L’idolatria dell’ambiente come nuova devozione

 “La fine del mondo è vicina”. “Il mondo è sull’orlo dell’estinzione”. “Il cambiamento climatico causerà miliardi di morti”. “Andremo tutti all’inferno per causa nostra”. “Il mondo ha poco più di dieci anni per porre un freno al cambiamento climatico”. “Homo sapiens potrebbe essere la causa della sesta estinzione”. “La nostra casa è in fiamme”.

Sembra che ormai l’allarmismo apocalittico sia la cifra più caratterizzante dell’ambientalismo odierno. Non c’è rapporto, articolo, convegno o banale discussione tra ecologisti che non termini con un monito catastrofico sul futuro dell’umanità, frequentissimamente tinto di macabro profetismo. La ricetta ideale per propagare un terrorismo paralizzante, generatore di ansia e ossessioni di ogni tipo.

Si pensi ai rapporti dell’IPCC (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, un organismo dell’ONU): geremiadi su geremiadi su disastri naturali, innalzamento del livello dei mari, desertificazione e degrado del suolo. Ma anche: siccità, uragani, cancellazione di foreste pluviali (compresa quella amazzonica), eventi meteorologici estremi, crollo dei sistemi alimentari, perdita di suolo, sprofondamento dei ghiacciai, aumento esponenziale del numero degli incendi, eventi critici irreversibili.

Il problema, come avverte Giulio Meotti, è che i rapporti dell’IPCC sono considerati dai media e dalla maggior parte dei decisori pubblici infallibili come un tempo la parola dei pontefici (Meotti, 2021, p. 4), nonostante i frequenti errori – con tanto di scuse posteriori – in essi contenuti e i toni spesso tutt’altro che scientifici con cui sono redatte alcune pagine.

I medesimi allarmismi compaiono in autori come David Wallace-West, il quale non esita a riferire che con l’aumento della temperatura di due gradi, «le calotte glaciali cominceranno a sciogliersi e a sfaldarsi, ci saranno quattrocento milioni di persone in più che avranno carenza d’acqua, le principali città delle fasce equatoriali diventeranno invivibili e le ondate di calore mieteranno migliaia di vittime ogni estate, anche alle latitudini settentrionali» (cit. in Shellenberger, 2021, p. 20). Se ne potrebbero citare tantissimi altri.

Insomma, un ambientalismo apocalittico la cui malattia infantile di elezione è il catastrofismo ipertrofico e la cui caratteristica dominante è una fortissima verve religiosa. Per dirla senza falsi pudori, l’ambientalismo è una religione (Environmentalism is a religion), come recita il titolo del breve intervento del 2003, qui da me tradotto in italiano, di Michael Crichton (1942-2008), scrittore acclamato, sceneggiatore, regista e produttore televisivo (ad esempio di: E.R. – Medici in prima linea), noto per romanzi come Jurassic Park (1990), da cui è stato tratto un celebre film di Steven Spielberg, Punto critico (1996) e Stato di paura (2004), che ripercorre le conseguenze nefaste dell’allarmismo ambientale in salsa eco-terroristica.

Che l’ambientalismo sia diventato una religione è oggi abbastanza evidente.

Tutto ciò che è “verde” (green, nella lingua dominante di oggi) attira magicamente su di sé ogni tipo di connotazione positiva. Tanto che l’aggettivo “verde” ha ormai preso il posto di “divino”. Dio è verde, senz’ombra di dubbio. Al tempo stesso, ogni evento meteorologico avverso è ricondotto a un’unica causa monoteistica: il riscaldamento globale, nuovo demone del nuovo pantheon religioso. Per cui: alluvioni? La colpa è del riscaldamento globale. Aridità? La colpa è del riscaldamento globale. Niente neve? La colpa è del riscaldamento globale. Troppa neve? La colpa è del riscaldamento globale. Bufere? La colpa è del riscaldamento globale. Assenza di piogge? La colpa è del riscaldamento globale. Una vera e propria religione monoteistica, insofferente di pensieri divergenti (eretici?) e altri “dei” (una volta, ad esempio, tutte le colpe erano addossate alle “contraddizioni del sistema”). Se nel Medioevo le calamità naturali venivano attribuite all’ira divina; oggi sono attribuite ai cambiamenti climatici, che probabilmente (e apocalitticamente) porranno termine al mondo per come lo conosciamo.

Di qui una visione binaria, manichea del mondo per cui il dibattito internazionale sul cambiamento climatico vede una inquietante polarizzazione tra quanti lo negano in ogni modo (i “reprobi”) e quanti ne esagerano gli esiti (i “virtuosi dantoniani”).

Essendo una religione, l’ambientalismo vanta un suo specifico clero: agitatori, giornalisti, banchieri, donne e uomini dello spettacolo, professori universitari, “esperti” di ogni genere, convertitisi in guru, sacerdoti, predicatori e profeti di sventura come Greta Thunberg, la giovanissima santona di questa religione, che affetta indignazione a favore di potenti e telecamere per le condizioni della nostra “casa”. «La protezione del pianeta Terra, la sopravvivenza di tutte le specie e la sostenibilità dei nostri ecosistemi è più di una missione, è la mia religione» afferma disinvoltamente Rajendra Pachauri, che ha guidato l’agenzia ONU per il clima (cit. in Meotti, 2021, p. 14). Non si fa nemmeno un tentativo di dissimulare la natura devozionale della questione. Anzi, più si ostentano toni curiali, più si è presi sul serio. Più si profetizza, più si guadagna credito. E non importa se le profezie non si realizzano. Come in tutti i culti, le credenze non vengono ostacolate dai fatti, perché non hanno nulla a che vedere con i fatti. E se i fatti non si piegano alle credenze, tanto peggio per loro!

L’ambientalismo presuppone un Eden originario, un paradiso incontaminato, una condizione prisca di unione con la natura, che sarebbe stata soppiantata dalla corruzione subentrata dopo che l’uomo ha mangiato il frutto dell’albero della conoscenza e ha cominciato a costruire il mondo a sua immagine e desiderio, dimenticando le proprie origini e idolatrando se stesso. L’uomo, evidentemente, nasce innocente per poi contaminarsi da solo. Una riedizione aggiornata (ma nemmeno tanto) della favola del buon selvaggio che serve a contrapporre fantasie spacciate per realtà antiche a fatti e avvenimenti della contemporaneità: un confronto da cui quest’ultima esce ovviamente con le ossa rotte. Perché… Ah, i bei tempi andati!!!

