Le scelte traduttive della Bibbia esprimono spesso orientamenti che, dal nostro punto di vista, appaiono decisamente sessisti. Lo dimostra la vicenda dell’ebraico tselah, tradotto con “costola”, ma che, a parere di moltissimi teologi, andrebbe tradotto con “metà”, “lato” (Gen 2, 21-23). Questa traduzione è certamente responsabile dell’inferiorizzazione subita dalla donna nel corso dei secoli. Lo dimostra altresì l’espressione di Genesi “con dolore partorirai figli” (Gen 3,16), che suona come una condanna perpetua alla sofferenza, ma che meglio sarebbe resa da “con sforzo partorirai figli”, che esprime una semplice constatazione. Come è noto, questo verso continua con le parole “Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”, che sancisce in maniera indiscutibile il dominio dell’uomo sulla donna, un’asimmetria relazione che ai più oggi appare odiosa.
Nel suo ultimo libro, Le ribelli di Dio, la teologa Adriana Valerio afferma che anche su queste ultime parole occorrerebbe intervenire con una nuova traduzione. Seguiamo il suo ragionamento:
[…] quella che è stata intesa come una punizione per la donna, “Verso tuo marito sarà il tuo istinto ed egli ti dominerà” (Gen 3, 16), può essere invece tradotta: “Verso il tuo uomo andrà il tuo istinto (= desiderio) e lui ti corrisponderà”, trovando un parallelo nel Cantico dei Cantici, “Io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me” (Ct 7, 11). Qui lo stesso termine indica l’attrazione che l’uomo ha verso la donna, in un canto d’amore che non esprime né prevaricazione dell’uno nei confronti dell’altro né subordinazione, ma solo reciproco desiderio e amore dove gli occhi di lui (Ct 5, 12) si riflettono in quelli di lei (Ct 7, 5). Il Cantico può essere considerato la risposta femminile a Genesi; riprende ed esalta, infatti, la reciprocità dei generi in uno straordinario canto erotico d’amore che vede protagonista la donna, la Sulamita (= pace). Di lei è il punto di osservazione. In un gioco narrativo di reciprocità, il Cantico riprende il racconto delle origini, ma cambiando prospettiva: è la donna a rispecchiarsi nell’uomo e a riconoscersi in lui, è lei il giardino rigoglioso nel quale l’uomo trova riparo e amore, è lei la fonte della vita, autonoma e responsabile del proprio corpo da donare per amore, è lei a lasciare la casa della madre per congiungersi all’amato.
Il mio amato è mio, e io sono sua. (Ct 2, 16)
Io sono del mio amato e il mio amato è mio. (Ct 6, 3)
L’amore non porta a sottomissione, il desiderio non comporta sudditanza, ma, piuttosto, amicizia e reciprocità: la sposa è amica, “Tu sei bella, amica mia” (Ct 6, 4) (pp. 34-35).
Se questo è vero, allora il verso 3, 16 di Genesi sarebbe totalmente da riscrivere e aprirebbe a una visione meno punitiva e più amorevole della divinità. E anche molto più moderna. Una visione in cui uomo e donna sono sullo stesso piano e la divinità non punisce, ma comunica un piano di vita. Chissà che ne pensano in Vaticano?
Se uomo e donna sono sullo stesso piano e la divinità non punisce, ma comunica un piano di vita, da cosa deriva la difficoltà nei rapporti tra uomo e donna, che è sotto gli occhi di tutti?
Grazie,
Andrea
Domanda molto complessa, a cui non riuscirei mai a rispondere in un post. Bisogna comunque capire che i problemi tra uomo e donna sono essenzialmente problemi di comunicazione e che tali problemi sono acuiti proprio dal fatto che i due sono sullo stesso piano. Paradossalmente, se i ruoli fossero ben definiti in senso asimmetrico (ad esempio con l’uomo o la donna in posizione di comando) si avrebbero minori problemi, ma qui la strada si complica (non sono affatto un nostalgico dei “bei tempi” in cui l’uomo comandava e la donna subiva) ed è preferibile non dire altro.