L’inattendibilità dei turisti

Capita a tutti noi, al rientro dalle vacanze, di confrontare le nostre impressioni di viaggio con amici, parenti, conoscenti, colleghi. In queste occasioni, riferiamo conoscenze di vario genere apprese durante la visita che si traducono spesso in giudizi definitivi su questo o quel paese. Tali giudizi assumono forma assoluta tramite formule come: “i francesi sono tutti…”; “i settentrionali si comportano…”; “in Africa, le persone…” ecc.

In quanto turisti, tendiamo a riferire queste conoscenze come “autentiche”, “valide”, “attendibili”, “veritiere”. Ma è davvero così? I turisti sono davvero affidabili quando si esprimono sulle caratteristiche, le qualità, i vizi e le virtù dei popoli che visitano in vacanza?

La risposta deve essere per lo più negativa. I turisti sono spesso inattendibili nei loro resoconti di viaggio. E questo per una serie di motivi.

Innanzitutto, essi basano le proprie affermazioni su visite affrettate della durata di poche ore o giorni nel corso delle quali hanno accesso a luoghi o esperienze programmate e stereotipate, ma limitate, che consentono l’acquisizione di informazioni e conoscenze “previste”. Ciò che non rientra nel “programma” viene escluso di norma dalla visita e considerato non significativo o tipico, sebbene possa fornire informazioni importanti sul luogo che si visita.

Il risultato è che il turista, tornato in patria o nel luogo abituale di vita, tenderà a confermare le conoscenze previste dal “programma” di viaggio. Convaliderà, dunque, nei suoi “rapporti di viaggio” l’idea stereotipata di partenza, inevitabilmente parziale, distorta, riduttiva, riferendola come “autentica”.

In secondo luogo, i turisti tendono a generalizzare a partire da singole esperienze: se capita loro una brutta avventura, ad esempio, tenderanno a proiettare il vissuto di quella esperienza sull’intero luogo visitato e sui suoi abitanti. Un comportamento brusco, una rapina, una truffa saranno sufficienti a bollare tutti gli abitanti del luogo come “antipatici”, “inospitali”, “truffaldini”, “infidi”. Al contrario, un incontro eccitante, un’accoglienza calorosa da parte dello staff dell’hotel in cui si soggiorna serviranno a estendere a tutta la popolazione del posto attributi positivi.

In terzo luogo, i turisti conferiscono agli eventi che capita loro di vivere un’importanza esagerata o sottovalutano aspetti che non colpiscono immediatamente la loro attenzione. Ogni esperienza vissuta in vacanza tenderà a essere interpretata come indicatore di strutture caratteriali, urbane, sociali, psicologiche più ampie e profonde. Ciò che non viene vissuto – per mancanza di tempo, per disinteresse, per indifferenza – non esiste o passa in secondo piano. Il turista è estremamente selettivo, ma ciò che colpisce la sua attenzione, sia in senso positivo sia in senso negativo, diviene immediatamente rappresentativo del luogo che visita.

In quarto luogo, i turisti tendono a prestare eccessiva fede alla parola di turisti precedenti, guide turistiche, libri di viaggio, aneddoti, notizie mal comprese dai locali. Queste informazioni “distorte” concorrono a costruire un’immagine inevitabilmente deformata e incompleta del luogo che si visita che, tuttavia, rispecchia per il turista la “verità delle cose”; verità che verrà trasferita come tale in commenti, racconti, resoconti resi ad amici e parenti.

Insomma, c’è qualcosa nel fatto di essere turista che favorisce la parzialità, la distorsione, l’inattendibilità delle conoscenze apprese. Il turista è generalmente inaffidabile. Anche se non lo ammetterà mai.  

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Il peccato cognitivo dell’antropomorfismo

Non c’è dubbio che se dovessimo stilare un elenco dei più gravi peccati cognitivi dell’essere umano, l’antropomorfizzazione, ossia la tendenza a proiettare sugli animali non umani caratteristiche, pensieri, sentimenti ed emozioni umane, sarebbe tra questi. E forse tra i primi posti.

