The Familiar Stranger: An Aspect of Urban Anonymity (1972) di Stanley Milgram (1933-1984), psicologo sociale americano noto soprattutto per un celebre esperimento sull’obbedienza e l’autorità compiuto nel 1961, rappresenta un piccolo classico su un fenomeno tipico delle società urbane contemporanee: quello dello “sconosciuto familiare”. Esempio tipico è quello del pendolare che, ogni mattina, per anni, prende il treno con i medesimi compagni di viaggio di cui non sa nulla pur conoscendone nei dettagli fisionomia, tono di voce, vezzi, tic e frammenti di vita comunicati tramite telefonate orecchiate, dialoghi con amici e conoscenti, messaggi carpiti (in)volontariamente dallo smartphone.
Uno “sconosciuto familiare” è, per Milgram, «una persona che (1) deve essere osservata (2) ripetutamente per un determinato periodo di tempo, (3) senza che vi sia interazione». In questo senso, un altro esempio tipico della contemporaneità è il vicino di casa, persona che vive a breve distanza fisica da noi e a cui spesso rivolgiamo saluti, ma con il quale ogni altra interazione è sostanzialmente nulla, salvo poi meravigliarci se commette un reato o è protagonista di condotte violente e imprevedibili (“Sembrava proprio una brava persona!”).
Anche questo è un fenomeno tipico delle società urbane e anonime in cui viviamo e potremmo definirlo “agnosia di prossimità”. Per tornare a Milgram, però, un altro fenomeno affine a quello dello “sconosciuto familiare” è la “disattenzione civile”, che «consiste «nel concedere all’altro un’attenzione visiva sufficiente a dimostrare che se ne è notata la presenza (e che si ammette apertamente di averlo visto), distogliendo subito dopo lo sguardo per significargli che non costituisce l’oggetto di una particolare curiosità o di un’intenzione specifica» (Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione, Einaudi, Torino, 1971, p. 86). Lo “sconosciuto familiare” richiede costantemente “disattenzione civile”. I due fenomeni sono legati l’uno all’altro. Eppure, si tratta di aspetti solitamente trascurati o minimizzati, pur contribuendo a rendere l’uomo contemporaneo quello che è. Di qui l’interesse di questo brevissimo saggio di Stanley Milgram, da me di seguito tradotto.
Niente caratterizza maggiormente la vita urbana del fatto che spesso abbiamo estrema dimestichezza con i volti di persone con cui non interagiamo mai. Alla mia stazione ferroviaria, per esempio, ho trascorso parecchi anni come pendolare in compagnia di persone che non ho mai avuto modo di conoscere. I volti e le persone sono considerati come parte del contesto, equivalenti di ciò che ci circonda, piuttosto che persone con cui parlare o scambiare saluti.
Harry From, un mio studente, ha scritto che quello dello “sconosciuto familiare” (familiar stranger) è l’esito finale di un processo che, come l’amicizia, richiede tempo. Inoltre, è un processo latente che spesso conduce a un’amicizia ingessata. Uno sconosciuto familiare, per essere tale, è una persona che (1) deve essere osservata (2) ripetutamente per un determinato periodo di tempo, (3) senza che vi sia interazione.
Gli sconosciuti familiari soggiacciono a una potente norma: più sono distanti dal luogo in cui si incontrano ordinariamente, più è probabile che interagiscano tra loro. Così, se si incontrano in una nazione lontana, hanno maggiori probabilità di salutarsi, iniziare una conversazione e provare una calorosa sensazione di familiarità e amicizia. Per quale motivo persone che, per anni, non si sono parlate, pur essendo state l’una al cospetto dell’altra, si sentono spinte, in luoghi remoti, a rivolgersi la parola in quanto persone?
Tra sconosciuti familiari si ergono barriere difficili da sormontare, a tal punto che, quando uno di essi ha bisogno di avanzare una richiesta, preferisce rivolgersi a un perfetto sconosciuto piuttosto che a uno sconosciuto il cui volto sia noto, ma non ancora riconosciuto.
