Qual è il paradigma criminologico sotteso al nostro ordinamento penitenziario e al relativo regolamento esecutivo?
A mio avviso, leggendo sinotticamente alcuni articoli dei due atti, è possibile ricavare una risposta interessante.
L’art 13 – Individualizzazione del trattamento – della Legge 26 luglio 1975, n. 354 “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà” afferma:
«Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, incoraggiare le attitudini e valorizzare le competenze che possono essere di sostegno per il reinserimento sociale. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze psicofisiche o le altre cause che hanno condotto al reato e per proporre un idoneo programma di reinserimento».
Poco più avanti, l’art. 15. – Elementi del trattamento – riferisce che «Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, della formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro».
L’art. 1 – Interventi di trattamento – del Decreto del Presidente Della Repubblica 30 giugno 2000 , n. 230 “Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà” ribadisce che «Il trattamento degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste nell’offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali. Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché’ delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale».
Infine l’art. 27 del regolamento – Osservazione della personalità – sancisce che «L’osservazione scientifica della personalità è diretta all’accertamento dei bisogni di ciascun soggetto, connessi alle eventuali carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali, che sono state di pregiudizio all’instaurazione di una normale vita di relazione».
Dalla lettura contestuale di questi articoli appare evidente che il paradigma criminologico sotteso ai due atti fondamentali del nostro ordinamento penitenziario è di tipo “eziologico-correzionale”.
È “eziologico” in quanto individua in fattori precisi le cause della criminalità; cause che sono descritte come “carenze fisico-psichiche, affettive, educative e sociali”. In altre parole, secondo questa visione, il criminale è tale perché, per ragioni accertabili di caso in caso, è stato “privato” di qualcosa.
È “correzionale” perché, per rimediare a tali “carenze”, l’ordinamento ritiene necessario offrire, in sede trattamentale, elementi quali l’istruzione, la formazione professionale, il lavoro, le attività culturali, ricreative e sportive, i rapporti con la famiglia ecc. Elementi che “compensano” o “correggono” le “carenze” di cui sopra.
Il paradigma eziologico-correzionale ha una profonda influenza nella storia della criminologia. Di volta in volta, secondo le inclinazioni dei suoi rappresentanti, questa scienza ha sottolineato il ruolo criminogeno della carenza di fattori biologici (cerebrali, endocrinologici, cromosomici ecc.), psicologici (assenza di un Super-Io adeguato, di empatia, di intelligenza ecc.), sociologici (ambiente familiare privo di affettività, quartieri urbani disorganizzati, scarsa istruzione ecc.).
Si può dire quasi che la “carenza” sia il marchio di fabbrica della criminologia tradizionale.
Indirizzi più recenti hanno dimostrato che una condotta criminale può aversi anche lì dove non ci sono apparenti “carenze”, come nel caso dei crimini dei colletti bianchi in cui uomini e donne che occupano posizioni sociali elevate, apparentemente cresciuti in ambienti sani, famiglie affettuose e contesti urbani privilegiati, si dedicano, tuttavia, ad atti delinquenziali, spesso più dannosi alla società di quelli commessi dai cosiddetti criminali di strada.
Si può e si deve mettere in discussione il paradigma eziologico-correzionale sotteso ai due atti che disciplinano l’ordinamento penitenziario italiano. Ricordando, tuttavia, che esso è presente in tanta parte della criminologia ancora oggi insegnata nelle nostre università.