Se c’è una legge costante e universale del comportamento umano, questa è che gli individui tendono ad attribuire condizioni soggettive a fattori o elementi oggettivi. Gli esempi abbondano. È esperienza comune sentire qualcuno dire: «Fa freddo» invece di «Sento freddo». Mi capita di sorprendere donne in menopausa che affermano: «Fa caldo», quando il calore è dovuto alle vampate di cui soffrono. Alcuni uomini anziani ripetono: «Il mondo è cambiato», quando dovrebbero dire: «Io sono cambiato». Alcune donne amano ricordare: «Gli uomini sono bestie», quando dovrebbero dire: «L’uomo con cui vivo è una bestia». Adolescenti innamorati pensano: «La vita è bella», traduzione in modalità oggettiva di: «Sono felice». È facile sentire un commento di questo tipo: «Quel piatto è più buono senza formaggio», che traduce: «A me quel piatto piace senza formaggio». Nei tempi antichi, questa legge si manifestava nel rendere dei e demoni responsabili del proprio comportamento («Non sono io, è Pan che mi fa sentire così!»)».
Una variante è rappresentata dall’uso del “noi” invece della forma impersonale o generale. Mi è capitato una volta di assistere alla seguente scena. Una donna era in salumeria in compagnia del marito. Quando venne il suo turno, ordinò del prosciutto dicendo: «Ce ne dia duecento grammi». Questo modo di dire mi fa pensare a gusti alimentari condivisi, ma anche a un assorbimento del personale nel duale, a una forma di cooptazione, o forse a un senso di possesso estremo (chissà se al marito il prosciutto piaceva davvero). In ambito lavorativo, un modo temibile per rimproverare un collega è costituito dall’espressione: «Abbiamo notato che non lavori più come prima», invece di «Ho notato che non lavori più come prima». Il plurale produce una sgradevole sensazione di accusa collettiva a cui è difficile rimanere indifferenti. Potremmo continuare.
Mi sembra che questo meccanismo psicologico, che definisco “conversione nell’oggettivo”, abbia varie funzioni: “oggettivo” vuol dire “universale”, “normativo”, “condiviso”, “comunitario”, “legittimato”, “naturale”, “logico”. Chi trasforma, inconsapevolmente, una condizione soggettiva in oggettiva conferisce a essa un significato nuovo. La sua condizione, improvvisamente, diviene condizione di tutti, stato mentale condiviso, problema comune. Tramite un piccolo scarto, il personale diviene universale e non ci sentiamo più soli, anzi facciamo parte di una comunità in cui tutti sentono quello che sentiamo noi. In virtù di questo trucchetto, il “soggettivo” non diventa solo “intersoggettivo”, ma “naturale”, “senso comune”, e quindi un sapere che non può essere messo in discussione, che non vale la pena di mettere in discussione. Conversione nell’oggettivo vuol dire anche normalità e legittimità. Se quello che sentiamo è avvertito da tutti, non è uno stato idiosincratico: se il calore che sento è oggettivo, la vampata, e la condizione fisiologica a essa associata, spariscono. Se gli uomini sono tutti animali – e non solo mio marito – è legittimo intraprendere azioni contro di essi in quanto categoria generale. Nel caso del “noi” in ambito lavorativo, la conversione nell’oggettivo è una strategia consapevole che genera una sensazione di accerchiamento, se non di mobbing. Può essere, però, anche inconsapevole, soprattutto se, come nel caso della coppia in salumeria, le persone coinvolte vivono una vita quasi simbiotica.
L’oggettività può, dunque, divenire un meccanismo psicologico a tutti gli effetti. Non mi sembra, tuttavia, che sia studiata con attenzione dagli psicologi.