Babbo Natale come Halloween

«I bambini credevano a lungo a Babbo Natale e ai neonati trovati sotto un cavolo o in una rosa» (p. 39) dice Annie Ernaux in Gli anni, ricordando il tempo della sua fanciullezza.

Oggi le cose sono cambiate, ma l’associazione tra Babbo Natale e il Natale stesso è ancora indissolubile, tanto che sarebbe impossibile immaginare questa festa senza il paffuto omone vestito di rossa con barba e baffi bianchi.

Eppure, c’è stato un tempo in cui la Chiesa cattolica nutriva nei confronti di Santa Claus (come lo definiscono gli anglofoni) gli stessi sospetti che oggi nutre nei confronti di Halloween, accusata di essere una festa pagana, che non ha nulla a che fare con le nostre tradizioni.

Ce lo ricorda il celebre antropologo Claude Lévi-Strauss, in un suo articolo del 1952 per «Les Temps Modernes» intitolato “Babbo Natale suppliziato” (contenuto in Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino, 1967), che inizia così:

Le feste natalizie 1951 resteranno contrassegnate, in Francia, da una polemica a cui la stampa e l’opinione pubblica si sono dimostrati, sembra, molto sensibili, e che ha introdotto, nell’atmosfera gioiosa che è abituale in questo periodo dell’anno, un’insolita nota di acredine. Già da parecchi mesi, le autorità ecclesiastiche, per bocca di certi prelati, avevano espresso la loro disapprovazione per la crescente importanza che le famiglie e i commercianti accordano al personaggio di Babbo Natale. Esse denunciavano un «impaganimento» inquietante della festa della natività, che distoglie lo spirito pubblico dal senso propriamente cristiano di tale commemorazione, a beneficio di un mito senza valore religioso. Questi attacchi si sono intensificati alla vigilia di Natale; certo con più discrezione, ma con altrettanta fermezza, la Chiesa protestante ha unito la sua voce a quella della Chiesa cattolica. Inoltre, sui giornali appaiono lettere di lettori e articoli che attestano, in forme diverse ma in generale ostili alla posizione ecclesiastica, l’interesse risvegliato dalla faccenda. Infine, il punto culminante fu raggiunto il 24 dicembre, in occasione di una manifestazione di cui il corrispondente del giornale «France Soir» ha dato notizia nei seguenti termini:

DINANZI AI BAMBINI DEI PATRONATI

BABBO NATALE È STATO BRUCIATO

SUL SAGRATO DELLA CATTEDRALE DI DIGIONE

Digione, 24 dicembre (nostro servizio)
Babbo Natale è stato impiccato ieri pomeriggio alle grate della cattedrale di Digione e bruciato pubblicamente sul sagrato. Questa spettacolare esecuzione si è svolta alla presenza di molte centinaia dì bambini dei patronati. Era stata decisa in accordo con il clero, che aveva condannato Babbo Natale come usurpatore ed eretico. L’accusa rivoltagli era di paganizzare la festa del Natale e di essersi insediato in essa come un cuculo occupandovi sempre maggior posto. Gli viene rimproverato soprattutto di essersi introdotto in tutte le scuole pubbliche da cui il presepio è scrupolosamente bandito» (pp. 247-248).

Per quanto sembri incredibile, c’è stato, dunque, un tempo, circa 75 anni fa, in cui la Chiesa Cattolica rivolgeva alla figura di Babbo Natale le stesse accuse che oggi rivolge contro Halloween: “Babbo Natale è un personaggio paganeggiante che non ha nulla a che vedere con la ‘vera’ tradizione del Natale”.

Per Lévi-Strauss, la Chiesa aveva ragione perché la credenza in Babbo Natale rappresentava, a suo avviso, «il bastione più solido e uno dei focolai più attivi del paganesimo nell’uomo moderno» (p. 264).

Oggi, però, nemmeno i sacerdoti più retrivi chiedono di bruciare Babbo Natale in effigie. La sua figura è stata completamente assorbita dalla “nostra tradizione” e a nessuno verrebbe in mente di additarlo a simbolo pagano.

