È noto che i processi migratori influenzano non solo la psiche e la personalità dei migranti, ma anche la loro lingua. Immersi in mondi nuovi in cui pochi, se non nessuno pronuncia le loro parole, i migranti, soprattutto coloro che sono divenuti “immigrati”, si trovano alle prese con una situazione drammatica e alienante che mina fin dalle fondamenta la possibilità stessa di comunicare, nonché buona parte di quel senso del quotidiano che la lingua conferisce e che è essenziale per vivere nel mondo. Come reagiscono gli immigrati al continuo avvilimento della propria lingua? Che cosa oppongono alla sottrazione di quello che è il principale canale di espressione della propria esistenza? La storia ci dice che la lingua degli immigrati regge all’urto della nuova società/cultura, ibridandosi, inventando neologismi, spargendo equivoci lessicali e fonetici di cui fa norma, cercando di non soccombere, con quest’opera trasformistica, all’alta marea della tirannica lingua di accoglienza, che si rivela un anfitrione spesso arcigno e intollerante. I compromessi che ne seguono – che i non migranti recepiscono, per lo più, come errori, strafalcioni, eterodossie inammissibili – sono interpretati di solito in chiave umoristica, come indizi di ignoranza e miseria. È più appropriato, invece, interpretarli come forme di accomodamento e resistenza: modi di far fronte ai nuovi lessici e alle nuove norme linguistiche e, contemporaneamente, di opporvi resistenza tramite la conservazione, spesso camuffata, di parole e sintassi della lingua di provenienza.
È quello che accadde in occasione delle migrazioni di massa degli italiani negli Stati Uniti che generarono un vero e proprio folclore linguistico, foriero di situazioni tragicomiche, ancora oggi ricordate dagli storici e dai figli dei figli degli immigrati di inizio Novecento. Un esempio, fornito dagli storici Jerre Mangione e Ben Morreale, è quello del termine ezzolle.
Un immigrato mandò alla moglie in Italia un vaglia postale di 100 lire, con una nota che diceva “Ezzolle”, intendendo così farle sapere che, per il momento “That’s all” (ezzolle), era tutto quello che poteva mandarle. All’ufficio postale l’impiegato incassò il vaglia e le diede 100 lire, ma lei rifiutò di andarsene fino a quando non le aveva dato anche l’ezzolle di cui il marito parlava nella nota. L’impiegato scrollò le spalle e insistette: “Non so niente dell’ezzolle”, ma la moglie, ormai sospettosa, lo rimproverò perché non voleva darle ciò che era suo e chiese ancora una volta l’ezzolle. L’impiegato esasperato le disse: “Va bene, vi darò l’ezzolle. Venite nel mio ufficio e avrete il vostro ezzolle. Se è quello che volete lo avrete”. In ufficio fece all’amore con lei e poi le disse che quello era l’ezzolle che aveva chiesto. Dopo nove mesi la moglie ebbe un bambino; era adirata: ne aveva già nove e non aveva bisogno di averne altri, perciò fece scrivere al marito in America dal compare: “Caro marito, mandami altre 100 lire, ma non mandarmi più l’ezzolle” (Mangione, J., Morreale. B., 1996, La storia. Cinque secoli di esperienza italo-americana, SEI, Torino, p. 233).
In questo, come in tanti altri casi simili, la reazione immediata è quella della barzelletta, della comicità ai danni dell’ignoranza, della battuta faceta. Dietro la facezia, però, si nascondono ansia, alienazione, “crisi della presenza” (per dirla con De Martino) e incomprensioni comunicative generatrici di situazioni schizogene, stati di confusione, vere e proprie patologie mentali. Oggi reagiamo con leggerezza a queste narrazioni dei tempi delle nostre migrazioni. Esse, però, riflettono condizioni di vita infelici, tremende, impossibili che abbiamo dimenticato, avvolgendole in una nuvola di umorismo, ma che caratterizzano tuttora tanti migranti che, nella contemporaneità, giungono sulle sponde del nostro paese.