Mai come nel nostro tempo si è parlato tanto di empatia, ovvero della capacità di immedesimarsi negli altri. Secondo pensatori come Jeremy Rifkin (La civiltà dell’empatia), l’empatia è destinata a diventare addirittura la pietra miliare della nostra società, il nuovo riferimento per una civiltà più umana. E, in effetti, ci sono prove abbondanti che ciò sia in parte vero. Si pensi all’empatia sviluppata nei confronti degli animali che rende sempre più intollerabile la vista della loro sofferenza e odiosa l’idea di nutrirsene. Si pensi al rispetto sempre maggiore per l’ambiente e le tematiche ambientali, frutto di un nuovo rapporto nei confronti della natura che ci circonda. Si pensi alle conquiste delle persone con disabilità in Occidente, che scaturiscono anche da una nuova capacità della società nel suo complesso di “mettersi nei loro panni”.
Sembra insomma che la celebre massima espressa da Jean-Jacques Rousseau nell’Emilio, «Non si compiangono negli altri se non i mali di cui non ci crediamo esenti noi stessi» sia progressivamente destinata a perdere fondamento. Nel suo secolo, Rousseau rifletteva: «Perché i re sono senza pietà per i loro sudditi? Perché essi fanno conto di non essere mai uomini. Perché i ricchi sono così duri verso i poveri? Perché non hanno paura di divenirlo. Perché la nobiltà ha un così gran disprezzo per il popolo? Perché un nobile non sarà mai plebeo». Oggi, re e nobili non esistono quasi più; i ricchi ci sono ancora. Ma sono convinto che nessuno di essi sia così sicuro che la propria sorte non potrà cambiare un giorno.
La massima del filosofo ginevrino mi sembra tuttavia tenere nel caso di altre forme di relazione sociale. Nei confronti degli immigrati, ad esempio. Ritengo che una parte dei sentimenti negativi nei confronti di chi migra derivi da una incapacità di mettersi nei loro panni, quasi che nessuno di noi, un giorno, potrà mai partire dal proprio paese alla ricerca di una sorte migliore. Gli immigrati, cioè, mi sembrano diventati i nuovi sudditi e plebei di cui parlava Rousseau, gli indesiderabili che non saremo mai. È una illusione mortale che tradisce un passato migratorio nemmeno troppo lontano, ma che sembra ormai dimenticato. Questa illusione, in realtà, si spiega proprio con il desiderio inconsapevole di rimuovere quel passato migratorio: un passato che le migrazioni contemporanee riportano spietatamente alla nostra memoria. E allora ritrovare l’empatia nei confronti dei migranti vuole dire sia fare i conti serenamente con ciò che siamo stati, sia comprendere definitivamente che le migrazioni sono una costante ineliminabile della storia dell’umanità, un “male” da cui nessuno può dirsi esente per principio.