Molti altri elementi del Natale hanno origini “pagane” o, comunque, non puramente cristiane: l’albero che addobbiamo ogni anno, l’usanza di scambiarsi regali, la scelta della data del 25 dicembre per celebrare la nascita di Gesù, il baciarsi sotto il vischio ecc. Eppure, non li avvertiamo come tali. Essi fanno parte a tutti gli effetti di quella dimensione festosa che chiamiamo il Natale e sono legittimati in tal senso dal tempo trascorso.

È possibile allora vaticinare che, tra qualche generazione, anche Halloween sarà avvertita come festa tradizionale e non più spuria e che nessun sacerdote sparerà a zero contro zucche e scherzetti?

Credo di sì, ma risentiamoci tra qualche lustro.

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Le molteplici forme dell’ignoranza

Una delle conclusioni a cui giunge il recente libro dello storico Peter Burke, Ignoranza. Una storia globale (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2023) è che l’ignoranza è un campo di studi ancora largamente… ignorato. La tendenza umana a privilegiare il sapere e, quindi, ciò che si conosce ha portato a trascurare ciò che non si conosce. Ma ciò che non si conosce non è una semplice assenza, ma è spesso il risultato di una strategia deliberata del potere che ha interesse a mantenere i suoi sudditi in uno stato di conoscenza assente.

Se questo è vero, è vero anche che l’ignoranza assume diverse forme che, con Burke, possiamo provare a sintetizzare.

Innanzitutto, c’è quella che lo studioso Robert Proctor definisce agnotology, ovvero lo studio dell’ignoranza culturalmente indotta, in particolare la pubblicazione di dati scientifici imprecisi o ingannevoli, come quelli, analizzati dallo stesso Proctor, prodotti dall’industria americana del tabacco per depistare l’attenzione dell’opinione pubblica dal nesso tabacco-cancro. Anche le istituzioni militari e farmaceutiche sono note per la produzione di informazioni distorte e parziali, finalizzate a diffondere un tipo di conoscenza – e quindi di ignoranza – favorevole ai propri interessi. Coniando il termine agnotology, Proctor osserva come l’ignoranza sia più della semplice assenza di conoscenza: essa può considerarsi come l’esito di conflitti politici e culturali tesi a promuovere dubbio, incertezza, ignoranza appunto, relativamente a questioni concrete e importanti spesso nell’interesse di determinati gruppi di potere. L’ignoranza può, dunque, essere costruita attivamente come parte di un piano deliberato.

C’è poi la “dotta ignoranza”, termine coniato dal filosofo quattrocentesco Niccolò Cusano,il quale credeva che al concetto di Dio ci si possa avvicinare soltanto negando quello che egli non è, nel presupposto che Dio sia ineffabile e quindi non conoscibile direttamente.

C’è l’ignoranza organizzativa, provocata dalla diseguale distribuzione della conoscenza all’interno di una organizzazione. L’ignoranza organizzativa è funzionale sia al mantenimento di differenziali di potere all’interno della gerarchia organizzativa sia al più pragmatico svolgimento dei compiti da parte dei singoli membri dell’organizzazione (quella che gli americani chiamano need-to-know-basis).

Ci sono i known knowns, conoscenze di cui si è consapevoli, ciò che si sa di sapere; i known unknowns, le conoscenze inconsce, ciò che non si sa di sapere; gli unknown knowns, ciò che si sa di non sapere; gli unknown unknowns, ciò che non si sa di non sapere.

C’è l’ignoranza selettiva di chi sceglie di non sapere (ad esempio, scegliere di non sapere se si ha un tumore) e l’ignoranza utile o virtuosa (come quando l’ignoranza dell’infedeltà del proprio partner contribuisce al perdurare del matrimonio).

C’è l’ignoranza bianca di chi, bianco, ignora o ha false credenze sui neri e l’ignoranza asimmetrica (quando il gruppo A sa meno del gruppo B o viceversa).

Si potrebbe continuare.

L’ignoranza è un campo quasi inesplorato, eppure essa contribuisce a orientare le nostre esistenze al pari della conoscenza (anche se lo ignoriamo).  

Se desiderate sapere di più sull’argomento, vi rimando alla lettura del libro di Burke.

Vi raccomando anche il mio Alcune funzioni sociali dell’ignoranza (Armando Editore, Roma, 2020) che illumina su alcune sorprendenti funzioni dell’ignoranza nella società. Probabilmente l’unico libro di sociologia dell’ignoranza presente sul mercato editoriale.

