Otia dant vitia, dicevano gli antichi. E antico era anche Catone il censore (234 a. C. – 149 a. C.) a cui viene attribuita la frase “l’ozio è il padre dei vizi”. Eppure, gli stessi antichi avevano un’idea ben diversa dalla nostra su che cosa dovesse intendersi per “ozio”.
Per i greci del passato, la parola σχολή (scholḗ), che oggi traduciamo con “ozio”, significava inizialmente “riposo”, “quiete”, “tempo libero”. Essa indicava, in particolare, il tempo da dedicare alla propria realizzazione, alla coltivazione di sé stessi e della conoscenza. Anche alla poesia, termine che, non a caso, rimanda al greco ποιέω “fare, produrre”. La poesia, infatti, era “produzione”, “lavoro”, “creazione”.
Nell’antica Roma, otium indicava un periodo di tempo libero dagli affari (negotia) pubblici o politici. I filosofi dell’epoca insegnavano il disprezzo per ogni lavoro grettamente utilitario (sordidae artes), “banausico” per usare un termine colto. Gli schiavi erano assegnati al lavoro necessario alla mera sussistenza, mentre i cittadini liberi si dedicavano all’attività politica e alla creazione culturale, uniche condotte ritenute non degradanti per gli esseri umani. I poeti cantavano l’ozio, dono degli dèi: «O Meliboee, deus nobis haec otia fecit» («O Melibeo, quest’ozio è il dono di un dio»)» (Virgilio, Bucoliche, Ecloga I). Lo stesso Catone distingueva tra otium, la migliore espressione delle virtù romane, inertia, assenza di ogni ars, e desidia, lo star sempre seduti, e si aspettava che la grandezza degli uomini risaltasse non solo dalle loro condotte durante i negotia, ma anche da quelle mostrate durante gli otia. Cicerone, da parte sua, giudicava sommamente produttivo il tempo trascorso in otium (Cicerone, De officiis).
Ma allora, se, un tempo, otium era un termine dalla connotazione eminentemente positiva, come è accaduto che oggi riteniamo l’ozio una condizione fortemente riprovevole e generatrice di vizi? Se diamo un’occhiata ai sinonimi del termine in un qualsiasi dizionario, troveremo con facilità che essi hanno per lo più una connotazione negativa: accidia, ignavia, inattività, inazione, inerzia, inoperosità, neghittosità, infingardaggine, scarso senso del dovere ecc. Chi o cosa è responsabile di questa trasmutazione di valori?
La svalutazione dell’ozio si deve, in parte, al cristianesimo. Siracide 33, 28-29 al riguardo è emblematico: «Fallo lavorare perché non stia in ozio, poiché l’ozio insegna molte cattiverie. Obbligalo al lavoro come gli conviene, e se non obbedisce, stringi i suoi ceppi». È vero. Qui si parla di schiavitù, ma il cristianesimo ha storicamente contrapposto il lavoro – soprattutto nella sua versione dura, faticosa, abbrutente – al non fare nulla. «Se uno non vuole lavorare neppure mangi» ribadisce 2 Tessalonicesi 3, 10. E, ancora prima, Genesi 3, 19 aveva sancito la condanna dell’uomo alla fatica a causa della sua disobbedienza: «Mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto». L’ozio assume addirittura un nome peculiare per i cristiani. Diviene “accidia”, la quale viene definita come indolenza ad operare il bene, uno dei sette vizi capitali.
La negatività dell’ozio viene ribadita dalla riforma protestante, che fa del lavoro il banco di prova della benevolenza divina nei confronti dei prescelti dal Signore. Rimanendo in ambito cattolico, il XIX secolo non è più indulgente nei confronti dell’ozio. Anzi, papa Leone XIII (1810-1903) nella sua Rerum Novarum afferma la necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso:
Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen 3,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo.
Ribadendo la “necessità” del lavoro nei confronti dell’inoperosità, ovvero dell’ozio, Leone XIII va incontro allo spirito del tempo. È, infatti, in epoca industriale, o meglio capitalistica, che la massima “l’ozio è il padre dei vizi” viene consacrata a supremo precetto di vita. Il lavoro diviene l’imperativo moderno, esaltato perfino nelle carte costituzionali (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”). L’attività produttiva foggia l’homo faber, modello di ogni condotta umana, e ogni comportamento che si sottrae alle leggi della produzione diviene sospetto e passibile di sanzione.
