“Non commettere adulterio”: questa la prescrizione del settimo Comandamento con cui tutti abbiamo familiarità, al di là del fatto che ad essa ci conformiamo o no, e il cui significato tutti pensiamo di conoscere. In effetti la definizione di adulterio non sembra presentare complicazioni. La Treccani la riporta in questo modo:
Colpa o, sotto l’aspetto giuridico, delitto contro l’istituto del matrimonio, consistente nell’unione sessuale di uno dei coniugi con persona diversa dal proprio coniuge.
Tutto semplice se non fosse che gli ebrei della Bibbia presso cui si impose il settimo Comandamento vivevano in una società poligama in cui, come ci ricorda lo scrittore francese ebreo Nathan André Chouraqui nel libro I dieci comandamenti, «l’uomo aveva il diritto di sposare legittimamente più donne. Per lui il crimine dell’adulterio esisteva solo con una donna sposata, dal momento che le donne libere gli erano permesse sia come spose legittime sia come concubine». Una bella differenza rispetto a oggi! Ma c’è dell’altro.
In ebraico il verbo usato nella prescrizione è na’af che ha un’accezione più ampia rispetto al semplice tradimento della fedeltà coniugale. Come riferisce ancora Chouraqui, «il comandamento condanna non solo l’adulterio, bensì qualsiasi adulterazione del comportamento dell’uomo o della donna nei loro rapporti con gli altri o con se stessi». In questo senso, il no’ef o la no’efet sono persone che violano ogni genere di regola di condotta, quindi non solo adulteri, ma anche furfanti, imbroglioni, dissoluti, disonesti ecc. Come è successo, allora, che, presso di noi, il settimo Comandamento ha finito con l’essere reso in maniera così restrittiva? La spiegazione sta nelle interpretazioni dei traduttori della Bibbia che hanno preferito adattare il comandamento alla società monogama in cui vivevano, favorendo così un determinato orientamento istituzionale (la “sacralità” del matrimonio) e sessuale. Seguiamo ancora Chouraqui:
I traduttori della Bibbia, coscienti della difficoltà presentata dalla radice na’af, scelsero il greco moikheneis, allo scopo di sottolineare la responsabilità morale e giuridica dell’uomo che aveva rapporti con la donna d’altri. San Girolamo ha usato un verbo latino, moechari, che non è altro che un prestito dal greco: un termine gergale che designa l’azione di lasciarsi andare alle dissolutezze. Come si può notare, la somiglianza fra i significanti nasconde una grande divergenza di senso: mentre in greco il verbo è innanzitutto un termine giuridico, in latino appartiene al registro morale. Le conseguenze che tale slittamento ha avuto su una certa tendenza al puritanesimo sono evidenti.
Più che evidenti, direi: di senso comune. Oggi, per noi, è scontato che il termine “adulterio” di cui parla il settimo Comandamento vada interpretato nella sua ristretta accezione monogama e sessuale. Eppure, un tempo non era così. In questo modo la nostra morale sessuale è stata condizionata da una scelta traduttiva di cui la maggior parte di noi non sa nulla e la fedeltà coniugale è diventata un dovere sancito da una prescrizione divina.
Fonte:
Chouraqui, A., 2001, I dieci comandamenti, Mondadori, Milano, pp. 161-162.