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È proibito recitare il rosario in Spagna?

Vari siti italiani (ad esempio questo, questo e questo) hanno recentemente segnalato con allarme che il governo spagnolo del socialista Pedro Sanchez avrebbe deciso di impedire la recita pubblica del rosario; una decisione che minerebbe alla base le più elementari libertà religiose e che è stata accolta con scandalo da vari esponenti cattolici.

In particolare, il governo spagnolo avrebbe vietato una serie di manifestazioni, caratterizzate dalla recita collettiva del rosario, che hanno avuto luogo dinanzi alla sede del PSOE (il Partito socialista operaio spagnolo) a Madrid alla fine dello scorso novembre.

Secondo María García, presidentessa dell’Observatorio para la Libertad Religiosa, si tratterebbe di un attentato clamoroso alla libertà religiosa, una minaccia intollerabile da parte di un governo totalitario.

Ma le cose stanno davvero così? Il governo spagnolo proibisce la recita del rosario o la preghiera in generale come accadeva nell’Unione Sovietica dell’epoca staliniana?

In realtà, come riferisce una debunker spagnola, «ciò che è stato vietato non è la preghiera religiosa, quanto piuttosto l’organizzazione di una serie di proteste non comunicate entro i termini stabiliti dalla legge». Quello che molti siti di parte non dicono, infatti, è che la recita del rosario era parte integrante di una serie di proteste non autorizzate da parte del Governo spagnolo, aventi una finalità sostanzialmente politica.

La legge spagnola stabilisce che

lo svolgimento di riunioni in luoghi di pubblico transito e di manifestazioni devono essere comunicate per iscritto all’autorità governativa corrispondente dagli organizzatori o promotori delle stesse, con un preavviso di almeno dieci giorni di calendario e di trenta al massimo” e che “quando sussistono cause straordinarie e gravi che giustifichino l’urgenza di convocare e tenere riunioni in luoghi di pubblico trasporto o manifestazioni, la comunicazione (…) può essere effettuata con almeno ventiquattro ore di anticipo.

Gli organizzatori delle proteste, dunque, non si sono attenuti alle norme che disciplinano lo svolgimento delle manifestazioni pubbliche. Nessun divieto di pregare. Semplicemente, l’obbligo di far rispettare una legge.

Far passare un divieto imposto dalla legge per una violazione di un diritto basilare è una delle più vecchie strategie propagandistiche utilizzate in ambito politico. In particolare, l’uso di un simbolo religioso come il rosario per fini politici è una pratica a cui anche noi italiani siamo abituati. Si pensi all’uso strumentale del rosario da parte di Matteo Salvini in occasione di comizi politici dove la corona religiosa serve ad “accreditare” posizioni sovraniste o contrarie agli immigrati “in nome di Dio, della patria e della tradizione”.

Su questo e altri aspetti sociali e psicologici del rosario, pubblicherò fra qualche mese un volume che, per la prima volta, discuterà di questo apparentemente innocuo ausilio alla preghiera con il contributo delle scienze sociali.

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L’inattendibilità dei turisti

Capita a tutti noi, al rientro dalle vacanze, di confrontare le nostre impressioni di viaggio con amici, parenti, conoscenti, colleghi. In queste occasioni, riferiamo conoscenze di vario genere apprese durante la visita che si traducono spesso in giudizi definitivi su questo o quel paese. Tali giudizi assumono forma assoluta tramite formule come: “i francesi sono tutti…”; “i settentrionali si comportano…”; “in Africa, le persone…” ecc.

In quanto turisti, tendiamo a riferire queste conoscenze come “autentiche”, “valide”, “attendibili”, “veritiere”. Ma è davvero così? I turisti sono davvero affidabili quando si esprimono sulle caratteristiche, le qualità, i vizi e le virtù dei popoli che visitano in vacanza?

La risposta deve essere per lo più negativa. I turisti sono spesso inattendibili nei loro resoconti di viaggio. E questo per una serie di motivi.