Finanche un osservatore distratto non può non notare come oggi, anche in forza del successo dei movimenti animalisti e di una mutata sensibilità in materia, il nostro rapporto con gli animali sia profondamente cambiato, al punto che il pet è diventato il concorrente principale degli umani sul mercato delle relazioni sociali.

Tale cambiamento è evidente anche dal fatto che gli animali occupano uno spazio sempre maggiore nel mondo dei consumi, tanto che interi settori commerciali si sono affermati con l’intento dichiarato di produrre merci per gli animali: cibo, vestiti, igiene, gadget di ogni tipo, perfino sedute di psicoterapia! Non c’è aspetto del comportamento animale che non sia curato da noi umani. Con il rischio, però,  di vedere in essi “persone” simili a noi in tutto e per tutto e di attribuire loro bisogni, sentimenti, desideri che non hanno.

Così, il cane o il canarino di turno “strizzano l’occhio”, “fanno i dispetti”, “tengono il broncio”, “salutano timidamente”, “fanno i pagliacci”, “mancano di rispetto” o “si comportano in maniera seria”. Un altro rischio è quello di adoperare termini che hanno significati complessi per gli umani e di imporli acriticamente anche agli animali.

Di qui l’interesse del breve articolo di Daniel Q. Estep e Katherine E. M. Bruce, “The concept of rape in non-humans: A critique” (1981), qui tradotto per la prima volta in italiano, che prende le mosse proprio dalla problematicità di termini come “incesto, omosessualità, prostituzione, adulterio, schiavitù, orgasmo e stupro”, quando questi sono applicati a un vasto insieme di comportamenti osservabili nel mondo animale.

Una parola come “stupro”, nello specifico, appare talmente complessa e connotata emotivamente da richiedere particolare attenzione. Per questo gli autori propongono di sostituirla con altre espressioni, più neutrali da un punto di vista denotativo e connotativo.

Lasciando al lettore la sorpresa di scoprire quali siano questi nuovi termini e andando al di là delle riflessioni conchiuse di Estep e Bruce, aggiungerò che questo può essere considerato solo il primo passo verso un nuovo modo di guardare agli animali. Un modo meno antropomorfo, meno umanocentrico, più rispettoso delle specificità e caratteristiche degli animali, i quali non possono essere ridotti al rango di “fornitori di relazioni sociali”, né di surrogati per vite umane incomplete.

Certamente, l’ultimo secolo ha visto l’affermarsi di un atteggiamento più riguardoso nei confronti degli animali, ma anche l’emergere di un contegno “perverso” nei loro confronti, di cui è senz’altro responsabile una deriva antropomorfizzante divenuta ormai senso comune.

Per una trattazione più completa di questa deriva, rimando al quinto capitolo del mio Aloni, stregoni e superstizioni.

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Sulla lamentela “oggi si scrive troppo e si legge poco”

Arnheim lo dichiarò degno di lode. – Ormai ci son quasi soltanto scrittori, e pochissime persone che leggono, – proseguì. – Generale, s’è mai chiesto quanti libri si stampano all’anno? Se ben ricordo escono più di cento volumi al giorno nella sola Germania. E ogni anno si fondano più di mille giornali! Tutti scrivono; ognuno, se gli accomoda, si serve d’ogni pensiero come d’una sua proprietà; nessuno si occupa della responsabilità morale! (Musil, R., 1957, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, p. 548).

Nel mondo della cultura, ci si lamenta spesso del fatto che ci sono più scrittori che lettori. “Tutti vogliono scrivere. Nessuno vuole leggere”. In Italia, questa lamentela assume spesso tinte nazionalistiche: “In Italia tutti vogliono scrivere, nessuno vuole più leggere”, come se si trattasse di un tarlo unicamente nostrano.

A indagare, si scopre che la rimostranza è riferita spesso da scrittori affermati, preoccupati non tanto per le possibili conseguenze nefaste del calo dei lettori, ma del calo delle vendite dei propri libri e della possibile concorrenza di esordienti pronti a insidiare il loro primato (anche se questa preoccupazione non la confesserebbero nemmeno sotto tortura).

C’è poi da intendersi sul significato di “leggere”. Per i letterati, il verbo “leggere” è da intendersi come una sineddoche (la figura retorica della parte per il tutto): vuol dire, cioè, leggere romanzi e poesie di scrittori affermati (o romanzi e poesie scritti da essi stessi). Se si è avidi lettori di fumetti, saggi, manuali, articoli scientifici e altro ancora non si è “veri lettori”. Per loro, una parte – romanzi e poesie – conta più di tutto il resto.

A mio avviso non c’è nulla di male nel fatto di scrivere e pubblicare. Il guaio è quando chi pubblica crede di essere un grande scrittore per questo solo fatto. C’è differenza tra scrivere ed essere “scrittori”. Così come pure tra leggere ed essere “lettori”.

Ma torniamo alla citazione in apertura. Come dimostra Musil, che scriveva nella prima metà del XX secolo, la lamentela del “si scrive troppo e si legge poco” è roba antica. Come è antica la protervia degli scrittori timorosi di vedere minacciate le proprie prerogative. E come accade a tante lamentele, ci dice più cose su chi si lamenta che su ciò di cui ci si lamenta.

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L’ingannevole retorica di Shylock

Mi ha disprezzato e deriso un milione di volte; ha riso delle mie perdite, ha disprezzato i miei guadagni e deriso la mia nazione, reso freddi i miei amici, infuocato i miei nemici.

E qual è il motivo? Sono un ebreo.

Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano?

Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?

E se ci fate un torto, non ci vendicheremo?

Se noi siamo come voi in tutto vi assomiglieremo anche in questo.

Se un ebreo fa un torto ad un cristiano, qual è la sua umiltà? Vendetta.

La cattiveria che tu mi insegni io la metterò in pratica; e sarà duro ma eseguirò meglio le vostre istruzioni.

Il monologo di Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare è arcinoto. L’usuraio ebreo difende la propria identità, rivendicando il diritto a essere considerato soprattutto un essere umano, al di là delle appartenenze religiose. “Io sono come voi”, protesta Shylock. Perché, come tutti gli esseri umani, anche gli ebrei piangono, ridono, si ammalano, guariscono, muoiono. Il suo discorso intende persuadere lo spettatore, ricorrendo alla strategia retorica dell’identificazione. Se siamo tutti esseri umani – e questo è un fatto – non devono esserci differenze tra noi. È “scontato” che tutti noi, in quanto esseri umani, piangiamo e moriamo. Si tratta di conoscenze ovvie, note a ognuno di noi.

Ma, a questo punto, Shylock introduce un elemento non tanto ovvio, facendolo passare per tale. “Se ci fate un torto, non ci vendicheremo?”. La domanda è assunta come retorica. Essa prevede, cioè, una scontata risposta positiva. Addirittura, qualche parola più avanti, la vendetta viene presentata come un atto di umiltà cristiana. Ma non è così. La vendetta non discende “naturalmente” dal fatto di subire un torto. Il torto si ripara con la giustizia o con il perdono. La vendetta non è l’esito ovvio del torto come il pianto e la morte sono esiti ovvi e naturali del fatto di essere umani.

Che cosa fa, dunque, Shylock nel suo monologo? Elenca una serie di comportamenti propri a tutti gli uomini e le donne – naturali, ovvi, evidenti – per far passare come naturale, ovvia ed evidente anche la vendetta, che di naturale non ha proprio niente. Una sottile, sapiente strategia retorica per convincere della bontà della condotta vendicativa.

A pensarci bene, si tratta di un’arma spesso utilizzata da persuasori di ogni tipo. Si costruisce un terreno comune, si descrivono argomenti ovvi su cui tutti concordano, per poi inserire di soppiatto un argomento non tanto ovvio, lasciando che le descrizioni precedenti lo “contagino” con la propria ovvietà.