Come conseguenza di questo agire immondo – afferma Crichton sardonico – oggi siamo tutti peccatori, condannati alla morte fisica e spirituale, ossia all’estinzione, a meno che non cerchiamo la salvezza, che oggi ha il nome di sostenibilità. In ogni modo, la fine del mondo è vicina e imminente è il giorno del giudizio se non ci comportiamo bene, ossia se pecchiamo. Il problema è che ogni guru dell’ambiente ha la propria data fissata per la fine del mondo, il proprio “Envirogeddon” (l’Armageddon ecologica), che varia in continuazione in ragione delle mille sviste profetiche subite e degli umori e urgenze del momento. Il giorno esatto è sempre infinitamente aggiornabile. La credenza primigenia nel dogma apocalittico ne consente la replicabilità infinita.

La religione ecologista ha i propri giorni santi (la Giornata della Terra, la prima edizione della quale ebbe luogo nel 1970), i propri testi sacri (manifesti e bestseller inclusi), le proprie eresie (negazionisti, scettici e tutti quelli che non la vedono come i lider maximi), i propri giorni di digiuno (vegetariano e vegano) e astensione dal cibo (la carne), i propri incrollabili dogmi, il primo dei quali è che il cambiamento climatico è causato irrefutabilmente dall’uomo (il grande peccatore) e che, se non facciamo qualcosa subito, The end of the world is nigh.

Ormai la salvezza del pianeta è divenuta la nuova grande narrazione che tutti attendevano da quando narrazioni tradizionali come la religione cattolica e il marxismo sono crollati miseramente, riducendosi a capitoli di una storia passata (Lyotard, 1990).

Non ci resta che pentirci e chiedere indulgenza alla Madre Terra, che abbiamo offeso per secoli, per poi tentare di riparare al male da noi compiuto con adeguate azioni redentrici e, se possibile, masochisticamente autopunitive.

Ma abbiamo poco tempo per redimerci. La Terra ha i giorni contati

Riferimenti

Lyotard, J.-F., 1990, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano

Meotti, G., 2021, Il dio verde. Ecolatria e ossessioni apocalittiche, Liberilibri, Macerata

Shellenberger, M., 2021, L’apocalisse può attendere, Marsilio, Venezia

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I tranelli della fallacia genetica

Che cosa pensereste di un governante che pronunciasse le seguenti parole?

La nostra campagna è stata profondamente modificata rispetto ai tempi originari. La flora è stata alterata in molti modi dall’agricoltura e dall’industria… Allo stesso tempo, il suo habitat naturale si è ridotto, una fauna diversificata che ha rinvigorito foreste e campi è stata ridotta. Questo sviluppo è stato spesso dovuto a necessità economiche. Oggi è emersa una chiara consapevolezza del danno intellettuale, ma anche economico, di tale sconvolgimento nelle campagne. Il governo considera suo dovere garantire ai propri cittadini, anche ai più poveri, la loro parte di bellezze naturali… Ha così emanato una legge in vista della protezione della natura.

In un’epoca ipersensibile nei confronti delle questioni ecologiche, è probabile che un provvedimento del genere verrebbe accolto dai più con entusiasmo e che la maggioranza definirebbe estremamente lungimirante il suo propugnatore. 

Ora, rispondete al seguente quesito.

Per quale di questi tre candidati voteresti?

Il primo è coinvolto in giochi di potere con lobby corrotte, consulta gli astrologi, ha due amanti, fuma come un turco e beve dai sei ai dieci martini al giorno.

Il secondo è stato rimosso dal suo incarico due volte, è incline alla depressione, dorme fino a mezzogiorno, ogni giorno beve una bottiglia di whisky e quando studiava si faceva d’oppio.

Il terzo è un patriota pluridecorato al valore militare, è vegetariano, non sopporta il fumo, beve una birra ogni tanto ed è molto riservato circa la sua vita sessuale.

È probabile che la maggioranza degli intervistati opterebbe per il terzo candidato. Sembra infatti possedere tutte le qualità per essere un buon governante, oltre che essere in perfetta sintonia con lo spirito del nostro tempo.

Ora, la maggioranza sarebbe ancora della medesima opinione se venisse fuori che il provvedimento citato fu emanato da Adolf Hitler il 26 giugno 1935?  L’originale, infatti, recita:

La nostra campagna è stata profondamente modificata rispetto ai tempi originari. La flora è stata alterata in molti modi dall’agricoltura e dall’industria… Allo stesso tempo, il suo habitat naturale si è ridotto, una fauna diversificata che ha rinvigorito foreste e campi è stata ridotta. Questo sviluppo è stato spesso dovuto a necessità economiche. Oggi è emersa una chiara consapevolezza del danno intellettuale, ma anche economico, di tale sconvolgimento nelle campagne. Il governo tedesco del Reich considera suo dovere garantire ai nostri compatrioti, anche ai più poveri, la loro parte di bellezze naturali… Ha così emanato la legge del Reich in vista della protezione della natura (Meotti, G., 2021, Il dio verde. Ecolatria e ossessioni apocalittiche, Liberilibri, Macerata, pp. 60-61).

Quanto ai tre candidati, la maggioranza voterebbe ancora per il terzo sapendo che il primo profilo corrisponde a Franklin Delano Roosevelt, il secondo a Winston Churchill e il terzo a… Adolf Hitler?

L’esercizio proposto ci permette di introdurre una delle fallacie più insidiose in cui ci capita di incappare nei nostri ragionamenti: la “fallacia genetica”. Questa fallacia consiste nel giudicare un’idea dalle sue origini piuttosto che dalla sua validità. La credibilità di un qualsiasi contenuto cambia moltissimo se a propagarlo è un esperto acclamato o un miserabile senzatetto. Una testimonianza proveniente da un ladruncolo o un tossicodipendente risulterà quasi automaticamente meno credibile della testimonianza resa da un importante uomo d’affari in giacca e cravatta. E questo a parità di contenuto e testimonianza.

Senza ricorrere ad esempi estremi, il semplice fatto che una persona ci sia antipatica, ostile o abbia idee diverse dalle nostre ci porta a svalutare le sue opinioni, anche se valide. E la fallacia è tanto più insidiosa in quanto agisce su di noi in modo spesso inconsapevole, impedendoci di argomentare nella sostanza e spostando la nostra attenzione sulle origini dell’idea.

È un dato di fatto che giudichiamo le idee più in base a chi le sostiene che al loro contenuto. Addirittura, se il sostenitore è un individuo a noi non gradito preferiamo distorcere il significato delle sue parole o attribuirgli fini odiosi e reconditi piuttosto che condividerle.