Innanzitutto, essi basano le proprie affermazioni su visite affrettate della durata di poche ore o giorni nel corso delle quali hanno accesso a luoghi o esperienze programmate e stereotipate, ma limitate, che consentono l’acquisizione di informazioni e conoscenze “previste”. Ciò che non rientra nel “programma” viene escluso di norma dalla visita e considerato non significativo o tipico, sebbene possa fornire informazioni importanti sul luogo che si visita.

Il risultato è che il turista, tornato in patria o nel luogo abituale di vita, tenderà a confermare le conoscenze previste dal “programma” di viaggio. Convaliderà, dunque, nei suoi “rapporti di viaggio” l’idea stereotipata di partenza, inevitabilmente parziale, distorta, riduttiva, riferendola come “autentica”.

In secondo luogo, i turisti tendono a generalizzare a partire da singole esperienze: se capita loro una brutta avventura, ad esempio, tenderanno a proiettare il vissuto di quella esperienza sull’intero luogo visitato e sui suoi abitanti. Un comportamento brusco, una rapina, una truffa saranno sufficienti a bollare tutti gli abitanti del luogo come “antipatici”, “inospitali”, “truffaldini”, “infidi”. Al contrario, un incontro eccitante, un’accoglienza calorosa da parte dello staff dell’hotel in cui si soggiorna serviranno a estendere a tutta la popolazione del posto attributi positivi.

In terzo luogo, i turisti conferiscono agli eventi che capita loro di vivere un’importanza esagerata o sottovalutano aspetti che non colpiscono immediatamente la loro attenzione. Ogni esperienza vissuta in vacanza tenderà a essere interpretata come indicatore di strutture caratteriali, urbane, sociali, psicologiche più ampie e profonde. Ciò che non viene vissuto – per mancanza di tempo, per disinteresse, per indifferenza – non esiste o passa in secondo piano. Il turista è estremamente selettivo, ma ciò che colpisce la sua attenzione, sia in senso positivo sia in senso negativo, diviene immediatamente rappresentativo del luogo che visita.

In quarto luogo, i turisti tendono a prestare eccessiva fede alla parola di turisti precedenti, guide turistiche, libri di viaggio, aneddoti, notizie mal comprese dai locali. Queste informazioni “distorte” concorrono a costruire un’immagine inevitabilmente deformata e incompleta del luogo che si visita che, tuttavia, rispecchia per il turista la “verità delle cose”; verità che verrà trasferita come tale in commenti, racconti, resoconti resi ad amici e parenti.

Insomma, c’è qualcosa nel fatto di essere turista che favorisce la parzialità, la distorsione, l’inattendibilità delle conoscenze apprese. Il turista è generalmente inaffidabile. Anche se non lo ammetterà mai.  

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Il peccato cognitivo dell’antropomorfismo

Non c’è dubbio che se dovessimo stilare un elenco dei più gravi peccati cognitivi dell’essere umano, l’antropomorfizzazione, ossia la tendenza a proiettare sugli animali non umani caratteristiche, pensieri, sentimenti ed emozioni umane, sarebbe tra questi. E forse tra i primi posti.

Finanche un osservatore distratto non può non notare come oggi, anche in forza del successo dei movimenti animalisti e di una mutata sensibilità in materia, il nostro rapporto con gli animali sia profondamente cambiato, al punto che il pet è diventato il concorrente principale degli umani sul mercato delle relazioni sociali.

Tale cambiamento è evidente anche dal fatto che gli animali occupano uno spazio sempre maggiore nel mondo dei consumi, tanto che interi settori commerciali si sono affermati con l’intento dichiarato di produrre merci per gli animali: cibo, vestiti, igiene, gadget di ogni tipo, perfino sedute di psicoterapia! Non c’è aspetto del comportamento animale che non sia curato da noi umani. Con il rischio, però,  di vedere in essi “persone” simili a noi in tutto e per tutto e di attribuire loro bisogni, sentimenti, desideri che non hanno.

Così, il cane o il canarino di turno “strizzano l’occhio”, “fanno i dispetti”, “tengono il broncio”, “salutano timidamente”, “fanno i pagliacci”, “mancano di rispetto” o “si comportano in maniera seria”. Un altro rischio è quello di adoperare termini che hanno significati complessi per gli umani e di imporli acriticamente anche agli animali.