Si pensi al politico populista che, richiamando il “naturale” bisogno di sicurezza di ogni essere umano, introduce sottilmente il tema dell’immigrazione come minaccia a quel bisogno. Oppure, si pensi allo scaltro pubblicitario, che, dopo aver mostrato spazi verdi incontaminati, animali liberi nel proprio habitat, bambini che giocano felici a contatto con la natura, inserisce in questo scenario bucolico la merendina di turno, facendola passare per “naturale”. Gli esempi possibili sono infiniti.

Il monologo di Shylock è il prototipo dei tanti discorsi capziosi cui siamo esposti nella quotidianità, che mirano a persuaderci sulla base di ciò che consideriamo scontato. Esso ci seduce con il fascino dell’ovvietà per venderci di contrabbando ciò che ovvio non è. Incarna una strategia di successo a cui cediamo spesso senza nemmeno accorgercene e di cui siamo spesso vittime. A differenza di quanto accade nella commedia di Shakespeare, dove Shylock non persuade nessuno e, anzi, subisce una sorte avversa, uscendo, infine, di scena dopo aver lamentato un malore.

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Virtù e rapine

È del 17 novembre una notizia che, pur lanciata da diverse testate, anche in rete, sembra non aver suscitato particolari commenti, se non dai diretti interessati.

In sintesi, nel biennio 2021-2022, le rapine in banca risultano quasi dimezzate (-46%) rispetto al biennio precedente. Come riporta il sito di Redattore sociale:

Cresce la sicurezza nelle banche che operano in Italia e negli altri comparti più esposti al fenomeno criminale delle rapine. Nel biennio 2021-2022, infatti, a fronte di una ripresa delle rapine totali commesse in Italia (+7,8% rispetto al biennio 2019-2020), è stata registrata una sensibile riduzione del fenomeno in tutti i settori considerati. Il calo più evidente ha riguardato le rapine in banca che si sono quasi dimezzate (-46%). Seguono le rapine ai distributori di carburante (-30,8%), nelle farmacie (-26,6%), negli uffici postali (-25,6%) e nelle tabaccherie (-22,5%). Rapine pressoché stabili negli esercizi commerciali (+0,4%), mentre aumentano quelle commesse nella pubblica via (+14,7%). Sono questi i principali risultati della nuova edizione del Rapporto Intersettoriale sulla Criminalità Predatoria che prende in considerazione le rapine compiute nel 2022 mettendo a confronto i diversi settori più esposti al fenomeno.

Il Rapporto è stato realizzato dagli esperti di OSSIF (il Centro di Ricerca ABI sulla Sicurezza Anticrimine) e del Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale, con la partecipazione di Assovalori, Confcommercio-Imprese per l’Italia, Federazione Italiana Tabaccai, Federdistribuzione, Federfarma, Poste Italiane, UNEM e Italiana Petroli.

Secondo il Direttore Generale dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana), Giovanni Sabatini, tale calo è il risultato “della stretta collaborazione con le Istituzioni e le Forze dell’Ordine. La drastica riduzione del fenomeno delle rapine, che negli ultimi dieci anni ha fatto registrare un calo del 90%, passando dalle 1.242 del 2012 alle 124 del 2022, è il risultato tangibile di questo impegno e conferma che procediamo nella direzione giusta”.

Più che di collaborazione – frase d’obbligo nei comunicati stampa – è probabile, tuttavia, che il calo sia attribuibile a una serie di misure di sicurezza e di prevenzione molto pragmatiche che, negli ultimi decenni, hanno interessato le banche.

Si pensi ai vari sistemi di controllo all’ingresso, alle telecamere sia all’interno sia all’esterno delle banche, alla cassaforte temporizzata che ha limitato la quantità di denaro disponibile, alla formazione ad hoc del personale finalizzata alla migliore gestione possibile dell’emergenza rapina, all’aumentato rischio di essere catturati, alla ridotta appetibilità di questa particolare opportunità illecita.

Insomma, i rapinatori non sono diventati più virtuosi. Semplicemente, è per loro più difficile fare quello che facevano un tempo.

