L’invenzione della cleptomania

Inventata nel 1840 dal medico francese Marc, la cleptomania è universalmente nota come un disturbo compulsivo e irresistibile che spinge chi ne è affetto a rubare, pur in assenza di necessità. La definizione si applica, in particolar modo, a chi ruba all’interno di un negozio o un grande magazzino e lo stereotipo ottocentesco vuole che siano soprattutto le donne di condizione agiata a soffrire di questo disturbo. Questo stereotipo è confermato dalla letteratura. Si può dire anzi che la letteratura abbia contribuito più della scienza forense a diffondere il tipo della cleptomane secondo caratteristiche considerate ancora oggi preminenti. Il romanzo che ogni criminologo interessato alla cleptomania dovrebbe leggere è sicuramente Il paradiso delle signore (1883) di Émile Zola, ambientato per lo più proprio in un grande magazzino, il Bonheur des Dames. Del testo, considererò l’edizione Mondadori del 2017.

Zola descrive le ladre per mania che rubano «per una perversione del desiderio, una nuova nevrosi descritta da un alienista come effetto patologico della tentazione esercitata dai grandi magazzini» (Zola, 2017, p. 285). In una scena, spesso citata, la contessa Madame de Boves, viene  colta in flagrante e l’episodio è riportato in maniera molto realistica, come forse nemmeno Lombroso sarebbe stato in grado di fare. Si noti in particolare come vengono descritte le sue crisi:

Da un anno madame de Boves rubava così, tormentata da un bisogno frenetico, irresistibile. Le sue crisi, sempre più gravi e violente, si trasformavano in una voluttà senza la quale non poteva vivere, travolgendo ogni proposito di prudenza e appagando la sua smania con un piacere tanto più forte in quanto mettevano a repentaglio sotto gli occhi di tutti il suo nome, il suo orgoglio e l’alta posizione del marito. Adesso che il conte le lasciava ripulire i cassetti, rubava on le tasche piene di soldi, rubava per rubare come si ama per amare, sotto la sferza del desiderio, in preda alla nevrosi che si era scatenata in lei, in passato, per un’insoddisfatta smania di lusso indotta dall’enorme e brutale tentazione dei grandi magazzini» (p. 469).

Interessante anche la reazione della contessa quando si vede scoperta. Atteggiamenti di sdegno si alternano a condotte pietose e a uscite arroganti, come ancora oggi è possibile verificare quando chi appartiene all’alta borghesia è accusato di un reato.

«Signora, siamo pronti a perdonare un momento di debolezza… Ma vi prego di riflettere a cosa vi può portare un’imprudenza del genere. Se qualcun altro vi avesse visto nascondere i merletti…».

Madame de Boves lo interruppe indignata. Lei, una ladra! Con chi credeva di parlare? Era la contessa di Boves, suo marito, ispettore generale delle stazioni di monta equina, era ricevuto a corte!

«Lo so, lo so, signora» ripeteva imperturbabile Bourdoncle. «Ho l’onore di conoscervi… Ma prima di tutto siete pregata di restituire i merletti che avete addosso…».

Lei ricominciò a protestare, bella di rabbia, senza permettergli di dire una sola parola in più, ricorrendo perfino alle lacrime come una gran dama oltraggiata. Chiunque altro al posto di Bourdoncle si sarebbe impressionato e avrebbe temuto un errore increscioso dal momento che lei minacciava di rivolgersi alla giustizia per vendicarsi di un tale affronto.

«Pensateci bene, signore! Mio marito può andare anche dal ministro».

«Ma via, siete come le altre, non volete proprio ragionare» disse lui spazientito. «Dovremo farvi perquisire, visto che non abbiamo altra scelta».

Lei non batté ciglio, anzi replicò con sprezzante sicurezza:

«Bene, perquisitemi… Ma vi avverto che state rischiando grosso» (p. 468).

«È una trappola!» gridò quando tornarono Bourdoncle e Jouve. «Mi hanno nascosto i merletti addosso! Lo giuro davanti a Dio!».

