Dare un nome a un nuovo virus o, in genere, a una nuova malattia non è impresa facile. Se, da un lato, nominare aiuta a individuare, fissare, circoscrivere e, per questo, rassicurare, dall’altro, un nome orienta in una direzione piuttosto che in un’altra, costruisce una percezione, illumina un aspetto a scapito di altri, consente associazioni, favorisce fraintendimenti, pregiudizi e stereotipi.
Prendiamo l’AIDS, ad esempio. Prima che HIV e AIDS divenissero nomi accettati da tutti, il primo nome dato al virus, “immunodeficienza gay-correlata”, contribuì tantissimo ad associare il terribile morbo alla comunità omosessuale con effetti stigmatizzanti devastanti. Altre etichette produssero effetti altrettanto terribili. Basti pensare solo a “cancro gay” e “Malattia 4H” (perché si pensava interessasse quattro categorie di individui: haitiani, omosessuali, emofiliaci, eroinomani [in inglese: Haitians, homosexuals, hemophiliacs, heroin]).
In passato, sortirono effetti piuttosto stigmatizzanti i nomi dati alla sifilide (“mal francese”, “mal spagnolo”, “mal napoletano”, “morbo dei turchi”, “mal dei cristiani”, secondo le latitudini), veri e propri repertori di odio nazionalistico e propulsori di meccanismi proiettivi (l’untore, naturalmente, è sempre l’altro).
In altri casi, il nome istituisce un indebito collegamento con un luogo geografico. L’influenza spagnola, che certamente non ebbe origine in Spagna, è ancora associata erroneamente al paese iberico, nonostante sia nota la base erronea di tale legame. Il virus Ebola, che prende il nome da un fiume che scorre nella Repubblica Democratica del Congo, nell’Africa centrale, cela il fatto che esso si è diffuso in altre zone del continente. Il virus Zika si chiama come la foresta in Uganda in cui fu isolato per la prima volta nel 1947, ma oggi rappresenta una gravissima minaccia nelle Americhe. Il virus Nipah, uno dei più pericolosi in circolazione, trae il proprio nome dalla località malese dove, nel 1998, si manifestò per la prima volta, ma è endemica in Asia meridionale. Il virus Hendra prende il nome da un sobborgo della zona nord di Brisbane in Australia, nonostante sia comparso altrove.
A volte lo stigma ricade su un animale. L’influenza suina, che pure è trasmessa dagli esseri umani, non dai maiali, provocò, dopo un focolaio scoppiato nel 2009, il divieto di importazione di carne di maiale in alcuni paesi. Il morbo della mucca pazza innescò una sorta di fobia nei confronti della carne di mucca. Il vaiolo delle scimmie, diffusosi in Africa, ma anche negli Stati Uniti, contribuì a ispirare un sacro terrore nei confronti di questo animale.
Infine, alcune malattie note con nomi dalla risonanza terrificante nel nostro immaginario – ad esempio, la lebbra – diventano più cedevoli e meno paurosi se indicati con un altro nome (“morbo di Hansen”). Insomma, sembra che in materia di virologia res sunt consequentia nominum, per contraffare il noto detto di Giustiniano.
È per questo motivo che, l’11 febbraio di quest’anno, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha annunciato la nuova denominazione ufficiale di quello che era già stato definito “coronavirus di Wuhan” o “virus cinese”, ossia “COVID-19”.
Come ricorda lo stesso Tedros Adhanom Ghebreyesus, «dovevamo trovare un nome che non si riferisse a un’area geografica, un animale, un individuo o un gruppo di persone, e che fosse anche pronunciabile e associato alla malattia. Disporre di un nome è importante per prevenire l’uso di nomi imprecisi o stigmatizzanti. Ci consente, inoltre, di adottare un modello comune per indicare ogni futura epidemia del coronavirus».
A tal riguardo, non molti sanno che, nel 2015, l’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato le World Health Organization Best Practices for the Naming of New Human Infectious Diseases, un documento importante che propone delle linee guida per «nominare le nuove malattie umane, allo scopo di minimizzare l’impatto inutilmente negativo che questi nomi hanno sul commercio, sui viaggi, sul turismo o sulle condizioni degli animali, e per evitare di recare offesa a qualsiasi gruppo culturale, sociale, nazionale, regionale, professionale o etnico».
Il documento raccomanda di adoperare termini descrittivi generici (come “epatite”, “sindrome neurologica”, “disturbo respiratorio” ecc.), termini brevi, semplici e facili da pronunciare (“grave”, “progressivo” ecc.), compresi acronimi e numeri, piuttosto che nomi eccessivamente lunghi e tecnici, insieme ad aggettivi specifici (per esempio “infantile” o “costiero”) e al nome dell’agente che provoca la malattia.
L’OMS raccomanda, invece, di non adoperare nomi che contengano riferimenti a luoghi, persone (al bando dunque i termini eponimi come “malattia di Creutzfeldt-Jakob”), animali, professioni, nazionalità o cibi specifici, né parole che possano suscitare ansia come “mortale”, “epidemia” o “ignoto”.
Insomma, l’Organizzazione mondiale della sanità è pienamente consapevole della funzione poietica che le parole possono avere. Nel momento in cui si nomina qualcosa – e ciò è noto da tempo alle scienze sociali – si crea una realtà, che può avere conseguenze concrete sulla vita delle persone. Nel caso delle malattie, queste conseguenze si traducono in stati d’ansia, pregiudizi, atteggiamenti razzisti, creazione di capri espiatori, sentimenti e categorizzazioni negative, espulsioni o aggressioni di persone, animali e cose associate nominalmente alla malattia, stigmatizzazioni.
Da questo punto di vista, “Covid-19” appare come il perfetto nome neutro, capace di descrivere senza denigrare, alludere o infamare. E forse il superamento delle conseguenze psicosociali provocate dalla epidemia di coronavirus ancora in corso, sarà dovuto anche alla scelta apparentemente banale di imporre questo piuttosto che un altro nome.