ne esagerano gli esiti (i “virtuosi dantoniani”).

Essendo una religione, l’ambientalismo vanta un suo specifico clero: agitatori, giornalisti, banchieri, donne e uomini dello spettacolo, professori universitari, “esperti” di ogni genere, convertitisi in guru, sacerdoti, predicatori e profeti di sventura come Greta Thunberg, la giovanissima santona di questa religione, che affetta indignazione a favore di potenti e telecamere per le condizioni della nostra “casa”. «La protezione del pianeta Terra, la sopravvivenza di tutte le specie e la sostenibilità dei nostri ecosistemi è più di una missione, è la mia religione» afferma disinvoltamente Rajendra Pachauri, che ha guidato l’agenzia ONU per il clima (cit. in Meotti, 2021, p. 14). Non si fa nemmeno un tentativo di dissimulare la natura devozionale della questione. Anzi, più si ostentano toni curiali, più si è presi sul serio. Più si profetizza, più si guadagna credito. E non importa se le profezie non si realizzano. Come in tutti i culti, le credenze non vengono ostacolate dai fatti, perché non hanno nulla a che vedere con i fatti. E se i fatti non si piegano alle credenze, tanto peggio per loro!

L’ambientalismo presuppone un Eden originario, un paradiso incontaminato, una condizione prisca di unione con la natura, che sarebbe stata soppiantata dalla corruzione subentrata dopo che l’uomo ha mangiato il frutto dell’albero della conoscenza e ha cominciato a costruire il mondo a sua immagine e desiderio, dimenticando le proprie origini e idolatrando se stesso. L’uomo, evidentemente, nasce innocente per poi contaminarsi da solo. Una riedizione aggiornata (ma nemmeno tanto) della favola del buon selvaggio che serve a contrapporre fantasie spacciate per realtà antiche a fatti e avvenimenti della contemporaneità: un confronto da cui quest’ultima esce ovviamente con le ossa rotte. Perché… Ah, i bei tempi andati!!!

Come conseguenza di questo agire immondo – afferma Crichton sardonico – oggi siamo tutti peccatori, condannati alla morte fisica e spirituale, ossia all’estinzione, a meno che non cerchiamo la salvezza, che oggi ha il nome di sostenibilità. In ogni modo, la fine del mondo è vicina e imminente è il giorno del giudizio se non ci comportiamo bene, ossia se pecchiamo. Il problema è che ogni guru dell’ambiente ha la propria data fissata per la fine del mondo, il proprio “Envirogeddon” (l’Armageddon ecologica), che varia in continuazione in ragione delle mille sviste profetiche subite e degli umori e urgenze del momento. Il giorno esatto è sempre infinitamente aggiornabile. La credenza primigenia nel dogma apocalittico ne consente la replicabilità infinita.

La religione ecologista ha i propri giorni santi (la Giornata della Terra, la prima edizione della quale ebbe luogo nel 1970), i propri testi sacri (manifesti e bestseller inclusi), le proprie eresie (negazionisti, scettici e tutti quelli che non la vedono come i lider maximi), i propri giorni di digiuno (vegetariano e vegano) e astensione dal cibo (la carne), i propri incrollabili dogmi, il primo dei quali è che il cambiamento climatico è causato irrefutabilmente dall’uomo (il grande peccatore) e che, se non facciamo qualcosa subito, The end of the world is nigh.

Ormai la salvezza del pianeta è divenuta la nuova grande narrazione che tutti attendevano da quando narrazioni tradizionali come la religione cattolica e il marxismo sono crollati miseramente, riducendosi a capitoli di una storia passata (Lyotard, 1990).

Non ci resta che pentirci e chiedere indulgenza alla Madre Terra, che abbiamo offeso per secoli, per poi tentare di riparare al male da noi compiuto con adeguate azioni redentrici e, se possibile, masochisticamente autopunitive.

Ma abbiamo poco tempo per redimerci. La Terra ha i giorni contati

Riferimenti

Lyotard, J.-F., 1990, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano

Meotti, G., 2021, Il dio verde. Ecolatria e ossessioni apocalittiche, Liberilibri, Macerata

Shellenberger, M., 2021, L’apocalisse può attendere, Marsilio, Venezia

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I tranelli della fallacia genetica

Che cosa pensereste di un governante che pronunciasse le seguenti parole?

La nostra campagna è stata profondamente modificata rispetto ai tempi originari. La flora è stata alterata in molti modi dall’agricoltura e dall’industria… Allo stesso tempo, il suo habitat naturale si è ridotto, una fauna diversificata che ha rinvigorito foreste e campi è stata ridotta. Questo sviluppo è stato spesso dovuto a necessità economiche. Oggi è emersa una chiara consapevolezza del danno intellettuale, ma anche economico, di tale sconvolgimento nelle campagne. Il governo considera suo dovere garantire ai propri cittadini, anche ai più poveri, la loro parte di bellezze naturali… Ha così emanato una legge in vista della protezione della natura.

In un’epoca ipersensibile nei confronti delle questioni ecologiche, è probabile che un provvedimento del genere verrebbe accolto dai più con entusiasmo e che la maggioranza definirebbe estremamente lungimirante il suo propugnatore. 

Ora, rispondete al seguente quesito.

Per quale di questi tre candidati voteresti?

Il primo è coinvolto in giochi di potere con lobby corrotte, consulta gli astrologi, ha due amanti, fuma come un turco e beve dai sei ai dieci martini al giorno.

Il secondo è stato rimosso dal suo incarico due volte, è incline alla depressione, dorme fino a mezzogiorno, ogni giorno beve una bottiglia di whisky e quando studiava si faceva d’oppio.

Il terzo è un patriota pluridecorato al valore militare, è vegetariano, non sopporta il fumo, beve una birra ogni tanto ed è molto riservato circa la sua vita sessuale.

È probabile che la maggioranza degli intervistati opterebbe per il terzo candidato. Sembra infatti possedere tutte le qualità per essere un buon governante, oltre che essere in perfetta sintonia con lo spirito del nostro tempo.

Ora, la maggioranza sarebbe ancora della medesima opinione se venisse fuori che il provvedimento citato fu emanato da Adolf Hitler il 26 giugno 1935?  L’originale, infatti, recita:

La nostra campagna è stata profondamente modificata rispetto ai tempi originari. La flora è stata alterata in molti modi dall’agricoltura e dall’industria… Allo stesso tempo, il suo habitat naturale si è ridotto, una fauna diversificata che ha rinvigorito foreste e campi è stata ridotta. Questo sviluppo è stato spesso dovuto a necessità economiche. Oggi è emersa una chiara consapevolezza del danno intellettuale, ma anche economico, di tale sconvolgimento nelle campagne. Il governo tedesco del Reich considera suo dovere garantire ai nostri compatrioti, anche ai più poveri, la loro parte di bellezze naturali… Ha così emanato la legge del Reich in vista della protezione della natura (Meotti, G., 2021, Il dio verde. Ecolatria e ossessioni apocalittiche, Liberilibri, Macerata, pp. 60-61).

Quanto ai tre candidati, la maggioranza voterebbe ancora per il terzo sapendo che il primo profilo corrisponde a Franklin Delano Roosevelt, il secondo a Winston Churchill e il terzo a… Adolf Hitler?

L’esercizio proposto ci permette di introdurre una delle fallacie più insidiose in cui ci capita di incappare nei nostri ragionamenti: la “fallacia genetica”. Questa fallacia consiste nel giudicare un’idea dalle sue origini piuttosto che dalla sua validità. La credibilità di un qualsiasi contenuto cambia moltissimo se a propagarlo è un esperto acclamato o un miserabile senzatetto. Una testimonianza proveniente da un ladruncolo o un tossicodipendente risulterà quasi automaticamente meno credibile della testimonianza resa da un importante uomo d’affari in giacca e cravatta. E questo a parità di contenuto e testimonianza.

Senza ricorrere ad esempi estremi, il semplice fatto che una persona ci sia antipatica, ostile o abbia idee diverse dalle nostre ci porta a svalutare le sue opinioni, anche se valide. E la fallacia è tanto più insidiosa in quanto agisce su di noi in modo spesso inconsapevole, impedendoci di argomentare nella sostanza e spostando la nostra attenzione sulle origini dell’idea.

È un dato di fatto che giudichiamo le idee più in base a chi le sostiene che al loro contenuto. Addirittura, se il sostenitore è un individuo a noi non gradito preferiamo distorcere il significato delle sue parole o attribuirgli fini odiosi e reconditi piuttosto che condividerle.