Gli esempi riguardanti Adolf Hitler esemplificano in maniera molto efficace, seppure estrema, il campo di azione di questa fallacia. L’alone di malvagità che circonda il dittatore tedesco è talmente potente da impedirci di valutare in modo diverso qualsiasi cosa abbia detto o fatto. Lo stesso accade nella vita quotidiana, in cui applichiamo frequentemente le nostre “propensioni genetiche”, svalutando o condannando messaggi e contenuti sulla base di chi li pronuncia.

Per fortuna le nostre scelte quotidiane non richiedono spesso di valutare proposte e messaggi di dittatori e assassini. Ma come ci piace cedere alla fallacia genetica!

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Come vivevano gli italiani a New York

Jacob Riis (1849-1914), cronista e riformatore sociale, con How The Other Half Lives (1890) documentò le condizioni miserrime degli abitanti dei bassifondi newyorkesi, quelli che oggi, completamente trasformati, il turista percorre ignaro, attratto dalle segnalazioni delle sue guide che definiscono “immancabile” una visita a China Town o Little Italy. Se questi quartieri sono come sono oggi, lo dobbiamo anche agli sforzi di Riis, alle sue denunce dello sfruttamento, delle angherie, delle violenze di cui erano vittime gli immigrati che, alla fine dell’Ottocento, si riversavano a frotte sulle coste degli Stati Uniti nella speranza di una vita migliore. Furono i suoi sforzi e la sua caparbietà giornalistica a far conoscere ai membri delle classi superiori americane le reali condizioni di vita di migliaia di individui negletti, se non dimenticati.

Nato in Danimarca, Riis, terzo di 15 fratelli, emigrò per gli Stati Uniti all’età di 21 anni, sperimentando tutte le difficoltà dei newcomers dell’epoca. Disoccupazione, fame, insicurezza abitativa sono tutte condizioni che provò sulla sua pelle e che lo condussero, più di una volta, alla tentazione di suicidarsi. Per tre anni, vagò per le strade americane in cerca di un boccone con cui sfamarsi, dormendo in strada, barcamenandosi tra svariate occupazioni, tra cui quelle di falegname e di commesso viaggiatore, facendo i lavori più umili, finché entrò in contatto con una agenzia giornalistica e iniziò, nel 1877, il lavoro di police reporter, termine che, in inglese, designa il cronista che “copre” le notizie provenienti dalla polizia. Fu in questa veste che iniziò a frequentare di giorno e di notte la degradata Mulberry Street, nel cuore del Lower East Side, facendo la conoscenza dei suoi abitanti disperati, denutriti, privi di un’occupazione dignitosa, ignoranti e facilmente manipolabili, costretti a vivere nel sudiciume più lercio, in locali senza areazione, sovraffollati all’inverosimile, malsani: una vera e propria fogna generatrice di depravazione e abbattimento morale.

In particolare, Riis prese di mira i famigerati landlords dell’epoca, i proprietari degli squallidi caseggiati che ospitavano i tanti migranti, e che estorcevano loro prezzi esorbitanti a cui i reietti provenienti da mezza Europa non sapevano opporre un rifiuto, oppressi dall’ignoranza e dalla necessità di sopravvivere. In questi quartieri, finirono col concentrarsi inevitabilmente ladri, ruffiani, prostitute, mendicanti, criminali, ubriaconi in un ambiente caratterizzato da un estremo stato di miseria

Riis scrisse ripetutamente di questi temi e fu proprio il suo impegno a favorire la creazione della Tenement House Commission nel 1884, che indagò le condizioni abitative degli immigrati, riconoscendo lo sfruttamento cui erano sottoposti e propugnando una serie di riforme sociali.

La novità per cui Riis è ancora oggi considerato degno di essere letto è l’uso esteso della fotografia come documento sociale per ritrarre da vicino le condizioni di vita degli immigrati. How The Other Half Lives, infatti, è celebre non solo per il suo contenuto testuale, ma soprattutto per l’ampio apparato fotografico che lo contraddistingue, testimone inappuntabile di come l’altra metà del mondo viveva a New York all’epoca. Inizialmente, Riis si servì di fotografi professionisti. In seguito, imparò a utilizzare la macchina fotografica da solo, anche se incappò più volte in vari incidenti, come quando incendiò per ben due volte i luoghi che tentava di fotografare o quando armeggiò in modo talmente maldestro i suoi strumenti da rischiare la vista. Riis fu uno dei primi a usare il lampo al magnesio (flash) e si servì anche della cosiddetta “lanterna magica”, antesignana del proiettore di diapositive, per dare risalto alle sue iniziative. Come è oggi ampiamente noto, una fotografia ha l’efficacia persuasiva di mille parole. Di fatto, furono proprio le immagini a rendere consapevoli più di ogni altra cosa i suoi lettori di ciò che tentava di documentare e furono proprio le fotografie ad assicurargli un ruolo stabile nella storia della riforma sociale e della sociologia visuale o fotografia sociale.

Dopo How The Other Half Lives, Riis pubblicò Children of the Poor (1892), sui bambini che abitavano negli slums newyorchesi, e l’autobiografia The Making of an American (1901), oltre a racconti, articoli, reportage e pezzi di vario genere.

Dopo   la morte di Riis le sue foto furono quasi dimenticate, fino a che, trenta anni dopo, il Museum of the City of New York, nel 1947, offrì una importante mostra retrospettiva del suo lavoro che ne consentì la valorizzazione definitiva.

Per quanto appassionato riformatore sociale, Riis, tuttavia, non era immune da molti dei pregiudizi che, in quell’epoca, distorcevano lo sguardo dei contemporanei nei confronti degli immigrati. In particolare, si avverte nel danese la tendenza ad attribuire un insieme predeterminato di caratteristiche, positive e negative, alle varie nazionalità di immigrati, come è evidente dai due capitoli della sua opera – il quinto e il sesto – interamente dedicati agli italiani e qui tradotti per la prima volta nella nostra lingua.

Per Riis, gli italiani occupano il fondo della scala sociale e sono la nazionalità che più si adatta a vivere nelle condizioni di vita peggiori, senza protestare a differenza degli ordinati tedeschi e dei litigiosi irlandesi. La loro remissiva dabbenaggine li rende particolarmente propensi a cadere vittime delle trame lucrative dei propri connazionali, di cui sono una fonte inesauribile di profitto. Gli italiani sono sudici, creduloni, ignoranti, incapaci di apprendere l’inglese, privi di spirito imprenditoriale, capaci solo di “arrangiarsi” tra la melma e i rifiuti di New York. Si adattano a vivere in qualsiasi discarica e in qualsiasi situazione di degrado, per quanto insalubre e disumana. Sono loro le vittime preferite dei landlords locali in grado di estrarre da essi dollari su dollari per servizi che non varrebbero un centesimo.