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Gli equivoci dell’indifferenza

Si crede comunemente che chi guarda da un’altra parte quando incrocia un mendicante che chiede l’elemosina sia un individuo cinico e indifferente, privo di cuore, senza un briciolo di umanità. Chi guarda altrove è spesso oggetto delle invettive dei moralisti, che lo accusano di ogni nefandezza. “È l’indifferenza che condanna il mondo” tuonano questi accigliati, esortando a fissare gli occhi negli occhi dell’altro, a riconoscere la sua umanità.

In realtà, varie ricerche psicologiche hanno dimostrato che tale condotta rappresenta un meccanismo di difesa dal rischio di essere eccessivamente coinvolti nella sofferenza altrui. Spesso, anzi, sono proprio le persone più sensibili a distogliere lo sguardo per non cadere vittime della loro stessa umanità. Ognuno di noi può empatizzare solo con un numero ristretto di persone. Se ciò accadesse con tutti, la vita sarebbe semplicemente insopportabile. Nessuno riuscirebbe a vivere portando dentro di sé le sofferenze del mondo intero.

Allo stesso modo, distogliamo lo sguardo quando siamo testimoni di un incidente stradale mortale, quando una persona riporta ferite lancinanti, quando abbiamo davanti a noi il corpo privo di vita di una persona cara.

In tutti questi casi, non è l’indifferenza, ma il rischio emotivo derivante da un eccesso di empatia a determinare il nostro comportamento evitante.

Evitiamo i nostri simili non perché siamo dei mostri, ma perché siamo umani.

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La legge della prudenza di Musil

È cosa fin troppo nota per parlarne: da quando i suoi invitati celebri avevano capito che la serietà dell’impresa non imponeva loro grandi sforzi, si comportavano da esseri umani, e Diotima, che vedeva la sua casa piena di rumore e di intelligenza, era delusa. Poiché era un’anima nobile non conosceva la legge della prudenza secondo la quale l’uomo nella vita privata si comporta al contrario che nella sua professione. Non sapeva che gli uomini politici dopo essersi dati in assemblea dell’impostore e del ladro, al ristorante pranzano amichevolmente l’uno accanto all’altro. Sapeva, ma non ci aveva mai trovato nulla da ridire, che i giudici, dopo aver inflitto a un disgraziato una grave condanna, finito il dibattimento gli stringono compassionevolmente la mano. Che le ballerine oltre al loro mestiere equivoco conducessero sovente una vita di madre irreprensibile l’aveva sentito raccontare e lo trovava addirittura commovente. Le sembrava anche molto bello e simbolico che i principi di tanto in tanto deponessero la corona per non essere che uomini come gli altri. Ma quando s’avvide che anche i principi dello spirito vanno a spasso in incognito, quella doppia esistenza le parve molto strana. Di che passione si tratta, e qual è la legge che governa questa tendenza generale e fa sì che l’uomo, fuori d’ufficio, non vuol far sapere nulla dell’uomo ch’egli è nell’esercizio della professione? Finito il lavoro, quand’è di buon umore, è come uno studio ben rassettato, con gli oggetti di cancelleria rinchiusi nei cassetti e le seggiole allineate. Sono due uomini diversi e non si sa se riprendono la loro vera personalità al mattino o alla sera (Musil, R., 1972, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, p. 415).

Più volte mi è capitato di constatare la verità della “legge della prudenza” di Musil. È come se molte persone riuscissero ad attribuire ai propri ruoli sociali personalità diverse, se non opposte, e non per ipocrisia, ma, probabilmente, perché ambiti diversi sollecitano risposte diverse.

Ci sono persone implacabilmente minuziose quando sono al lavoro e incredibilmente superficiali in famiglia. Dirigenti sadici che si trasformano in agnellini sacrificali al cospetto del partner o dei figli. Professori universitari che sembrano possedere lo scibile umano nel proprio ambito di conoscenza e si rivelano spaventosamente ignoranti in altri ambiti.

