Lo sport è innanzitutto luogo comune. È incredibile il numero di frasi trite e ritrite che i protagonisti dello sport ci propinano ogni giorno nel commentare prestazioni, decisioni, giudizi, risultati. Si può dire addirittura che l’intera struttura retorica dello sport si regga sul “già sentito”, sul senso comune tracimante, sulla nevrosi ossessiva di ciò che tutti sanno. Ma lo sport è luogo comune anche nel senso che molte delle conoscenze da noi più riverite in materia sono false, approssimative, di dubbia provenienza, precarie.
Prendiamo ad esempio la frase “L’importante non è vincere, ma partecipare”. Quante volte l’abbiamo sentita! Tutti pensiamo di condividerne il significato, nonostante esso sia completamente in contrasto con lo spirito dei nostri tempi e sia, a ben pensarci, del tutto incondivisibile (ma questa è un’altra storia). Tutti pensiamo di sapere che a pronunciarla fu Pierre de Coubertin (1863-1937), che infatti è passato alla storia per questa frase, oltre che per aver fondato i moderni giochi olimpici. Ebbene, non è vero. La frase è di Ethelbert Talbot, arcivescovo anglicano della Pennsylvania, che la pronunciò durante una cerimonia di saluto ai partecipanti ai Giochi di Londra del 1908 nella cattedrale di Saint Paul. È noto agli studiosi che il pedagogista francese era un darwinista sociale ed era convinto che lo sport «è prima di tutto lotta, dura lotta, per la vittoria; lo sport è ambizione e volontà: “ambizione di fare più degli altri, volontà di pervenirvi”», come rivela lo storico dello sport Antonio Lombardo in un suo articolo.
Le leggenda vuole anche che de Coubertin fosse favorevole al dilettantismo, tanto che ancora oggi si discute su quanto debbano guadagnare gli atleti che partecipano alle Olimpiadi. Anche questo non è vero. Anzi, sembra che de Coubertin, che odiava indubbiamente il professionismo per via dei fanatici e degli scommettitori, fosse particolarmente irritato dall’argomento al punto da esprimersi in questi termini:
Il dilettantismo! Sempre quello! Erano ormai sedici anni che ci eravamo ingenuamente illusi di farla finita con questo problema, ma esso era sempre lì, identico e inafferrabile proprio come un pallone da pallanuoto con la sua specialità gattesca di scivolarvi dalla mano e di andarsene a farsi beffe di voi a quattro metri di distanza. Ma per me era lo stesso. Oggi oso confessarlo questa questione non mi ha mai appassionato. Me ne ero servito come un paravento per convocare il congresso che doveva ripristinare le Olimpiadi. Vista l’importanza che gli attribuivano nell’ambiente sportivo, io mi dedicavo al problema con zelo, ma era uno zelo senza una reale convinzione. Il mio concetto di sport è sempre stato diverso da quello di un gran numero – e forse della maggioranza – di sportivi. Per me lo sport era una religione con chiesa, dogmi, culto… Ma soprattutto sentimento religioso, e mi sembrava infantile collegare tutto ciò al fatto che un atleta potesse aver ricevuto un pezzo da cento; altrettanto infantile come, per esempio, proclamare che un sagrestano è necessariamente un miscredente per il fatto che, nell’assicurare i suoi servigi al santuario, riceve un compenso. Oggi, che ho raggiunto e superato l’età in cui si possono proclamare liberamente le proprie eresie, non ho paura di confessare questo mio punto di vista (Memorie olimpiche, Mondadori, Milano, 2003, p. 95).
E ancora:
Che vecchia e stupida storia, quella del dilettantismo olimpico. E quanto mi hanno rimproverato, e sempre a torto, la pretesa ipocrisia del giuramento olimpico. Ma leggetelo, questo famoso giuramento di cui sono il padre felice e fiero. Dove è scritto che esige dagli atleti che scendono nello stadio olimpico un dilettantismo che io sono il primo a riconoscere come impossibile? Con il giuramento io non chiedo che una cosa: la lealtà sportiva. Ed essa non è appannaggio dei soli dilettanti (Intervista concessa a André Lang e pubblicata su «L’Auto», il 4 settembre 1936).
Frasi sconvolgenti e paradossali, per chi è abituato a pensare a de Coubertin alla luce della rappresentazione aureolare del francese che ci è stata tramandata fin da piccoli. Luoghi comuni, appunto, che facciamo fatica a scrollarci di dosso. Forse perchè, senza luoghi comuni, lo sport semplicemente non sarebbe.
P.s.: le citazioni di de Coubertin sono tratte entrambe da Ballardini, B., 2016, Contro lo sport (a favore dell’ozio), Baldini & Castoldi, Milano, pp. 19-20, un libro che consiglio a tutti quelli che odiano i luoghi comuni nello sport.
Pingback: Ancora sui luoghi comuni sportivi | romolo capuanoromolo capuano