L’italiano è onesto e legato alla famiglia, ma impulsivo e irascibile e facile alla violenza più belluina. Tra i vizi, il gioco è il suo preferito. Tra i reati, si mostra piuttosto incline all’omicidio e alla truffa in modo tipico e prevedibile. Per il resto, se non contrariato, si dimostra piuttosto bonario e meno pericoloso dell’irlandese e meno scaltro dell’ebreo. Tutti questi tratti confluiranno successivamente in maniera stereotipica e iperbolica nella descrizione del mafioso italo-americano di cui film e romanzi ci hanno consentito di conoscere bene l’evoluzione.

Riis si sofferma in particolare sulle avvilenti condizioni di sovraffollamento in cui vive l’italiano a Mulberry Street, in particolare nel “Bend”, la zona più ripugnante dei bassifondi di New York. Delinquenza, analfabetismo, autoreclusione volontaria, insalubrità, condizioni igieniche pessime, malattie dominano incontrastate in quella che sembra più una discarica di rifiuti umani che un quartiere. Non a caso, Riis auspica la demolizione totale del “Bend” e la creazione di un Park residenziale sulla scia di esperienze analoghe già effettuate in quartieri limitrofi.

L’autore si mostra disgustato dalle condizioni subumane in cui gli italiani accettano di vivere: tuguri senza un sistema di areazione, viveri incommestibili, sostanze nocive, sfruttamento perpetuo, marginalità ributtante. Il sottotesto mai esplicitato è che gli italiani siano antropologicamente e culturalmente inclini a tali condizioni di subalternità e che siano “per natura” diversi da altri popoli come l’irlandese, il tedesco, il danese, il polacco ecc. che mai accondiscenderebbero a una vita del genere. Insomma, il degrado come caratteristica culturale, se non innata, dell’italiano.

Per Riis, dunque, gli italiani sono una “razza” a parte. Ma forse la loro è semplicemente la situazione che tanti disperati nel mondo hanno vissuto e vivono tuttora a causa delle contraddizioni, come si diceva una volta, del sistema capitalistico in cui viviamo.

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Il sistema delle mance negli Stati Uniti

Ti dicono che negli Stati Uniti lo fanno tutti e, quindi, devi farlo anche tu. Ti dicono che non è obbligatorio, ma che, se non lo fai, incorrerai in una serie di sanzioni informali che oscillano dallo sguardo truce a un inseguimento in piena regola. Ti dicono che è un fatto culturale e la cultura, come sempre conta.

Parlo del tipping system, il sistema della mance, quello per cui, in corrispondenza di determinati tipi di servizi, di regola quelli offerti da camerieri, baristi, tassisti, fattorini d’albergo ecc., è “costume” lasciare sempre una mancia, che deve corrispondere a un 15-20% del costo del servizio in riconoscimento della buona qualità dello stesso. Le percentuali cambiano in ragione del tipo di servizio offerto e di chi lo offre, per cui è necessario informarsi in anticipo su come funzioni il sistema prima di richiedere una prestazione.

L’esempio classico è il servizio offerto dal cameriere in un ristorante. Provate a non dargli/darle un centesimo di mancia. Vedrete immediatamente la sua reazione, che può arrivare, come testimoniato da molti turisti europei, a un vero e proprio inseguimento all’esterno del ristorante con tanto di domanda in attesa di urgente risposta: “Why didn’t you tip me? Did I do something wrong?”. La cultura della mancia è talmente pervasiva che chi rifiuta di conformarvisi sarà indotto a provare un fortissimo senso di colpa con relativa sensazione di umiliazione. Non è obbligatorio per legge. Ma se non lo fai…

Ti spiegano che, negli Stati Uniti, lavoratori come camerieri e baristi ricevono solo il salario minimo (minimum wage) e che hanno necessità di integrarlo con le mance dei clienti per sopravvivere. Senza mance, il loro lavoro non avrebbe senso né sostanza. Sarebbero ridotti alla fame. Non è insolito, anzi è praticamente la norma, che la somma delle mance ricevute superi il salario che si percepisce. Si scopre addirittura che le mance sono una “componente” del salario minimo. Ciò significa che il datore di lavoro paga un salario inferiore al minimum wage, sapendo che esso sarà integrato dalle mance. Ma come è possibile che un lavoratore accetti una situazione del genere? Come è possibile che gli americani non si ribellino a un sistema così ipocrita?

Non c’è bisogno di essere marxisti per capire che il tipping system è il modo ingiusto attraverso cui i datori di lavoro americani scaricano sul cliente parte della retribuzione del lavoratore, inducendo nel cliente stesso colpa e vergogna in caso di insolvenza; colpa e vergogna che, invece, dovrebbero ricadere sul datore di lavoro, la cui coscienza è assolta dalla culturalizzazione del tipping system, vale a dire dal fatto che ormai la cultura della mancia, così come diffusa oggi, è stata completamente interiorizzata  dall’americano medio, il quale non ne percepisce più l’ingiustizia di fondo.

La vera vergogna è che tutti accettano questo sistema, dandolo per scontato. E che sia un sistema vergognoso, lo attesta la storia. Come riferisce Kerry Segrave, in Tipping: An American Social History of Gratitudes, dopo la Guerra civile e la fine della schiavitù, gli schiavi liberati si ritrovarono a svolgere lavori particolarmente umili, come servitori, camerieri, barbieri; gli unici lavori concretamente disponibili. Per camerieri e facchini, tuttavia, il problema fu che molti datori di lavoro rifiutarono di pagarli con il pretesto che la loro paga sarebbe stata sostituita dalle mance dei clienti e dei viaggiatori. In altre parole, una continuazione della schiavitù sotto mentite spoglie. Ed è questo il sistema ereditato dagli americani di oggi: una forma di sfruttamento sotto false apparenze culturali.

Rifiutarsi di conformarsi al tipping system non è, dunque, un attentato all’etichetta, una differenza culturale, una distrazione del turista. Né la mancia è un modo per ottenere un più sollecito servizio (secondo una storia apocrifa, tip sarebbe l’acronimo di “To Insure Promptness”, “Per garantirsi un servizio rapido”). Non accettare il sistema delle mance negli stati uniti significa opporsi a un sistema che rovescia sul cliente doveri e colpe che dovrebbero ricadere sul datore di lavoro. Il tipping system è la glorificazione patinata di cultura di uno dei più subdoli e viscidi sistemi di sfruttamento del lavoro oggi esistente. Un sistema che non è altro che un retaggio della schiavitù e un modo per perpetuare una istituzione che dovrebbe essere da tempo scomparsa. Anche culturalmente.