L’etica capitalistica del lavoro fa della avversione all’ozio il suo segno di distinzione. Questo è ben visto solo quando è funzionale al recupero delle energie psico-fisiche necessarie a produrre e consumare di nuovo (“riproduzione della forza lavoro” avrebbe detto Marx) in un ciclo potenzialmente infinito di produzione e consumo. Oppure, coincide con il consumo stesso, come si vede dal fatto che la gente trascorre il proprio tempo libero nei centri commerciali dove le persone esistono in quanto consumatrici di merci e il tempo libero coincide pienamente con il tempo di consumo.
La società capitalistica conferisce onore e gloria all’attività umana solo se questa si esplica nell’ambito di ciò che i suoi membri definiscono produttivo. Ciò che si sottrae alle leggi della produzione e del consumo è ritenuto inutile, insignificante, irrilevante. La differenza non la fa l’attività in sé, ma le conseguenze in termini di profitto e guadagno. Se scrivo un libro e ottengo soldi e riconoscimenti, allora la mia attività sarà meritevole di considerazione. Se ciò non avverrà, potremo parlare, nel migliore dei casi, di hobby, di passatempo, termini che hanno acquisito nel tempo una connotazione negativa e quasi patetica.
Il contenuto della mia attività sarà indifferente purché generatrice di profitti: potrò dedicare la mia vita a mostrare le mie terga nude, a esibirmi in prestazioni canore discutibili, a insultare chiunque sui social o vantare i meriti di questo o quel prodotto per ottenere quanti più like possibili. Se tutte queste condotte saranno gratificate dal profitto, acquisiranno un alone sacro e saranno riconosciute, apprezzate e imitate. In caso contrario, diventeranno il segno di un imbarazzante fallimento.
Dietro il luogo comune “l’ozio è il padre dei vizi” si cela, allora, una verità misconosciuta: se l’ozio genera vizi, questi, nella nostra società capitalistica, coincidono con ciò che non è riducibile a lavoro imposto, a fatica alienante, a valore di scambio, a profitto. Vizi sono tutto ciò che è spontaneo, desiderato, privato, gratuito, che dà senso alla vita, a differenza del lavoro. Vizio è ciò che contraddice, negandola, l’idea di lavoro faticoso promosso dalla società in cui viviamo.
In questa luce, possiamo ben dire che secoli di miseria e di fatica sono stati sopportati grazie all’ideologia del lavoro come dovere e come riscatto (di cui “l’ozio è il padre dei vizi” rappresenta l’espressione sentenziosa) e alla condanna morale di ogni “scarto” rispetto a tale ideologia, disapprovato prontamente in quanto “vizio”.
Come afferma il filosofo Bertrand Russell (1872-1970), «il concetto del dovere [di lavorare], storicamente parlando, è stato un mezzo escogitato dagli uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per l’interesse dei loro padroni anziché per il proprio. Naturalmente gli uomini al potere riescono a nascondere anche a sé stessi questo fatto, convincendosi che i loro interessi coincidono con gli interessi dell’umanità in senso lato» (Lafargue, Russell, 1992, p. 106).
E, allora, dovremmo forse riscoprire la verità del peana che Lafargue levava all’ozio:
O Ozio, abbi pietà della nostra lunga miseria! O Ozio, padre delle arti e delle nobili virtù, sii il balsamo delle angosce umane! (Lafargue, Russell, 1992, p. 92).
Se, per citare ancora Russell, «l’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi» (Lafargue, Russell, 1992, p. 105), l’etica dell’ozio è l’etica della consapevolezza di sé, della creatività e della realizzazione dei propri desideri e capacità. In altre parole, l’etica della libertà.
E se le cose stanno così, educare all’ozio diviene uno dei compiti più impegnativi della nostra società. Come diceva il sociologo Domenico De Masi (1938-2023) qualche anno fa:
Educare all’ozio significa insegnare a scegliere un film, uno spettacolo teatrale, un libro. Insegnare a sbrigare le attività domestiche e a far da sé molte cose che fin qui abbiamo comprato. Insegnare la convivialità, l’introspezione, il gioco. Anche la pedagogia dell’ozio ha una sua etica, una sua estetica, una sua dinamica, delle sue tecniche. E tutto questo va insegnato (De Masi, 1997, p. 141).
Tutto questo, e altro ancora, è l’ozio. Altro che “padre dei vizi”!
Riferimenti
De Masi, D., 1997, Ozio creativo, Ediesse, Roma.
Lafargue, P., Russell, B., 1992, Economia dell’ozio, Olivares, Milano.
Natoli, S., 1999, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano.