È di pochi giorni fa la notizia dell’assoluzione di un cittadino del Bangladesh, accusato di maltrattamento nei confronti della moglie. La motivazione dell’assoluzione, nelle parole del giudice, sta nel fatto che
I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine.
L’uomo è stato, dunque, assolto perché, secondo il giudice, i maltrattamenti ai danni della moglie – una cugina a cui si sarebbe unito nell’ambito di un matrimonio combinato – rientrerebbero nel contesto culturale bengalese, costituendo un caso di reato culturalmente motivato. Con questo termine si intendono comportamenti realizzati da un soggetto appartenente ad un gruppo culturale di minoranza, che è considerato reato dall’ordinamento giuridico del gruppo culturale di maggioranza. Questi stessi comportamenti, tuttavia, all’interno del gruppo culturale del soggetto agente sono condonati, o accettati come comportamenti normali, o approvati, o addirittura incoraggiati o imposti.
Le domande che di solito ci poniamo quando veniamo a conoscenza di notizie del genere sono: il diritto penale deve riservare al responsabile di condotte del genere un trattamento di favore? La motivazione culturale deve essere completamente ignorata o considerata addirittura un’aggravante?
Le risposte a queste domande sono piuttosto varie.
C’è chi, ad esempio, sostiene che da una motivazione culturale non dovrebbero discendere attenuanti di nessun tipo perché, altrimenti, si conferirebbe agli immigrati, autori di reati culturalmente motivati, il privilegio di essere sottoposti a norme penali diverse da quelle applicabili al resto della popolazione, con conseguente violazione del principio di uguaglianza di fronte alla legge penale.
Secondo un punto di vista diverso, il principio di uguaglianza dovrebbe essere considerato in maniera più ampia, trattando in modo diverso i diversi, al fine di ottenere una giustizia individualizzata, capace di ritagliare la risposta punitiva sulla colpevolezza individuale del reo. È il cosiddetto principio dell’uguaglianza sostanziale che si manifesta in particolare nelle società di tipo multinazionale, come quella anglosassone.
Secondo i sostenitori di questa posizione, chi commette un reato per motivi culturali dovrebbe usufruire delle cosiddette cultural defenses, termine con il quale si fa riferimento a qualsiasi causa che consente all’imputato di non essere condannato per ragioni culturali, senza trovare corrispondenza con alcuno degli istituti giuridici nazionali in termini pro reo, quali le scriminanti o cause di giustificazione che escludono l’antigiuridicità del fatto, le scusanti che escludono la colpevolezza, le esimenti che escludono la punibilità, ovvero le circostanze attenuanti che consentono una riduzione della pena irrogata in concreto.
Una terza posizione, infine, riconosce nella motivazione culturale un motivo abietto e futile: in sostanza una circostanza aggravante del reato che fa di questo un fatto meritevole di una punizione più severa. C’è da dire, però, che, al di fuori di casi specifici, raramente la motivazione culturale è considerata una circostanza aggravante a livello giurisprudenziale.
Insomma, il tema dei “reati culturalmente motivati”, è più che mai attuale ed è probabile che sia destinato a rinnovare la propria attualità con l’intensificarsi dei processi migratori mondiali e dei rapporti tra culture diverse.
Uno dei classici della sociologia che si è occupato in maniera pioneristica di questi temi è Thorsten Sellin, di cui ho tradotto qualche anno fa Conflitto culturale e crimine, la sua opera principale. Una lettura utilissima per chiunque sia interessato a queste tematiche al di là degli strilli di pancia o dei commenti superficiali.