Ora piangeva lacrime di rabbia, accasciata su una sedia, senza fiato, con il vestito riabbottonato alla meglio. Bourdoncle fece uscire le commesse. Poi riprese con la sua aria tranquilla:

«Signora, siamo disposti a chiudere qui questa spiacevole faccenda per riguardo alla vostra famiglia. Prima, però, dovrete firmare un foglio in cui dichiarate: “Ho rubato dei merletti al Bonheur des Dames”, con l’indicazione degli articoli e la data… D’altronde vi restituirò questo foglio appena mi porterete duemila franchi per i poveri».

Lei si era alzata dicendo, in un nuovo scatto di ribellione:

«Non firmerò mai una cosa del genere, preferisco morire».

«Non morirete per questo, signora. Però vi avverto che in tal caso dovrò mandare a chiamare il commissario di polizia».

Allora ci fu una scenata spaventosa. La contessa lo insultava balbettando che era indegno di un uomo torturare così una donna. La sua bellezza giunonica, il suo corpo maestoso, le si sfiguravano in una furia da pescivendola. Poi, nella speranza di suscitare la loro pietà, si mise a supplicarli in nome delle loro madri, dicendosi pronta a prostrarsi ai loro piedi. E siccome rimanevano impassibili, induriti dall’abitudine a quelle scene, si sedette di colpo e cominciò a scrivere con mano tremante. La penna schizzava inchiostro; le parole «Ho rubato», calcate con rabbia, per poco non bucarono il foglio sottile, mentre lei ripeteva con voce strozzata:

«Ecco, signore, ecco qui… Mi arrendo alla forza…».

Bourdoncle prese il foglio, lo piegò con cura e lo chiuse davanti ai suoi occhi in un cassetto dicendo:

«Come vedete è in buona compagnia, perché in genere le signore che dicono di voler morire piuttosto che firmare si scordano di venire a riprendersi i loro bigliettini… Comunque sia, lo tengo qui a vostra disposizione. Giudicherete voi se vale duemila franchi»

Lei finiva di riallacciarsi il vestito e, ora che aveva pagato, ritrovava tutta la sua arroganza.

«Posso uscire?» chiese in tono secco.

[…].

Madame de Boves ripeté la domanda e, nel vedersi congedata con un cenno del capo, avvolse i due uomini in uno sguardo assassino. Fra tutti gli insulti che si ricacciava in gola, le salì alle labbra un’espressione di melodramma.

«Miserabili!» disse sbattendo la porta» (pp. 469-471).

Oggi, la categoria diagnostica di “cleptomania” è fortemente messa in discussione. Alcuni critici temono che la diagnosi di cleptomania serva a fornire un’argomentazione difensiva agli avvocati di individui dell’alta borghesia che, in questo modo, potrebbero imputare a una condizione psichica, a una mania, quella che è invece una scelta razionale, eludendo la responsabilità penale che deriverebbe dal reato compiuto. Gli scettici ritengono, in altre parole, che la cleptomania costituisca una scappatoia delle classi agiate, come misero in evidenza personalità come Mark Twain ed Emma Goldman. Del resto, questa categoria è nata proprio per rispondere a un quesito che le classi borghesi si ponevano nell’Ottocento: Perché una donna abbiente e di buona famiglia, con un marito pronto a soddisfare ogni suo bisogno, dovrebbe rubare oggetti di poco valore? Dal momento che il quesito non aveva una risposta soddisfacente, si ricorse a un trucco vecchio come il mondo, ossia di imputare la condotta a un episodio di follia. È semplice. Quando non si sa come giustificare un’azione o quando non la si comprende, si chiama in causa la pazzia e tutto è risolto. O meglio nulla è risolto perché la follia non spiega nulla, anche se dà l’impressione di farlo. Lo stesso accade quando si decide di far parte di un gruppo politico o religioso diverso da quello dominante. Pensateci: la pazzia, come spiegazione, è sempre in agguato. È utile, conveniente e basta un medico compiacente.

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