 

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Gli equivoci della Sindrome dell’accento straniero

Alcune patologie esercitano sull’osservatore esterno un fascino almeno pari all’imbarazzo che esse suscitano in chi ne è affetto. Ne è un esempio la Sindrome dell’accento straniero o FAS (Foreign Accent Syndrome), una condizione alquanto rara – dal 1907, anno del suo battesimo, ad oggi, si contano appena 200 casi circa – che induce chi ne soffre a parlare la sua lingua con un accento percepito come straniero.

Il padre putativo di questa strana patologia è il francese Pierre Marie, autore, nel 1907, di un articolo intitolato “Présentation de malades atteints d’anarthrie par lésion de l’hémisphère gauche du cerveau” (Bull. Mem. Soc. Med. Hop. Paris 1, 158–160). Chi è colpito dalla FAS, di solito a seguito di un ictus, un problema neurologico o un tumore, presenta difficoltà di pronuncia delle parole di cui è ben consapevole e che al non esperto sembrano ricalcare un accento straniero.

Si cita così il caso del parigino che, dopo un ictus, cominciò a parlare con un accento strasburghese; di un abruzzese che, dopo un infarto cerebrale, prese a parlare con un accento tedesco; dell’americano che, in seguito al trattamento per un tumore, sviluppò un accento irlandese.

Nella maggior parte dei casi, il nuovo accento rappresenta solo una variante geografica della lingua già parlata dal soggetto (ad esempio, una variante dell’inglese o dell’americano). Raramente, si tratta dell’accento di una lingua mai parlata o sconosciuta. Ma è a proposito di quest’ultimo caso che si è creata una sorta di mitologia sulla Foreign Accent Syndrome.

In molte versioni pop di questa condizione, si dà a intendere che la persona riesca improvvisamente a parlare perfettamente con un accento straniero, se non addirittura a esprimersi in una lingua mai parlata in precedenza. Secondo queste interpretazioni, la FAS presenterebbe, dunque, sovrapposizioni con la xenoglossia, quasi che il soggetto entrasse in una sorta di trance neurale che consente di produrre parole in una o più lingue a lui sconosciute in condizioni normali.

In realtà, non accade niente del genere. È l’osservatore esterno, spesso a digiuno di conoscenze relative ad altre lingue, ad interpretare un accento spostato come un accento straniero o ad attribuire al soggetto FAS competenze linguistiche che non possiede. Da un punto di vista clinico, non si conosce un solo paziente che abbia migliorato le proprie conoscenze linguistiche dopo una lesione al cervello. Chi è affetto da FAS non parla improvvisamente e magicamente con un impeccabile accento straniero; spesso si limita a spostare gli accenti delle parole generando nell’interlocutore una sensazione di straniamento che a sua volta favorisce un disguido linguistico.

Le produzioni linguistiche dei soggetti affetti da Sindrome dell’accento straniero sono, quindi, l’esito di un equivoco non dissimile da quello che coinvolge chi viene preso per straniero solo perché parla la sua lingua con accento diverso da quello del suo interlocutore. In altri casi, l’ignoranza dell’interlocutore induce ad attribuzioni errate ancora più clamorose. È noto a tutti, ad esempio, che chi non parla nessuna lingua straniera può confondere una lingua con un’altra o un accento con un altro, generando ulteriori equivoci da cui possono scaturire conseguenze comiche o deleterie. Oppure, può ritenere che chi è in grado di mettere insieme poche parole di una lingua straniera abbia una buona, o addirittura ottima, conoscenza di quella lingua.

Di equivoci del genere è zeppa la vita quotidiana. Ciò su cui spesso non riflettiamo è che le nostre incompetenze linguistiche possono favorire anche interpretazioni scorrette di patologie, come mostra l’esempio “affascinante” della Sindrome dell’accento straniero.

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Come si pronuncia mass media?

Lo dico subito. Dissento dalla Treccani. Totalmente. E anche da tutti coloro che concordano con la Treccani, come Corrado Augias.

La Treccani dice:

La pronuncia corretta del sostantivo media (o mass media), con il quale si indicano i mezzi di informazione (giornali, televisione, internet), è mèdia, perché la parola deriva dal latino mèdia (plurale di medium ‘mezzo’). Sconsigliabile, anche se molto frequente, è la pronuncia mìdia, derivata da quella inglese.

Non sono d’accordo. È vero che la parola media deriva in ultima analisi dal latino, ma la Treccani sembra dimenticare che medium è un termine esistente nella lingua inglese con il significato di “mezzo”, “strumento”, “veicolo”, “tramite”. Anzi, è proprio in questa lingua che assume il significato tutto moderno di “mezzo di comunicazione” che, associato a mass, “massa”, altra parola inglese, anche se simile al termine italiano “massa”, rende la seguente definizione: “the means of communication that reach large numbers of people in a short time, such as television, newspapers, magazines, and radio”.

Mass media è una espressione che ricaviamo direttamente dall’inglese, costruita secondo le regole della lingua inglese, composta da due parole inglesi, imparentate con il latino. Dovremmo considerarla come tie-break (che pure ci ostiniamo a pronunciate “taibrek”), fast food o home page, che non pronunciamo all’italiana, “come si scrivono”.

Mi sembra che quello di mass media sia uno di quei casi in cui la comune parentela latina sembra far dimenticare che alcune parole possono entrare a far parte di nuovi lessici, modificando pronuncia e significato: il latino medium non ha gli stessi significati dell’inglese medium, né potrebbe averli a costo di ingombranti anacronismi.

Sono d’accordo, dunque, con l’Accademia della Crusca, molto più saggia, che così conclude a proposito della pronuncia di massa media:

I termini arrivano in italiano, sì, dal latino, ma attraverso la mediazione di altre lingue. La pronuncia “all’inglese” è quindi più aderente alla lingua dalla quale i termini, con questi particolari significati, provengono in italiano.

Eppure, quanti soloni in televisione continuano a bacchettare chi dice mìdia!

E quando medium significa “Sensitivo, chi agisce come tramite con gli spiriti o provoca fenomeni paranormali”? Questa accezione, come ci ricordano i curatori del sito Una parola al giorno, ci arriva tramite la mediazione del francese:

A fine Ottocento, quando insieme alla psicologia impazza la parapsicologia, [il termine medium] passa attraverso il francese médium per indicare chi ha, o di solito pretende di avere, il potere di fare da tramite con il mondo degli spiriti — ma in maniera più generica chi può suscitare e manifestare fenomeni paranormali, alla telecinesi alla levitazione all’ectoplasma.