Si pensi, per fare un esempio letterario, alla presentazione di Sherlock Holmes fatta da Watson in Uno studio in rosso, il primo libro di Conan Doyle dedicato allo straordinario investigatore: «Cognizioni di Sherlock Holmes. 1. Letteratura: zero. 2. Filosofia: zero. 3. Astronomia: zero. 4. Politica: scarse. 5. Botanica: variabili. 6. Geologia: pratiche, ma limitate. 7. Chimica: profonde. 8. Anatomia: esatte. Ma poco sistematiche».

È vero, altresì, che una persona che esprime giudizi estremamente riprovevoli nei confronti di determinate condotte può rivelarsi estremamente permissivo, se non indulgente, nei confronti di altre.

Credo che tutto ciò avvenga non per una questione di prudenza, come sostiene Musil, ma perché ambienti diversi sollecitano aspetti diversi della nostra personalità, che si manifestano talvolta anche in maniera contradditoria. Si può essere, dunque, persone detestabili nel proprio ambiente professionale e incredibilmente amabili con gli amici; sorridenti con i figli e seriosi con i colleghi. Tanto che persone diverse farebbero fatica a riconoscere elementi comuni nelle descrizioni della stessa persona provenienti da contesti sociali diversi.

Più che schizofrenia o prudenza, parlerei di complessità della persona umana, chiamata a interpretare nella nostra società ruoli sempre più esigenti e spesso conflittuali tra loro. Questo significa che non esiste un sé unico e autentico rispetto al quale tutti gli altri sé sarebbero finzioni. Non serve a nulla, dunque, invocare un “sii te stesso” perché siamo tanti sé quanti ne richiede la vita.

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Il martello di Maslow

Lo psicologo Abraham Maslow (1908-1970), noto in tutto il mondo per la sua teoria della piramide dei bisogni, scriveva nelle prime pagine di Psychology of science (Maurice Bassett Publishing, 1966):

I remember seeing an elaborate and complicated automatic washing machine for automobiles that did a beautiful job of washing them. But it could do only that, and everything else that got into its clutches was treated as if it were an automobile to be washed.

I suppose it is tempting, if the only tool you have is a hammer, to treat everything as if it were a nail (p. 15).

Traduzione:

Ricordo di aver visto una complicata e intricata macchina automatica per lavare le automobili che svolgeva il suo compito meravigliosamente. Ma non riusciva a fare altro, e qualsiasi altra cosa capitasse tra i suoi artigli veniva trattata come se fosse un’automobile da lavare.

Immagino che sia allettante, se l’unico attrezzo che si ha a disposizione è un martello, trattare ogni cosa come se fosse un chiodo.

L’osservazione quasi incidentale di Maslow – nel suo libro la parola “martello” compare solo in questa citazione – è stata trasformata da psicologi e sociologi in una sorta di meccanismo cognitivo distorcente, battezzato appunto “martello di Maslow”, per indicare la tentazione di risolvere problemi di ogni genere con l’unico strumento, metodo, risorsa che si ha a disposizione.

L’azione subdola del “martello” è evidente nel modo di agire di molti “esperti”. Se si posseggono competenze in un determinato campo è facile cedere alla tentazione di spiegare tutto alla luce di quelle competenze e dei metodi a esse sottesi.

Durante la pandemia, ad esempio, i virologi hanno improvvisamente acquisito popolarità perché percepiti da media e pubblico, come gli unici (o quasi) in grado di dire qualcosa di sensato sul virus.  Il problema è sorto quando gli stessi virologi sono stati chiamati a fornire opinioni e spiegazioni su altre questioni centrali e marginali della nostra società per le quali non possedevano competenze specifiche, ma che venivano affrontate con le conoscenze e i metodi a loro noti in virtù della professione che svolgevano. Il risultato è stato spesso la creazione di confusione, timori, controversie e, in alcuni casi, opinioni del tutto prive di fondamento, ma spacciate per affidabili in virtù dell’autorità della fonte.

Ugualmente, se siamo economisti, abbiamo la tentazione di interpretare ogni aspetto della realtà in chiave economica.

Se siamo policy makers e se le uniche policy a cui siamo abituati consistono in divieti è facile la tentazione di risolvere ogni problema sociale con ulteriori divieti.

Se siamo insegnanti, potremmo essere tentati di assegnare alla scuola la palma di principale agenzia di istruzione, dimenticando che oggi le opportunità di apprendere sono molteplici ed eterogenee. E così via.

Il punto è che ad alcuni di questi “martelli” riconosciamo una autorità indiscussa che non ci consente di individuare la parzialità del punto di vista presentato. Durante la pandemia, ad esempio, è proprio in virtù della assoluta fiducia nei confronti di alcuni rappresentanti istituzionali che abbiamo accolto senza batter ciglio misure di contenimento del virus che, con il senno di poi, si sono rivelate spropositate o del tutto inutili (come i coprifuoco).

È importante, dunque, imparare a riconoscere i vari “martelli” che ci vengono presentati ogni giorno come la soluzione definitiva ai mille problemi della vita quotidiana, per non diventare tutti dei “chiodi” da battere in modo improprio.

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La fallacia naturalistica

La fallacia naturalistica consiste nel ricavare una norma o principio con valore prescrittivo da un fatto che accade in natura. Essa assume la forma: “Dal momento che le cose stanno in questo modo, devono essere così”. È una fallacia particolarmente capziosa perché si insinua nei nostri discorsi in maniera subdola imponendosi spesso con un’evidenza apparentemente incontrovertibile. Non a caso viene adoperata da persuasori, politici, retori ecc. per dimostrare la verità dei loro assunti. L’errore sta nel fatto che non è corretto logicamente derivare da premesse esclusivamente descrittive una conclusione prescrittiva (avente, cioè, la funzione di guidare il comportamento degli individui).

L’espressione si trova per la prima volta nei Principia ethica (1903) del filosofo inglese George Edward Moore con il nome di naturalistic fallacy, ma di essa si trova traccia già nell’ultima pagina del Trattato sulla natura umana, libro terzo, sezione prima del filosofo scozzese David Hume, il quale scrive:

In ogni sistema morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l’autore va avanti per un po’ ragionando nel modo più consueto, e afferma l’esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è o non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve, o non deve, esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti.

La fallacia naturalistica è manifestata tipicamente da chi sostiene che qualcosa è buono o giusto perché è naturale oppure che qualcosa è immorale perché è contro natura. Gli esempi sono numerosi.

Prendiamo l’omosessualità. Quando le conoscenze sul comportamento sessuale degli animali non erano sviluppate, si diceva che l’omosessualità era contro natura perché non presente nel mondo animale. Oggi che si conosce quanto sia diffusa tra gli animali, il medesimo argomento naturalistico viene adoperato per conferire un significato di normalità all’omosessualità.

Chi osserva la quantità di violenza presente nel mondo animale tende talvolta a ritenere che essa sia ineliminabile dalle comunità umane perché iscritta nei nostri geni. In questo modo, si ricava un principio prescrittivo (l’uomo è irrimediabilmente violento) da un’osservazione naturalistica.

La fallacia è insita anche in tante argomentazioni che sostengono la “naturale” tendenza dell’umanità a una dieta vegetariana sulla scorta del fatto che alcune specie animali, pure forti e robuste, come il rinoceronte, si nutrono esclusivamente di foglie, radici e rami.

Alcune posizioni sessuali sono state storicamente giudicate innaturali fino a quando non ci si è resi conto che, in realtà, erano molto diffuse in natura.

In tutti questi esempi, l’osservazione di un comportamento nel mondo animale viene tradotta in una prescrizione per gli umani. L’assurdità di questa argomentazione è evidente se consideriamo alcune condotte che caratterizzano il comportamento di alcune specie animali.

Prendiamo il caso della mantide religiosa. Questa, non appena smette di copulare con il maschio, lo decapita e se ne nutre. Dovremmo forse trarre da questo comportamento una sorta di giustificazione all’uccisione dei maschi umani da parte delle femmine dopo la copula?