Di qui l’interesse del breve articolo di Daniel Q. Estep e Katherine E. M. Bruce, “The concept of rape in non-humans: A critique” (1981), qui tradotto per la prima volta in italiano, che prende le mosse proprio dalla problematicità di termini come “incesto, omosessualità, prostituzione, adulterio, schiavitù, orgasmo e stupro”, quando questi sono applicati a un vasto insieme di comportamenti osservabili nel mondo animale.

Una parola come “stupro”, nello specifico, appare talmente complessa e connotata emotivamente da richiedere particolare attenzione. Per questo gli autori propongono di sostituirla con altre espressioni, più neutrali da un punto di vista denotativo e connotativo.

Lasciando al lettore la sorpresa di scoprire quali siano questi nuovi termini e andando al di là delle riflessioni conchiuse di Estep e Bruce, aggiungerò che questo può essere considerato solo il primo passo verso un nuovo modo di guardare agli animali. Un modo meno antropomorfo, meno umanocentrico, più rispettoso delle specificità e caratteristiche degli animali, i quali non possono essere ridotti al rango di “fornitori di relazioni sociali”, né di surrogati per vite umane incomplete.

Certamente, l’ultimo secolo ha visto l’affermarsi di un atteggiamento più riguardoso nei confronti degli animali, ma anche l’emergere di un contegno “perverso” nei loro confronti, di cui è senz’altro responsabile una deriva antropomorfizzante divenuta ormai senso comune.

Per una trattazione più completa di questa deriva, rimando al quinto capitolo del mio Aloni, stregoni e superstizioni.

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Sulla lamentela “oggi si scrive troppo e si legge poco”

Arnheim lo dichiarò degno di lode. – Ormai ci son quasi soltanto scrittori, e pochissime persone che leggono, – proseguì. – Generale, s’è mai chiesto quanti libri si stampano all’anno? Se ben ricordo escono più di cento volumi al giorno nella sola Germania. E ogni anno si fondano più di mille giornali! Tutti scrivono; ognuno, se gli accomoda, si serve d’ogni pensiero come d’una sua proprietà; nessuno si occupa della responsabilità morale! (Musil, R., 1957, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, p. 548).

Nel mondo della cultura, ci si lamenta spesso del fatto che ci sono più scrittori che lettori. “Tutti vogliono scrivere. Nessuno vuole leggere”. In Italia, questa lamentela assume spesso tinte nazionalistiche: “In Italia tutti vogliono scrivere, nessuno vuole più leggere”, come se si trattasse di un tarlo unicamente nostrano.

A indagare, si scopre che la rimostranza è riferita spesso da scrittori affermati, preoccupati non tanto per le possibili conseguenze nefaste del calo dei lettori, ma del calo delle vendite dei propri libri e della possibile concorrenza di esordienti pronti a insidiare il loro primato (anche se questa preoccupazione non la confesserebbero nemmeno sotto tortura).

C’è poi da intendersi sul significato di “leggere”. Per i letterati, il verbo “leggere” è da intendersi come una sineddoche (la figura retorica della parte per il tutto): vuol dire, cioè, leggere romanzi e poesie di scrittori affermati (o romanzi e poesie scritti da essi stessi). Se si è avidi lettori di fumetti, saggi, manuali, articoli scientifici e altro ancora non si è “veri lettori”. Per loro, una parte – romanzi e poesie – conta più di tutto il resto.

A mio avviso non c’è nulla di male nel fatto di scrivere e pubblicare. Il guaio è quando chi pubblica crede di essere un grande scrittore per questo solo fatto. C’è differenza tra scrivere ed essere “scrittori”. Così come pure tra leggere ed essere “lettori”.

Ma torniamo alla citazione in apertura. Come dimostra Musil, che scriveva nella prima metà del XX secolo, la lamentela del “si scrive troppo e si legge poco” è roba antica. Come è antica la protervia degli scrittori timorosi di vedere minacciate le proprie prerogative. E come accade a tante lamentele, ci dice più cose su chi si lamenta che su ciò di cui ci si lamenta.

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L’ingannevole retorica di Shylock

Mi ha disprezzato e deriso un milione di volte; ha riso delle mie perdite, ha disprezzato i miei guadagni e deriso la mia nazione, reso freddi i miei amici, infuocato i miei nemici.