Accadimenti straordinari, come un’alluvione, contribuiscono a tirare fuori le persone dalle loro relazioni impersonali. L’accadimento, di per sé, è temporaneo e, dunque, non esige un impegno esteso, bensì uno la cui durata sia commisurata alla interruzione temporanea della quotidianità.
Alcuni anni fa, un gruppo di studenti della City University di New York prese in esame il fenomeno dello sconosciuto familiare. Alzatisi di buon’ora, si recarono alle stazioni dei pendolari diretti a New York. Fotografarono gruppi numerosi di pendolari, molti dei quali estremamente vicini l’uno all’altro o che guardavano diritto davanti a sé. Ogni persona fotografata venne numerata, le fotografie vennero duplicate e gli studenti si ripresentarono alle stazioni la settimana successiva dove distribuirono le foto ai pendolari insieme a una lettera di presentazione che descriveva gli obiettivi della ricerca e un questionario finalizzato a rilevare informazioni sul fenomeno degli sconosciuti familiari. Il risultato fu che l’89,5% degli intervistati indicò almeno uno sconosciuto familiare. Il pendolare medio indicò 4 individui presenti in stazione con cui ammetteva di non aver mai parlato rispetto a 1,5 individui con cui aveva conversato, in media. Alcuni sconosciuti familiari si rivelarono “stelle sociometriche” poiché vennero riconosciuti da un gran numero di pendolari in stazione, anche se nessuno aveva parlato con loro.
Molti passeggeri hanno affermato di dedicare spesso più di un pensiero ai loro compagni di viaggio e di aver provato a immaginare che tipo di vita conducessero, che lavori svolgessero ecc. Con essi avevano instaurato una relazione mentale che avrebbe potuto non realizzarsi mai in concreto. Si trattava, tuttavia, di una relazione reale in cui entrambe le parti concordavano nell’ignorarsi reciprocamente, senza che ciò implicasse alcuna ostilità. Talvolta, però, la relazione può essere modificata, se si verificano determinate circostanze. Ad esempio: una donna ebbe un collasso in strada a Brooklyn nei pressi del suo condominio. Da anni era una sconosciuta familiare per un’altra donna che abitava da quelle parti. Quest’ultima si prese cura della poveretta che versava in stato di incoscienza. Non solo chiamò l’ambulanza, ma la accompagnò all’ospedale per assicurarsi che fosse assistita in maniera adeguata e che nessuno trafugasse le sue cose. In seguito, affermò di essersi sentita responsabile delle sorti della donna perché si vedevano da anni, anche se non si erano mai parlate. Lo status di sconosciuto familiare non consiste in una assenza di relazione, quanto in una speciale forma di relazione, dotata di qualità e conseguenze proprie.
Come si spiega il fenomeno dello sconosciuto familiare? È una reazione al sovraccarico: per far fronte a tutti i possibili stimoli provenienti dall’ambiente, li filtriamo e ammettiamo solo forme diluite di interazione. Nel caso dello sconosciuto familiare, permettiamo che una persona agisca su di noi solo da un punto di vista percettivo ed escludiamo qualsiasi altro tipo di interazione. Ciò avviene, in parte, perché l’elaborazione percettiva di una persona richiede molto meno tempo della sua elaborazione sociale. Siamo in grado di cogliere una persona con uno sguardo, ma occorre più tempo per sostenere un coinvolgimento sociale. Se le relazioni temporali fossero capovolte, ossia se la percezione richiedesse una quantità di tempo superiore alla interazione sociale, ne risulterebbe un fenomeno completamente diverso. Ci metteremmo a parlare con le persone che non percepiamo visivamente per mancanza di tempo.
Fonte originale:
Milgram, S. (1972). The Familiar Stranger: An Aspect of Urban Anonymity. In Idem, The Individual in a Social World. Essays and Experiments (pp. 68-71). New York: McGraw-Hill, 1992.