Gli esempi riguardanti Adolf Hitler esemplificano in maniera molto efficace, seppure estrema, il campo di azione di questa fallacia. L’alone di malvagità che circonda il dittatore tedesco è talmente potente da impedirci di valutare in modo diverso qualsiasi cosa abbia detto o fatto. Lo stesso accade nella vita quotidiana, in cui applichiamo frequentemente le nostre “propensioni genetiche”, svalutando o condannando messaggi e contenuti sulla base di chi li pronuncia.

Per fortuna le nostre scelte quotidiane non richiedono spesso di valutare proposte e messaggi di dittatori e assassini. Ma come ci piace cedere alla fallacia genetica!

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Come vivevano gli italiani a New York

Jacob Riis (1849-1914), cronista e riformatore sociale, con How The Other Half Lives (1890) documentò le condizioni miserrime degli abitanti dei bassifondi newyorkesi, quelli che oggi, completamente trasformati, il turista percorre ignaro, attratto dalle segnalazioni delle sue guide che definiscono “immancabile” una visita a China Town o Little Italy. Se questi quartieri sono come sono oggi, lo dobbiamo anche agli sforzi di Riis, alle sue denunce dello sfruttamento, delle angherie, delle violenze di cui erano vittime gli immigrati che, alla fine dell’Ottocento, si riversavano a frotte sulle coste degli Stati Uniti nella speranza di una vita migliore. Furono i suoi sforzi e la sua caparbietà giornalistica a far conoscere ai membri delle classi superiori americane le reali condizioni di vita di migliaia di individui negletti, se non dimenticati.

Nato in Danimarca, Riis, terzo di 15 fratelli, emigrò per gli Stati Uniti all’età di 21 anni, sperimentando tutte le difficoltà dei newcomers dell’epoca. Disoccupazione, fame, insicurezza abitativa sono tutte condizioni che provò sulla sua pelle e che lo condussero, più di una volta, alla tentazione di suicidarsi. Per tre anni, vagò per le strade americane in cerca di un boccone con cui sfamarsi, dormendo in strada, barcamenandosi tra svariate occupazioni, tra cui quelle di falegname e di commesso viaggiatore, facendo i lavori più umili, finché entrò in contatto con una agenzia giornalistica e iniziò, nel 1877, il lavoro di police reporter, termine che, in inglese, designa il cronista che “copre” le notizie provenienti dalla polizia. Fu in questa veste che iniziò a frequentare di giorno e di notte la degradata Mulberry Street, nel cuore del Lower East Side, facendo la conoscenza dei suoi abitanti disperati, denutriti, privi di un’occupazione dignitosa, ignoranti e facilmente manipolabili, costretti a vivere nel sudiciume più lercio, in locali senza areazione, sovraffollati all’inverosimile, malsani: una vera e propria fogna generatrice di depravazione e abbattimento morale.

In particolare, Riis prese di mira i famigerati landlords dell’epoca, i proprietari degli squallidi caseggiati che ospitavano i tanti migranti, e che estorcevano loro prezzi esorbitanti a cui i reietti provenienti da mezza Europa non sapevano opporre un rifiuto, oppressi dall’ignoranza e dalla necessità di sopravvivere. In questi quartieri, finirono col concentrarsi inevitabilmente ladri, ruffiani, prostitute, mendicanti, criminali, ubriaconi in un ambiente caratterizzato da un estremo stato di miseria

Riis scrisse ripetutamente di questi temi e fu proprio il suo impegno a favorire la creazione della Tenement House Commission nel 1884, che indagò le condizioni abitative degli immigrati, riconoscendo lo sfruttamento cui erano sottoposti e propugnando una serie di riforme sociali.

La novità per cui Riis è ancora oggi considerato degno di essere letto è l’uso esteso della fotografia come documento sociale per ritrarre da vicino le condizioni di vita degli immigrati. How The Other Half Lives, infatti, è celebre non solo per il suo contenuto testuale, ma soprattutto per l’ampio apparato fotografico che lo contraddistingue, testimone inappuntabile di come l’altra metà del mondo viveva a New York all’epoca. Inizialmente, Riis si servì di fotografi professionisti. In seguito, imparò a utilizzare la macchina fotografica da solo, anche se incappò più volte in vari incidenti, come quando incendiò per ben due volte i luoghi che tentava di fotografare o quando armeggiò in modo talmente maldestro i suoi strumenti da rischiare la vista. Riis fu uno dei primi a usare il lampo al magnesio (flash) e si servì anche della cosiddetta “lanterna magica”, antesignana del proiettore di diapositive, per dare risalto alle sue iniziative. Come è oggi ampiamente noto, una fotografia ha l’efficacia persuasiva di mille parole. Di fatto, furono proprio le immagini a rendere consapevoli più di ogni altra cosa i suoi lettori di ciò che tentava di documentare e furono proprio le fotografie ad assicurargli un ruolo stabile nella storia della riforma sociale e della sociologia visuale o fotografia sociale.