E qual è il motivo? Sono un ebreo.

Ma un ebreo non ha occhi? Un ebreo non ha mani, organi, misure, sensi, affetti, passioni, non mangia lo stesso cibo, non viene ferito con le stesse armi, non è soggetto agli stessi disastri, non guarisce allo stesso modo, non sente caldo o freddo nelle stesse estati e inverni allo stesso modo di un cristiano?

Se ci ferite noi non sanguiniamo? Se ci solleticate, noi non ridiamo? Se ci avvelenate noi non moriamo?

E se ci fate un torto, non ci vendicheremo?

Se noi siamo come voi in tutto vi assomiglieremo anche in questo.

Se un ebreo fa un torto ad un cristiano, qual è la sua umiltà? Vendetta.

La cattiveria che tu mi insegni io la metterò in pratica; e sarà duro ma eseguirò meglio le vostre istruzioni.

Il monologo di Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare è arcinoto. L’usuraio ebreo difende la propria identità, rivendicando il diritto a essere considerato soprattutto un essere umano, al di là delle appartenenze religiose. “Io sono come voi”, protesta Shylock. Perché, come tutti gli esseri umani, anche gli ebrei piangono, ridono, si ammalano, guariscono, muoiono. Il suo discorso intende persuadere lo spettatore, ricorrendo alla strategia retorica dell’identificazione. Se siamo tutti esseri umani – e questo è un fatto – non devono esserci differenze tra noi. È “scontato” che tutti noi, in quanto esseri umani, piangiamo e moriamo. Si tratta di conoscenze ovvie, note a ognuno di noi.

Ma, a questo punto, Shylock introduce un elemento non tanto ovvio, facendolo passare per tale. “Se ci fate un torto, non ci vendicheremo?”. La domanda è assunta come retorica. Essa prevede, cioè, una scontata risposta positiva. Addirittura, qualche parola più avanti, la vendetta viene presentata come un atto di umiltà cristiana. Ma non è così. La vendetta non discende “naturalmente” dal fatto di subire un torto. Il torto si ripara con la giustizia o con il perdono. La vendetta non è l’esito ovvio del torto come il pianto e la morte sono esiti ovvi e naturali del fatto di essere umani.

Che cosa fa, dunque, Shylock nel suo monologo? Elenca una serie di comportamenti propri a tutti gli uomini e le donne – naturali, ovvi, evidenti – per far passare come naturale, ovvia ed evidente anche la vendetta, che di naturale non ha proprio niente. Una sottile, sapiente strategia retorica per convincere della bontà della condotta vendicativa.

A pensarci bene, si tratta di un’arma spesso utilizzata da persuasori di ogni tipo. Si costruisce un terreno comune, si descrivono argomenti ovvi su cui tutti concordano, per poi inserire di soppiatto un argomento non tanto ovvio, lasciando che le descrizioni precedenti lo “contagino” con la propria ovvietà.

Si pensi al politico populista che, richiamando il “naturale” bisogno di sicurezza di ogni essere umano, introduce sottilmente il tema dell’immigrazione come minaccia a quel bisogno. Oppure, si pensi allo scaltro pubblicitario, che, dopo aver mostrato spazi verdi incontaminati, animali liberi nel proprio habitat, bambini che giocano felici a contatto con la natura, inserisce in questo scenario bucolico la merendina di turno, facendola passare per “naturale”. Gli esempi possibili sono infiniti.

Il monologo di Shylock è il prototipo dei tanti discorsi capziosi cui siamo esposti nella quotidianità, che mirano a persuaderci sulla base di ciò che consideriamo scontato. Esso ci seduce con il fascino dell’ovvietà per venderci di contrabbando ciò che ovvio non è. Incarna una strategia di successo a cui cediamo spesso senza nemmeno accorgercene e di cui siamo spesso vittime. A differenza di quanto accade nella commedia di Shakespeare, dove Shylock non persuade nessuno e, anzi, subisce una sorte avversa, uscendo, infine, di scena dopo aver lamentato un malore.

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Virtù e rapine

È del 17 novembre una notizia che, pur lanciata da diverse testate, anche in rete, sembra non aver suscitato particolari commenti, se non dai diretti interessati.