Oppure, consideriamo lo stupro. Dovrebbe forse essere lecito perché è presente nel comportamento di diverse specie animali, ad esempio, negli oranghi maschi, nella mosca scorpione e nel germano reale?

Ancora. Gli etologi Wrangham e Peterson affermano che «lungi dall’essere anormale, l’infanticidio per gli animali è routine» (2005, p. 129). L’infanticidio, ad esempio, è diffuso presso i gorilla. Significa forse che l’infanticidio dovrebbe essere ammesso anche nelle società umane?

In sostanza, non è possibile giustificare un comportamento (“lo stupro è buono”) solo perché esso è presente in natura (“gli oranghi stuprano”). I parallelismi con gli animali non devono mai essere una scusa per legittimare un comportamento.

La fallacia naturalistica riscuote, tuttavia, parecchio successo presso i contemporanei a causa dell’alone quasi magico che circonda il termine “natura”. Ecco perché è particolarmente temibile e dovremmo sempre stare in guardia quando ci viene proposta in una conversazione o in un discorso.

Riferimenti

Hume, D., 2008, Opere filosofiche. Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari.

Wrangham, R., Peterson, D., 2005, Maschi bestiali. Basi biologiche della violenza, Franco Muzzio Editore, Roma.

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Chiedere la causa della morte

Succede quando muore una persona famosa o un conoscente che non vedevamo da un po’. La prima cosa che chiediamo o ci chiediamo, una volta superata la fase della costernazione emotiva, è per quale ragione sia morto (o morta). È più forte di noi. Dobbiamo saperlo. È stato un incidente stradale? Una caduta? Una malattia? E, se sì, un infarto, rapido e straziante, o “il male del secolo”, dal decorso lungo e agonizzante? Una malattia del sistema respiratorio? O dell’apparato genito-urinario?

La causa della morte è un’informazione per noi vitale perché serve a mettere ordine nelle nostre credenze e a rassicurarci. Certo, tutti dobbiamo morire, ma individuare una causa, magari riconducibile a una malattia o a un evento prevedibili, e quindi, prevenibili, ci tranquillizza perché ci dice che quella causa era potenzialmente evitabile. Se essa non si fosse verificata, la persona famosa o il conoscente sarebbero ancora in vita.

E, allora, un pensiero corre al nostro stile di vita, al nostro stato di salute, alle condizioni del nostro cuore, delle nostre arterie, dei nostri polmoni. “Per fortuna, non fumo, altrimenti…”. “Tutti sanno che eccedeva con l’alcol, io invece…”. “Aveva una vita disordinata ed è per questo che…”. “Sono sempre stato prudente, io!”.  E immediatamente eseguiamo, sperando che nessuno se ne accorga, un confronto tra la nostra vita e quella di chi in vita non è più: per ricavarne un motivo di conforto, una differenza essenziale, uno scarto vitale.

Questo ruminare sulle cause conferma e rafforza la credenza principale che sorregge le nostre vite, ossia che, potenzialmente, siamo tutti immortali fino a prova contraria. Anzi, fino a evento o malattia contrari. Si tratta di un’illusione fondamentale che ci dà speranza e forza di vivere e che, se venisse meno, renderebbe le nostre esistenze più miserevoli.

Chiedere la causa serve, allora, a preservare il nostro ottimismo nei confronti della vita, tanto che ci angustiamo se apprendiamo che il personaggio o il conoscente deceduti conducevano una vita moderata, priva di rischi o eccessi. “Qualcosa doveva pur esserci!”, ci raccontiamo e andiamo alla ricerca, nella nostra mente, delle possibili cause di quella morte. E spesso la troviamo. Ne basta una, una qualsiasi, anche un semplice sospetto, e il nostro sistema di credenze è salvo.

“Oh Signore, dacci oggi la nostra illusione quotidiana” invoca il nostro inconscio.

E per nutrire l’ illusione di immortalità che conferisce senso alla nostra vita andiamo a caccia di una causa di morte.

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