Se c’è una legge costante e universale del comportamento umano, è che gli individui tendono a conferire forme oggettive a condizioni soggettive, convertendo stati d’animo, sensazioni personali, fatti privati, opinioni singolari in situazioni oggettive, condizioni universali, leggi valide per tutti. Gli esempi abbondano. È esperienza comune sentire dire: «Fa freddo» invece di «Sento freddo». Capita di sorprendere donne in menopausa che affermano: «Fa caldo», quando il calore è dovuto alle vampate di cui soffrono. Alcuni uomini anziani ripetono: «Il mondo è cambiato», quando dovrebbero dire: «Io sono cambiato». Alcune donne amano ricordare: «Gli uomini sono bestie», quando dovrebbero dire: «L’uomo con cui vivo è una bestia». D’altro canto, è usuale sentire uomini lamentarsi: «Tutte le donne tradiscono!» per il fatto di essere stati traditi da una donna. Adolescenti innamorati pensano: «La vita è bella», traduzione in modalità oggettiva di: «Sono felice». Individui di tutte le età dichiarano convinti: «Quel piatto è più buono senza formaggio», invece del più corretto: «A me quel piatto piace senza formaggio». Nei tempi antichi, questa legge si manifestava nel rendere dei e demoni responsabili del proprio comportamento («Non sono io, è Pan che mi fa sentire così!»)». Ancora oggi, persone particolarmente inclini alla religione brontolano: «Dio lo vuole!» per non confessare: «Io lo voglio!».
Un esempio di “conversione nell’oggettività” in cui tutti si riconosceranno è l’espressione “Non ho tempo”. Si tratta di una frase ripetuta all’eccesso che attribuisce al tempo una dimensione reificata, monolitica che si staglia imperiosa e insormontabile davanti a noi. In questo modo, il tempo appare altro da noi, immodificabile, non negoziabile, indipendente dalla nostra volontà. Un monarca tirannico che impone inflessibilmente la propria volontà ai suoi sudditi inermi. Avviene così che un brivido fatalistico percorra e assilli chi è convinto di “non avere tempo”. Non dipende da noi: è il dio Cronos a stabilire a chi o cosa dedicare le ore della nostra giornata. E si sa: di fronte a un dio…
Gli psicologi obiettano, tuttavia, che non è vero che non abbiamo tempo (Draaisma, 2005). Siamo noi che decidiamo di utilizzarlo in un modo piuttosto che in un altro. Siamo noi ad attribuire priorità a determinate attività a scapito di altre. Costruiamo il nostro budget temporale in modo da inserire alcune risorse e ridurne o escluderne altre. Per “avere tempo”, dunque, basterebbe rivisitare la nostra cronoscaletta e mutare le priorità consuete o introdurne di nuove. Cosa non semplice, però. Alle nostre priorità siamo abituati e le abitudini sono difficili da scalzare. Alcune diventano quasi una seconda natura, tanto che privarcene sarebbe vissuto come un trauma.
Come ricordano i sociologi Berger e Luckmann:
Tutta l’attività umana è soggetta alla consuetudinarietà: ogni azione che venga ripetuta frequentemente viene cristallizzata secondo uno schema fisso, che può quindi essere riprodotto con una economia di sforzo e che, ipso facto, viene percepito dal suo autore come quel dato schema. L’abitualizzazione implica inoltre che l’azione possa essere eseguita ancora in futuro nello stesso modo e con lo stesso sforzo economico. Questo vale sia per l’attività sociale, sia per quella non sociale; anche l’individuo solitario nella proverbiale isola deserta abitualizza la propria attività. Quando si alza la mattina e riprende i suoi tentativi di costruire una canoa con dei fiammiferi, può mormorare a se stesso: “Ora ricomincio”, mentre compie la prima fase di un procedimento operativo consistente, mettiamo, in dieci fasi. In altri termini, perfino l’uomo solitario ha almeno la compagnia dei suoi procedimenti operativi (Berger, Luckmann, 1969, p. 82).
Cambiare abitudini è, dunque, difficile. E allora è più semplice rifugiarsi nel luogo comune dell’assenza di tempo, che, in realtà, vuol dire semplicemente incapacità di sovvertire il modo consueto di organizzare il proprio tempo. Dichiarare di “non avere tempo” diventa così un alibi o un pretesto per non cambiare, per non mutare il corso ordinario della nostra vita, appellandoci a una “forza” a noi superiore, che esiste al di fuori di noi, ma che noi stessi alimentiamo e facciamo crescere.
“Non ho tempo” può essere anche un modo per vantare una vita impegnata, senza pause, ricca di attività. Solo gli oziosi – secondo il luogo comune – hanno tempo in abbondanza. Chi lavora, chi ha una famiglia, chi ha una vita sociale piena non ha tempo e ama sbandierarlo a destra e a manca. L’assenza di tempo viene appuntata sul petto come medaglia al valore, riconoscimento di una pienezza costante che non cede mai di fronte alle seducenti lusinghe dell’ozio.