In sintesi, nel biennio 2021-2022, le rapine in banca risultano quasi dimezzate (-46%) rispetto al biennio precedente. Come riporta il sito di Redattore sociale:

Cresce la sicurezza nelle banche che operano in Italia e negli altri comparti più esposti al fenomeno criminale delle rapine. Nel biennio 2021-2022, infatti, a fronte di una ripresa delle rapine totali commesse in Italia (+7,8% rispetto al biennio 2019-2020), è stata registrata una sensibile riduzione del fenomeno in tutti i settori considerati. Il calo più evidente ha riguardato le rapine in banca che si sono quasi dimezzate (-46%). Seguono le rapine ai distributori di carburante (-30,8%), nelle farmacie (-26,6%), negli uffici postali (-25,6%) e nelle tabaccherie (-22,5%). Rapine pressoché stabili negli esercizi commerciali (+0,4%), mentre aumentano quelle commesse nella pubblica via (+14,7%). Sono questi i principali risultati della nuova edizione del Rapporto Intersettoriale sulla Criminalità Predatoria che prende in considerazione le rapine compiute nel 2022 mettendo a confronto i diversi settori più esposti al fenomeno.

Il Rapporto è stato realizzato dagli esperti di OSSIF (il Centro di Ricerca ABI sulla Sicurezza Anticrimine) e del Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale, con la partecipazione di Assovalori, Confcommercio-Imprese per l’Italia, Federazione Italiana Tabaccai, Federdistribuzione, Federfarma, Poste Italiane, UNEM e Italiana Petroli.

Secondo il Direttore Generale dell’ABI (Associazione Bancaria Italiana), Giovanni Sabatini, tale calo è il risultato “della stretta collaborazione con le Istituzioni e le Forze dell’Ordine. La drastica riduzione del fenomeno delle rapine, che negli ultimi dieci anni ha fatto registrare un calo del 90%, passando dalle 1.242 del 2012 alle 124 del 2022, è il risultato tangibile di questo impegno e conferma che procediamo nella direzione giusta”.

Più che di collaborazione – frase d’obbligo nei comunicati stampa – è probabile, tuttavia, che il calo sia attribuibile a una serie di misure di sicurezza e di prevenzione molto pragmatiche che, negli ultimi decenni, hanno interessato le banche.

Si pensi ai vari sistemi di controllo all’ingresso, alle telecamere sia all’interno sia all’esterno delle banche, alla cassaforte temporizzata che ha limitato la quantità di denaro disponibile, alla formazione ad hoc del personale finalizzata alla migliore gestione possibile dell’emergenza rapina, all’aumentato rischio di essere catturati, alla ridotta appetibilità di questa particolare opportunità illecita.

Insomma, i rapinatori non sono diventati più virtuosi. Semplicemente, è per loro più difficile fare quello che facevano un tempo.

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Gli equivoci dell’indifferenza

Si crede comunemente che chi guarda da un’altra parte quando incrocia un mendicante che chiede l’elemosina sia un individuo cinico e indifferente, privo di cuore, senza un briciolo di umanità. Chi guarda altrove è spesso oggetto delle invettive dei moralisti, che lo accusano di ogni nefandezza. “È l’indifferenza che condanna il mondo” tuonano questi accigliati, esortando a fissare gli occhi negli occhi dell’altro, a riconoscere la sua umanità.

In realtà, varie ricerche psicologiche hanno dimostrato che tale condotta rappresenta un meccanismo di difesa dal rischio di essere eccessivamente coinvolti nella sofferenza altrui. Spesso, anzi, sono proprio le persone più sensibili a distogliere lo sguardo per non cadere vittime della loro stessa umanità. Ognuno di noi può empatizzare solo con un numero ristretto di persone. Se ciò accadesse con tutti, la vita sarebbe semplicemente insopportabile. Nessuno riuscirebbe a vivere portando dentro di sé le sofferenze del mondo intero.

Allo stesso modo, distogliamo lo sguardo quando siamo testimoni di un incidente stradale mortale, quando una persona riporta ferite lancinanti, quando abbiamo davanti a noi il corpo privo di vita di una persona cara.

In tutti questi casi, non è l’indifferenza, ma il rischio emotivo derivante da un eccesso di empatia a determinare il nostro comportamento evitante.