Dopo How The Other Half Lives, Riis pubblicò Children of the Poor (1892), sui bambini che abitavano negli slums newyorchesi, e l’autobiografia The Making of an American (1901), oltre a racconti, articoli, reportage e pezzi di vario genere.

Dopo   la morte di Riis le sue foto furono quasi dimenticate, fino a che, trenta anni dopo, il Museum of the City of New York, nel 1947, offrì una importante mostra retrospettiva del suo lavoro che ne consentì la valorizzazione definitiva.

Per quanto appassionato riformatore sociale, Riis, tuttavia, non era immune da molti dei pregiudizi che, in quell’epoca, distorcevano lo sguardo dei contemporanei nei confronti degli immigrati. In particolare, si avverte nel danese la tendenza ad attribuire un insieme predeterminato di caratteristiche, positive e negative, alle varie nazionalità di immigrati, come è evidente dai due capitoli della sua opera – il quinto e il sesto – interamente dedicati agli italiani e qui tradotti per la prima volta nella nostra lingua.

Per Riis, gli italiani occupano il fondo della scala sociale e sono la nazionalità che più si adatta a vivere nelle condizioni di vita peggiori, senza protestare a differenza degli ordinati tedeschi e dei litigiosi irlandesi. La loro remissiva dabbenaggine li rende particolarmente propensi a cadere vittime delle trame lucrative dei propri connazionali, di cui sono una fonte inesauribile di profitto. Gli italiani sono sudici, creduloni, ignoranti, incapaci di apprendere l’inglese, privi di spirito imprenditoriale, capaci solo di “arrangiarsi” tra la melma e i rifiuti di New York. Si adattano a vivere in qualsiasi discarica e in qualsiasi situazione di degrado, per quanto insalubre e disumana. Sono loro le vittime preferite dei landlords locali in grado di estrarre da essi dollari su dollari per servizi che non varrebbero un centesimo.

L’italiano è onesto e legato alla famiglia, ma impulsivo e irascibile e facile alla violenza più belluina. Tra i vizi, il gioco è il suo preferito. Tra i reati, si mostra piuttosto incline all’omicidio e alla truffa in modo tipico e prevedibile. Per il resto, se non contrariato, si dimostra piuttosto bonario e meno pericoloso dell’irlandese e meno scaltro dell’ebreo. Tutti questi tratti confluiranno successivamente in maniera stereotipica e iperbolica nella descrizione del mafioso italo-americano di cui film e romanzi ci hanno consentito di conoscere bene l’evoluzione.

Riis si sofferma in particolare sulle avvilenti condizioni di sovraffollamento in cui vive l’italiano a Mulberry Street, in particolare nel “Bend”, la zona più ripugnante dei bassifondi di New York. Delinquenza, analfabetismo, autoreclusione volontaria, insalubrità, condizioni igieniche pessime, malattie dominano incontrastate in quella che sembra più una discarica di rifiuti umani che un quartiere. Non a caso, Riis auspica la demolizione totale del “Bend” e la creazione di un Park residenziale sulla scia di esperienze analoghe già effettuate in quartieri limitrofi.

L’autore si mostra disgustato dalle condizioni subumane in cui gli italiani accettano di vivere: tuguri senza un sistema di areazione, viveri incommestibili, sostanze nocive, sfruttamento perpetuo, marginalità ributtante. Il sottotesto mai esplicitato è che gli italiani siano antropologicamente e culturalmente inclini a tali condizioni di subalternità e che siano “per natura” diversi da altri popoli come l’irlandese, il tedesco, il danese, il polacco ecc. che mai accondiscenderebbero a una vita del genere. Insomma, il degrado come caratteristica culturale, se non innata, dell’italiano.

Per Riis, dunque, gli italiani sono una “razza” a parte. Ma forse la loro è semplicemente la situazione che tanti disperati nel mondo hanno vissuto e vivono tuttora a causa delle contraddizioni, come si diceva una volta, del sistema capitalistico in cui viviamo.

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