Una variante del meccanismo della conversione della soggettività in oggettività è rappresentata dall’uso del “noi” o della forma impersonale al posto della forma personale. Capita a volte di assistere a scene come la seguente. Una donna è al supermercato in compagnia del marito. Quando viene il suo turno, ordina del prosciutto dicendo: «Ce ne dia duecento grammi». Questo modo di dire fa pensare a gusti alimentari condivisi, ma anche a un assorbimento del personale nel duale, a una forma di cooptazione, o forse a un senso di possesso estremo (chissà se al marito il prosciutto piace davvero). In ambito lavorativo, un modo temibile per rimproverare un collega è costituito dall’espressione: «Abbiamo notato che non lavori più come prima», invece di «Ho notato che non lavori più come prima». Il plurale produce una sgradevole sensazione di “imparziale” quanto “solidale” accusa collettiva a cui è difficile rimanere indifferenti. In alternativa, rendere impersonale il monito, il rimprovero, l’accusa genera una sensazione di sconforto nell’interlocutore e favorisce fortemente lo scoramento del destinatario. «Si dice in giro che batti la fiacca invece di lavorare!». «Sembra proprio che il tuo rendimento scolastico sia scarso». «Si vocifera che non sarai tu ad avere la promozione». Potremmo continuare. L’effetto persuasivo di queste frasi è indubbio. L’altro non può nulla (o quasi) se a decidere il suo futuro è una realtà indistinta e invisibile. A tutti gli effetti pratici, la forma impersonale può costituire una potente arma verbale sulle labbra di chi ne fa uso. Per questo motivo, è spesso temuta e contrastata.
Questo meccanismo psicologico, che ho definito di “conversione nell’oggettivo”, possiede varie funzioni: “oggettivo” vuol dire “universale”, “normativo”, “condiviso”, “comunitario”, “legittimato”, “naturale”, “logico”. Chi trasforma, inconsapevolmente, una condizione soggettiva in oggettiva conferisce a essa un significato nuovo. La sua condizione, improvvisamente, diviene condizione di tutti, stato mentale condiviso, problema comune. Tramite un piccolo scarto, il personale diviene universale e non ci sentiamo più soli, anzi facciamo parte di una comunità in cui tutti sentono quello che sentiamo noi. In virtù di questo trucchetto, il “soggettivo” non diventa solo “intersoggettivo”, ma “naturale”, “senso comune”, e quindi un sapere che non può essere messo in discussione, che non vale la pena di mettere in discussione.
Conversione nell’oggettivo vuol dire anche normalità e legittimità. Se quello che sentiamo è avvertito da tutti, non è uno stato idiosincratico: se il calore che sento è oggettivo, la vampata, e la condizione fisiologica a essa associata, spariscono. Se gli uomini sono tutti animali – e non solo mio marito – è legittimo intraprendere azioni contro di essi in quanto categoria generale. Nel caso del “noi” in ambito lavorativo, la conversione nell’oggettivo è una strategia consapevole che genera una sensazione di accerchiamento ed è, infatti, prediletta da chi pratica il mobbing. Può essere, però, anche inconsapevole, soprattutto se, come nel caso della coppia al supermercato, le persone coinvolte vivono una vita quasi simbiotica.
Ciò che colpisce è che questo meccanismo è spesso inavvertito, inconsapevole, tanto che è facile scivolare dal soggettivo all’oggettivo senza rendersene conto. I sociologi Berger e Luckmann, già citati, chiamano questo processo “reificazione” e lo definiscono come
la percezione di fenomeni umani come se fossero cose, vale a dire in termini non umani o in alcuni casi sovrumani. In altre parole la reificazione è la percezione dei prodotti dell’attività umana come se fossero qualcosa di diverso dai prodotti umani, per esempio, fatti di natura, risultati di leggi cosmiche o manifestazioni della volontà divina. La reificazione implica che l’uomo è capace di dimenticare di essere lui stesso autore del mondo umano e inoltre che la dialettica tra l’uomo, il produttore, e i suoi prodotti, scompare dalla coscienza. Il mondo reificato è, per definizione, un mondo disumanizzato; l’uomo ne fa esperienza come una strana fattualità, un opus alienum su cui non ha alcun controllo, piuttosto che come opus proprium della sua attività produttiva (Berger, Luckmann, 1969, p. 128).
Dimentichiamo di essere noi i produttori del tempo e il tempo ci appare “oggettivo” perché si presenta come se fosse qualcosa di esterno a noi e indipendente dai nostri pensieri e dalle nostre azioni. Un prodotto della natura delle cose. Il paradosso è che le persone producono una realtà – il tempo – che, reificandosi, finisce con il negare la sua origine umana, divenendo qualcosa di altro da sé. Così, attraverso un inconsapevole atto di oblio, erigiamo il tempo a nostra divinità e lasciamo che si imponga a noi con la forza irresistibile di un fatto naturale. O, meglio, di un luogo comune.
Riferimenti
Berger, P. L., Luckmann, T., 1969, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna.
Draaisma, D., 2005, Perché la vita accelera con l’età. Come la memoria disegna il nostro passato, Marsilio, Venezia.
Flamigni, C., 2023, Non ho tempo! Smetti di raccontarti bugie…Prendi in mano la tua vita e la tua carriera in 5 semplici passi, Mind Edizioni, Milano.
p.s. Una versione breve di questo articolo si trova in un precedente post che potete leggere qui.