Evitiamo i nostri simili non perché siamo dei mostri, ma perché siamo umani.

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La legge della prudenza di Musil

È cosa fin troppo nota per parlarne: da quando i suoi invitati celebri avevano capito che la serietà dell’impresa non imponeva loro grandi sforzi, si comportavano da esseri umani, e Diotima, che vedeva la sua casa piena di rumore e di intelligenza, era delusa. Poiché era un’anima nobile non conosceva la legge della prudenza secondo la quale l’uomo nella vita privata si comporta al contrario che nella sua professione. Non sapeva che gli uomini politici dopo essersi dati in assemblea dell’impostore e del ladro, al ristorante pranzano amichevolmente l’uno accanto all’altro. Sapeva, ma non ci aveva mai trovato nulla da ridire, che i giudici, dopo aver inflitto a un disgraziato una grave condanna, finito il dibattimento gli stringono compassionevolmente la mano. Che le ballerine oltre al loro mestiere equivoco conducessero sovente una vita di madre irreprensibile l’aveva sentito raccontare e lo trovava addirittura commovente. Le sembrava anche molto bello e simbolico che i principi di tanto in tanto deponessero la corona per non essere che uomini come gli altri. Ma quando s’avvide che anche i principi dello spirito vanno a spasso in incognito, quella doppia esistenza le parve molto strana. Di che passione si tratta, e qual è la legge che governa questa tendenza generale e fa sì che l’uomo, fuori d’ufficio, non vuol far sapere nulla dell’uomo ch’egli è nell’esercizio della professione? Finito il lavoro, quand’è di buon umore, è come uno studio ben rassettato, con gli oggetti di cancelleria rinchiusi nei cassetti e le seggiole allineate. Sono due uomini diversi e non si sa se riprendono la loro vera personalità al mattino o alla sera (Musil, R., 1972, L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, p. 415).

Più volte mi è capitato di constatare la verità della “legge della prudenza” di Musil. È come se molte persone riuscissero ad attribuire ai propri ruoli sociali personalità diverse, se non opposte, e non per ipocrisia, ma, probabilmente, perché ambiti diversi sollecitano risposte diverse.

Ci sono persone implacabilmente minuziose quando sono al lavoro e incredibilmente superficiali in famiglia. Dirigenti sadici che si trasformano in agnellini sacrificali al cospetto del partner o dei figli. Professori universitari che sembrano possedere lo scibile umano nel proprio ambito di conoscenza e si rivelano spaventosamente ignoranti in altri ambiti.

Si pensi, per fare un esempio letterario, alla presentazione di Sherlock Holmes fatta da Watson in Uno studio in rosso, il primo libro di Conan Doyle dedicato allo straordinario investigatore: «Cognizioni di Sherlock Holmes. 1. Letteratura: zero. 2. Filosofia: zero. 3. Astronomia: zero. 4. Politica: scarse. 5. Botanica: variabili. 6. Geologia: pratiche, ma limitate. 7. Chimica: profonde. 8. Anatomia: esatte. Ma poco sistematiche».

È vero, altresì, che una persona che esprime giudizi estremamente riprovevoli nei confronti di determinate condotte può rivelarsi estremamente permissivo, se non indulgente, nei confronti di altre.

Credo che tutto ciò avvenga non per una questione di prudenza, come sostiene Musil, ma perché ambienti diversi sollecitano aspetti diversi della nostra personalità, che si manifestano talvolta anche in maniera contradditoria. Si può essere, dunque, persone detestabili nel proprio ambiente professionale e incredibilmente amabili con gli amici; sorridenti con i figli e seriosi con i colleghi. Tanto che persone diverse farebbero fatica a riconoscere elementi comuni nelle descrizioni della stessa persona provenienti da contesti sociali diversi.

Più che schizofrenia o prudenza, parlerei di complessità della persona umana, chiamata a interpretare nella nostra società ruoli sempre più esigenti e spesso conflittuali tra loro. Questo significa che non esiste un sé unico e autentico rispetto al quale tutti gli altri sé sarebbero finzioni. Non serve a nulla, dunque, invocare un “sii te stesso” perché siamo tanti sé quanti ne richiede la vita.

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