Scavando nella storia di termini oggi familiari a tutti, colpisce il fatto che alcuni di essi abbiano origine da equivoci linguistici o siano linguisticamente stranianti.
Consideriamo i termini “paziente zero”, “quarantena” e “influenza spagnola”.
Con “paziente zero” si fa riferimento all’individuo che, all’interno di una comunità, dà inizio alla diffusione di una malattia infettiva, ossia il soggetto che è all’origine di un focolaio. La ricerca del paziente zero, almeno in alcune narrazioni giornalistiche, è equiparata a quella di un serial killer elusivo mentre, per il senso comune, la sua identificazione risponde agli stessi meccanismi di individuazione del capro espiatorio. In altre parole, il paziente zero sembra essere colui o colei su cui riversare odio e risentimento per la diffusione dell’epidemia: l’ur-untore.
Il termine “paziente zero” non ha un’origine scientifica. Si tratta di un codice adoperato nel 1984 dai Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti per etichettare quello che, all’epoca, fu considerato il primo paziente affetto da HIV, uno steward di nome Gaëtan Dugas, in seguito scagionato dall’infame accusa di essere la fonte dell’epidemia di AIDS. In realtà, il codice utilizzato era “Patient O”, dove “O” stava per “Out of California” (“fuori dalla California”). Nel codice rientrava, dunque, la lettera “O” non lo zero. Fu a causa di un errore di interpretazione che la lettera divenne un numero; errore che fu legittimato e reso immortale dal giornalista Randy Shilts e dal suo libro di successo And the Band Played On (1987). In realtà, spesso il paziente zero non viene trovato, anche se ci sono eccezioni. Ad esempio, per l’epidemia di Ebola in Africa il «paziente zero» sembra sia stato un bambino di 2 anni di un piccolo villaggio della Guinea.
A tutti gli effetti pratici, il termine “paziente zero” è, dunque, l’esito di un equivoco interpretativo.
Veniamo a “quarantena”. Per un italiano può essere difficile conciliare concettualmente un periodo che può essere di cinque, dieci, quattordici o venti giorni con un termine che rimanda al numero quaranta. Per un inglese, nella cui lingua “quaranta” si dice forty, il termine quarantine, al contrario, non suscita nessuna sensazione di stranezza. Questa anomalia (almeno per noi italiani) ha una spiegazione storica e rimanda al periodo della peste nera (1347-1353) che fece circa 20 milioni di vittime in Europa. Nel 1377, la Repubblica di Venezia emanò un regolamento sanitario che imponeva alle navi in arrivo nel porto di trascorrere un periodo di quaranta giorni di osservazione prima di entrare nella laguna. Tale periodo fu nominato “quarantena” dal termine dialettale veneziano per dire “quarantina”. La teoria ippocratica prevalente all’epoca stabiliva, infatti, che le malattie acute, come la peste, potevano manifestarsi al massimo entro il quarantesimo giorno. Curiosamente, nello stesso periodo, la città di Ragusa (oggi Dubrovnik) imponeva un periodo di osservazione di trenta giorni alle navi che arrivavano nel proprio porto. Evidentemente, il termine veneziano ebbe più successo e, da allora, è adoperato per indicare un periodo di isolamento di durata variabile prescritto per persone affette da malattie contagiose.
Da un punto di vista linguistico, colpisce il fatto che questo termine imponga una sorta di cortocircuito mentale, un po’ come leggere la parola “rosso” scritta in azzurro. Si tratta, insomma, di un’esperienza straniante.
Un’esperienza straniante è, infine, “maneggiare” un’espressione come “influenza spagnola”. La cosiddetta “influenza spagnola”, che imperversò nel mondo tra il 1918 e il 1920, mietendo tra le 50 e le 100 milioni di vittime, secondo le stime, si chiama così perché, quando comparve la prima volta, nella primavera del 1918, era quasi terminata la Prima guerra mondiale, e nelle nazioni coinvolte nella guerra la stampa era sottoposta alla censura governativa, che impediva la pubblicazione di notizie che potessero deprimere i soldati e la popolazione. La Spagna, però, era uno Stato neutrale, e quindi i giornali non nascosero la presenza di questa influenza. Per un meccanismo mentale associativo, il resto del mondo finì per collegare inestricabilmente la malattia all’unica nazione che ne parlava, con conseguenze che durano fino a oggi. In realtà, come afferma la giornalista Laura Spinney nel libro 1918. L’influenza spagnola (Marsilio, 2018, p. 179), «oggi c’è soltanto una cosa che possiamo affermare quasi con certezza: l’influenza spagnola non ebbe inizio in Spagna».
La linguistica dell’epidemia può sembrare un gioco ozioso in un periodo in cui si contano contagiati e deceduti. Induce, però, a riflettere su come abitualmente adoperiamo le parole e ci può spingere a usarle meglio e a evitare gli effetti stranianti derivanti dalla sedimentazione di strati di significati cristallizzati nel tempo.