Insomma, le vie della pronuncia sono infinite e incrociano variazioni linguistiche, storiche, geografiche complesse, non riconducibili alla medesima origine latina.

Come conclude l’Accademia della Crusca, bisogna sempre essere consapevoli della storia che le parole hanno avuto, senza liofilizzarla – aggiungo io – in onore di una unica lingua, solo perché è la più antica.

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Perché odio l’espressione “Buon lavoro”

In inglese, non esiste un equivalente esatto di “Buon lavoro”, inteso come  forma di augurio o saluto. Nessuno direbbe: Good work. Un nativo anglofono preferirebbe: Have a nice day o Enjoy your day at work. Altra cosa è Good job che serve a complimentare qualcuno per aver fatto qualcosa di buono e che si potrebbe tradurre con “Bel lavoro”, “Ben fatto”.

Lo confesso. Vorrei che “Buon lavoro” non esistesse nemmeno in italiano. Ogni volta che qualcuno me lo dice, mi sento accapponare la pelle. Una sensazione di disagio mi attanaglia e richiede qualche secondo per dissiparsi. Perché? Perché, per la maggior parte degli individui, me compreso, il lavoro nella società contemporanea rappresenta una condizione sconfortante, avvilente, deprimente. Tanto più in quanto pretende di assorbire gran parte del nostro budget temporale.

Il lavoro, come dice l’anarchico Bob Black, è noia, imposizione, monotonia, insoddisfazione, alienazione. Un ricatto (“Se non lavori, non mangi”), un veleno (in quanto uccide la nostra vitalità, canalizzandola verso obiettivi meschini), un serial killer dell’anima (perché fa strame seriale della nostra creatività spontanea, sopprimendola o mettendola al servizio degli interessi di istituzioni che di noi, in fondo, non sanno che farsene).

Il lavoro uccide non solo il tempo che dedichiamo al lavoro, ma anche il resto del tempo: quello che dedichiamo ai giochi, alle vacanze, al “tempo libero” (che, in realtà, è tempo destinato al recupero delle forze una volta che queste sono state svuotate dal lavoro e serve a ricaricarci in vista di nuove “sedute di profonda alienazione”).

Il lavoro “ci disciplina”, facendo di noi degli esseri “ragionevoli” e “maturi”, termini con i quali si certifica la totale integrazione passiva dell’individuo nel sistema di cui fa parte. Ci disciplina anche nel senso che plasma i nostri desideri, la nostra volontà, le nostre pulsioni in modi che, prima di iniziare a lavorare, non condivideremmo di certo.

Il lavoro ci schiavizza, costringendoci a venderci in cambio di denaro e trasformando la nostra dignità in una merce come tante altre.

Il lavoro ci rende individui malati e fragili: ci fa ammalare a causa delle posture innaturali che ci costringe ad assumere e ci rende fragili psichicamente perché senza di esso sentiamo di non valere niente.

Il lavoro limita la nostra libertà, obbligandoci a rimanere nello stesso luogo e in compagnia delle stesse persone per giorni, mesi e anni.

Il lavoro rende indolenti le nostre facoltà mentali e intellettuali, incanalandole verso attività stagnanti, stabilite da altri.

Perfino il lavoro nelle pubbliche amministrazioni – quello dei “fannulloni” – risulta letale: sedentarizza milioni di individui, relegandoli in cubicoli asfittici e impegnandoli in attività prive di senso, governate dal diritto amministrativo, che costituiscono una perversione totale delle potenzialità umane a tutto vantaggio di istituzioni indifferenti che si reggono su codici aberranti e abbacinanti (nel senso che il dipendente pubblico non riesce a vedere oltre ciò che i codici del diritto gli impongono).

Insomma, “Buon lavoro” è un augurio di servilismo, sottomissione e alienazione duratura. Un’offesa o, al più, un ossimoro.

Non ditemelo mai più! Fate come gli inglesi!

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Maltrattamenti come “fatti culturali”

È di pochi giorni fa la notizia dell’assoluzione di un cittadino del Bangladesh, accusato di maltrattamento nei confronti della moglie. La motivazione dell’assoluzione, nelle parole del giudice, sta nel fatto che

I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine.

L’uomo è stato, dunque, assolto perché, secondo il giudice, i maltrattamenti ai danni della moglie – una cugina a cui si sarebbe unito nell’ambito di un matrimonio combinato – rientrerebbero nel contesto culturale bengalese, costituendo un caso di reato culturalmente motivato. Con questo termine si intendono comportamenti realizzati da un soggetto appartenente ad un gruppo culturale di minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza. Questi stessi comportamenti, tuttavia, all’interno del gruppo culturale del soggetto agente sono condonati, o accettati come comportamenti normali, o approvati, o addirittura incoraggiati o imposti.

Le domande che di solito ci poniamo quando veniamo a conoscenza di notizie del genere sono: il diritto penale deve riservare al responsabile di condotte del genere un trattamento di favore? La motivazione culturale deve essere completamente ignorata o considerata addirittura un’aggravante?

Le risposte a queste domande sono piuttosto varie.

C’è chi, ad esempio, sostiene che da una motivazione culturale non dovrebbero discendere attenuanti di nessun tipo perché, altrimenti, si conferirebbe agli immigrati, autori di reati culturalmente motivati, il privilegio di essere sottoposti a norme penali diverse da quelle applicabili al resto della popolazione, con conseguente violazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge penale.

Secondo un punto di vista diverso, il principio di uguaglianza dovrebbe essere considerato in maniera più ampia, trattando in modo diverso i diversi, al fine di ottenere una giustizia individualizzata, capace di ritagliare la risposta punitiva sulla colpevolezza individuale del reo. È il cosiddetto principio dell’uguaglianza sostanziale che si manifesta in particolare nelle società di tipo multinazionale, come quella anglosassone.

Secondo i sostenitori di questa posizione, chi commette un reato per motivi culturali dovrebbe usufruire delle cosiddette cultural defenses, termine con il quale si fa riferimento a  qualsiasi causa che consente all’imputato di non essere condannato per ragioni culturali, senza trovare corrispondenza con alcuno degli istituti giuridici nazionali in termini pro reo, quali le scriminanti o cause di giustificazione che escludono l’antigiuridicità del fatto, le scusanti che escludono la colpevolezza, le esimenti che escludono la punibilità, ovvero le circostanze attenuanti che consentono una riduzione della pena irrogata in concreto.

Una terza posizione, infine, riconosce nella motivazione culturale un motivo abietto e futile: in sostanza una circostanza aggravante del reato che fa di questo un fatto meritevole di una punizione più severa. C’è da dire, però, che, al di fuori di casi specifici, raramente la motivazione culturale è considerata una circostanza aggravante a livello giurisprudenziale.

Insomma, il tema dei “reati culturalmente motivati”, è più che mai attuale ed è probabile che sia destinato a rinnovare la propria attualità con l’intensificarsi dei processi migratori mondiali e dei rapporti tra culture diverse.

Uno dei classici della sociologia che si è occupato in maniera pioneristica di questi temi è Thorsten Sellin, di cui ho tradotto qualche anno fa Conflitto culturale e crimine, la sua opera principale. Una lettura utilissima per chiunque sia interessato a queste tematiche al di là degli strilli di pancia o dei commenti superficiali.

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Sul luogo comune: “Potrebbe essere sua figlia”

Le nostre relazioni sono tacitamente regolate da una norma tanto rispettata quanto potente. Non se ne parla quasi mai perché non è codificata in nessun libro, ma esercita su di noi una pressione alla quale spesso non siamo in grado di opporre resistenza. Questa norma inespressa afferma che si può provare legittimamente attrazione sessuale e sentimentale solo per persone che sono, più o meno, della nostra stessa età. Tale norma è stata scoperta dalla sociologia da tempo e va sotto il nome ufficiale di “regola della omogamia” (Burgess, Wallin, 1943).

È la norma in base alla quale si rimprovera il vecchio che perde la testa per la giovane o la vecchia che si mostra in giro con il suo toy boy; si deride il cinquantenne con pancia prominente e calvizie che corteggia la ventenne o la trentenne che prova attrazione per chi “potrebbe essere suo nonno”. Tutte queste situazioni sono sanzionate nel nome di una identità anagrafica normativa che dovrebbe governare la dinamica dei rapporti umani in maniera rigorosa, ma che nessuno ha il coraggio di codificare (tranne poche eccezioni, come vedremo).

In generale, “omogamia” è il termine con cui si definisce il fenomeno per cui ci si unisce a persone “più o meno” simili socialmente: il professionista tende a sposare la professionista, l’operaio l’operaia, il laureato la laureata, chi ha un alto reddito preferisce unirsi a chi ha un alto reddito; chi è italiano privilegia un partner italiano; il cattolico predilige chi condivide la sua religione ecc. Insomma, la sociologia sembra confermare la massima “Chi si somiglia si piglia” a scapito dell’altra che pure ha una certa diffusione: “Gli opposti si attraggono”. “Il simile attrae il simile”, dicono i sociologi, snocciolando esiti di sondaggi e statistiche varie. Chi è troppo diverso da noi, di solito, non incontra il nostro favore sentimentale. Sociologicamente, gli opposti raramente si attraggono.

Naturalmente, come per tutti i fenomeni sociali, l’enfasi va posta sul “più o meno”. In sociologia, non esistono determinismi forti. Non ci sono regole che predicono, in maniera matematica, la condotta umana. Infatti, la norma dell’omogamia tollera svariate eccezioni, tanto più numerose nella nostra epoca caratterizzata da globalizzazione economica, migrazioni spinte, “contaminazioni” culturali, declino delle forme tradizionali di esistenza, maggiore “apertura”. Di solito, si ritiene, infatti, che più i coniugi sono simili, più la società è da considerarsi chiusa. Al contrario, più i coniugi provengono da retroterra sociali diversi, più la società è aperta.

L’omogamia riguarda, come detto, anche l’età. Ci si unisce a persone più o meno della stessa età e tale norma è così possente che ogni discostamento da essa viene percepito dai più come una forma di devianza sociale, sanzionabile in maniera informale tramite battute ironiche, commenti di riprovazione, allusioni di inopportunità o sospetti di interesse. Se, ad esempio, una donna molto giovane si unisce in sposa a un uomo anziano, non mancherà chi subodorerà un matrimonio di interesse (“L’ha sposato perché vuole l’eredità”). In altri casi, se la differenza anagrafica è piuttosto alta, si parlerà di plagio, lavaggio del cervello, labilità mentale, fascino, truffa, differenze culturali (“Lei proviene da una cultura dove la differenza di età è ammessa”) o comunque si invocherà un motivo patologico per spiegare l’“inspiegabile” unione.

Ad esempio, si convocheranno interpretazioni psicoanalitiche basate sulla ricerca di una figura paterna o materna assente o su un complesso edipico irrisolto, termine con il quale in psicoanalisi, come è noto, si può provare a spiegare qualsiasi inclinazione comportamentale. Una conseguenza sociale della riprovazione cui sono soggette le coppie tra cui esistono forti differenze di età (dette anche “eterogame”) è che i “devianti” avvertiranno una condizione di tensione che, in casi estremi, potrà compromettere la riuscita della coppia, secondo il noto meccanismo della profezia che si autoavvera. Non è un caso che le coppie eterogame tendano a essere più fragili di quelle omogame (Arosio, 2006).

Nel passato, le differenze di età tra i coniugi erano oggetto di azioni informali di riprovazione, veri e propri rituali di derisione, detti “scampanate”, “fischiate”, “charivaris” (in francese), che prendevano di mira le condotte più chiacchierate dei membri della comunità, soprattutto per motivi riguardanti la sfera sessuale o familiare. Così, un vecchio che avesse sposato una donna molto più giovane poteva vedersi irriso da un gruppo di giovani attraverso un rumoroso rituale notturno a base di schiamazzi e fracassi, che poteva concludersi o no con un tentativo di conciliazione da parte del destinatario. La conciliazione prevedeva la distribuzione di doni, come segno di indennizzo simbolico per essere riaccolti all’interno della comunità in qualità di membri moralmente degni, ma non sempre funzionava. A volte, l’infrazione dell’ordine sociale omogamo era troppo lacerante perché essa fosse riparabile (Fincardi, 2005).

Al giorno d’oggi, le scampanate non esistono più. Permangono sanzioni più morbide – risatine, commenti maliziosi, pettegolezzi poco indulgenti ecc. – a caratterizzare come “strane” queste unioni, a conferma del fatto che la disapprovazione nei loro confronti è profondamente radicata nell’immaginario collettivo ed emerge informalmente in tante situazioni quotidiane. Tuttavia, a differenza, di altre norme sociali che prescrivono o proibiscono condotte sulla base dell’età (ad esempio, non si è imputabili prima dei 14 anni; si può votare al compimento dei 18 anni; si va in pensione a 67 anni), non esistono norme formali che impediscano o sanzionino rapporti sessuali o sentimentali caratterizzati da forti differenze di età tra i partner.

L’unica eccezione è costituita da quello che gli anglofoni chiamano statutory rape e che in Italia è disciplinato dall’art. 609 quater del Codice penale, che stabilisce che debba essere punito come se avesse commesso violenza sessuale chiunque adulto compia atti sessuali con una persona non ancora quattordicenne o che non abbia compiuto i sedici anni, se il colpevole è l’ascendente, il genitore, anche adottivo, o il convivente di questi, il tutore o “altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza”. In sostanza, è proibito all’adulto fare sesso con un minore che non abbia raggiunto l’età del consenso (14 anni).

In mancanza di una norma formalmente codificata, dunque, frasi come “Potrebbe essere sua figlia” o “Ma è solo una bambina” hanno lo scopo di imporre informalmente un modello omogamico di rapporto sentimentale; un modello che rimanda a un mondo ordinato in cui si hanno rapporti sessuali e sentimentali solo con persone “più o meno” della stessa età. Si tratta di frasi che presuppongono la condivisione di una sequenza legittima di sviluppo della biografia individuale che stabilisce che cosa è possibile (normale, legittimo) fare in relazione all’età. Esempi simili sono dati da frasi come: “È troppo giovane per sposarsi”; “Studia ancora alla sua età”; “È l’età giusta per avere un figlio”.

L’efficacia ammonitoria di una frase come “Potrebbe essere sua figlia” sta nel fatto che essa scoraggia il rapporto sessuale e sentimentale basato su una forte differenza di età fra i partner equiparandolo subdolamente a un rapporto incestuoso, ossia tabuizzando per analogia il rapporto. Naturalmente, il tabuizzato potrebbe controbattere facendo semplicemente notare che la partner in questione “non è sua figlia” e che, dunque, non c’è alcun rapporto incestuoso. Del resto, osserviamo che un/una partner che ha più o meno la nostra stessa età potrebbe essere “nostro fratello/nostra sorella” o “nostro cugino/nostra cugina”, ma nessuno tabuizzerebbe tramite un’analogia incestuosa un rapporto tra coetanei non imparentati tra loro, a riprova del fatto che “Potrebbe essere sua figlia” è solo un espediente retorico – basato su una precisa figura retorica: l’analogia – per sanzionare una situazione giudicata sconveniente; un luogo comune per ricondurre all’ordine “naturale” delle cose i sentimenti umani.

Fra l’altro, l’ammonizione contenuta nella frase “Potrebbe essere sua figlia” non tiene conto del fatto che nessuno più di un vecchio è in grado di apprezzare la giovinezza, età ormai distante e perciò tanto appetibile per chi è in là con il tempo. Ma, come è noto, la nostra società ageista condanna i desideri sessuali senili, attribuendo significati morali negativi a chi intende continuare la propria vita sentimentale, soprattutto se si sente attratto/attratta da donne/uomini molto più giovani: attrazione che, di solito, viene squalificata in termini di “manifestazione di andropausa/menopausa”, “desiderio di essere rassicurati sulla propria virilità/femminilità”, “terrore di invecchiare” o “ricerca di compensazione rispetto a un senso incombente di vuoto”. Chi osa contravvenire ai limiti sessuali e sentimentali che la società impone alla vecchiaia viene condannato con epiteti quali “vecchio bavoso”, “vecchio satiro”, “vecchio pervertito”, “babbione”, “carampana” o, addirittura, “pedofilo”, perché la norma implicita è che i vecchi dovrebbero aver raggiunto “la pace dei sensi” e chi non lo fa ha in sé qualcosa di esecrabile.

Il monito “Potrebbe essere sua figlia” nasconde, dunque, significati discriminatori, ageisti, screditanti, tabuizzanti profondamente radicati nel senso comune e, quindi, dati per scontati. Chi prenderebbe, infatti, le parti di un vecchio satiro innamorato di una venticinquenne? Il simile ama il simile. A tal punto che chi ama il dissimile mette a repentaglio il suo status di membro accettabile della collettività.

Riferimenti:

Arosio, L., 2006, “La diversità crea fragilità. Un approfondimento sulle cause dell’instabilità coniugale”, Rassegna italiana di sociologia, XLVII, n. 3, pp. 441-464.

Burgess, E. W., Wallin, P., 1943, “Homogamy in Social Characteristics”, American Journal of Sociology, vol. 49, n. 2, pp. 109-124.

Fincardi, M., 2005, Derisioni notturne. Racconti di serenate alla rovescia, Spartaco, Santa Maria Capua Vetere (CE).

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Perché si dorme in chiesa (ancora)?

Ho già dedicato due post (vedi qui e qui) al piccolo sermone di Jonathan Swift (1667-1745), intitolato A Sermon upon sleeping in church, pubblicato postumo nel 1776, un curioso testo, solo apparentemente ozioso, dedicato a uno dei “misteri” più inquietanti della fede: perché le persone si addormentano in chiesa? E quali ne sono le cause?

Rimandando ai due post citati per alcune considerazioni generali, offro qui nella mia personale traduzione il testo dello scrittore irlandese, facendolo precedere da una breve introduzione che, unendo teologia e psicologia, mostra come le spiegazioni proposte da Swift sulla narcosi indotta dalle omelie trovino fondamento in alcune teorie della psicologia contemporanea sull’utilizzo delle risorse attentive e sui fenomeni del mind wandering e del decoupling.

La psicologia contemporanea ci insegna che noia e sonnolenza sono consustanziali alla preghiera e alla predicazione, che richiedono una energia più intensa per superare queste comprensibilissime reazioni umane alla monotonia e alla ripetitività. Il problema è che non tutti sono in grado di dedicarsi intensamente a una maggiore devozione; circostanza che rende la fruizione della predica una chimera religiosa difficilmente attingibile, se non un’impresa sovraumana.

E non basta nemmeno l’esortazione di Giovanni Paolo II, il quale, ad esempio, considerava la corona del rosario, pratica che, come è noto, pare favorire stati di coscienza appannata, «come espressione di quell’amore che non si stanca di tornare alla persona amata con effusioni che, pur simili nella manifestazione, sono sempre nuove per il sentimento che le pervade» (Rosarium Virginis Mariae). Nella realtà, sono tante le persone che abbandonano le loro relazioni amorose proprio perché trovano noiose e ripetitive le effusioni sempre simili dei loro partner.

Insomma, un testo estremamente attuale, ora leggibile gratuitamente e integralmente nella mia traduzione.

 

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