“L’ha detto in punto di morte” ovvero della “fallacia del capezzale”

Quello che si dice in punto di morte contiene maggiore saggezza e verità di tutto ciò che è stato detto in precedenza? L’avvicinarsi dell’ora fatale incoraggia gli esseri umani a formulare riflessioni più profonde sulla vita? E queste riflessioni posseggono un maggiore grado di virtù e autenticità rispetto a tutte quelle manifestate negli anni precedenti? La vicinanza della morte concede maggiori meriti alle nostre opinioni tanto da donare loro la dignità di essere ricordate come “le ultime parole”? Pentimento, conversione e confessione in punto di morte sono più autentici rispetto al pentimento, alla conversione e alla confessione che hanno luogo in altre fasi della vita?

Agisce in noi uno strano pregiudizio, diventato indiscusso luogo comune, secondo cui tutto ciò che è associato al tempo immediatamente precedente la morte è per ciò stesso vero, autentico, degno di fede. Non a caso, è diventato quasi un genere letterario raccogliere le ultime parole, reali o putative, pronunciate da personaggi illustri, quasi che in esse si celasse un contenuto di verità altrimenti ineffabile. Tale esercizio è talvolta praticato con il fine non dichiarato di provare la bontà delle proprie idee o credenze, come quando si recuperano conversioni religiose di noti atei per dimostrare e rafforzare il valore di verità del proprio credo. In altri casi, le “ultime parole” sono considerate con venerazione, quasi provenissero da una fonte sacra che le ammanta di significati profondi che vanno ben al di là della loro frequente banalità. È per questo che una promessa o un giuramento resi a una persona in punto di morte sono considerati particolarmente vincolanti e una loro violazione una grave immoralità.

Più prosaicamente, tendiamo ad attribuire grande valore alle esternazioni di chi, sentendosi prossimo alla morte, manifesta rammarico per non aver trascorso più tempo con i propri familiari, per non aver viaggiato di più, per avere dedicato troppo tempo al lavoro invece che alle cose davvero importanti, per non essere stato sincero con le persone amate, per non aver fatto questo o quello ecc. I sopravvissuti fanno spesso eco a questi rimpianti, rimproverandosi di non aver trascorso più tempo con il caro defunto, di non aver assecondato i suoi ultimi desideri, di non avere espresso più frequentemente i propri sentimenti nei suoi confronti.

Tali situazioni si reggono su un presupposto raramente messo in discussione, che Rikard Hjort, battezza Deathbed Fallacy, espressione che potremmo tradurre con “fallacia del capezzale”. Per fallacia del capezzale, si intende la nozione errata secondo cui ciò che si afferma, pensa, sente quando si è sul punto di morire ha un valore generalmente superiore a ciò che si afferma, pensa, sente in altri momenti della vita, tanto da poter assurgere a regola etica assoluta che chiunque dovrebbe condividere se desidera vivere una vita migliore. Così, se si rimpiange in punto di morte di non aver dedicato più tempo ai propri cari, il tempo trascorso con questi diventa un modello etico a cui far riferimento per una esistenza più degna di questo nome. Se il rammarico riguarda il non aver dedicato più tempo a sé stessi, la coltivazione del sé autentico diventa un motivo ispiratore di primaria importanza. Non a caso, queste argomentazioni sono riprese anche da guru spirituali come Bronnie Ware, infermiera addetta al reparto cure palliative di un ospedale e autrice di The Top Five Regrets of the Dying: A Life Transformed by the Dearly Departing (2012) in cui, raccogliendo i rimpianti di tante persone prossime alla morte, ha sviluppato un metodo per raggiungere una condizione di pace mentale, traendo ispirazione dalle ultime parole dei suoi pazienti.

Ma perché quella del capezzale è una fallacia della mente? Per vari motivi.

Innanzitutto, ciò che si afferma, pensa, sente quando si è in punto di morte non può essere considerato superiore a o rappresentativo di ciò che si afferma, pensa, sente durante l’intera vita. Ciò che si desidera al capezzale da vecchi può non essere affatto desiderabile in gioventù; ciò che è ritenuto importante da adolescente può non avere nulla a che fare con ciò che è ritenuto importante in una fase successiva della vita; ciò che ci rende felici nella mezza età può non renderci felici da vecchi. Valori, desideri, ambizioni, aspettative, credenze cambiano insieme a noi e al nostro orizzonte temporale. Chi ha una lunga aspettativa di vita davanti a sé non vede l’esistenza come chi ha solo pochi giorni o ore di vita. Una casa per cui faremmo qualsiasi sacrificio quando abbiamo trent’anni può esserci del tutto indifferente a ottanta. Una donna di cui ci innamoreremmo pazzamente a venticinque anni potrebbe essere giudicata in modo diverso venticinque anni dopo. Un film che ci emoziona a settant’anni può annoiarci a venti. E così via. A ogni fase della nostra vita corrisponde un sé peculiare che può essere del tutto estraneo o indifferente agli altri sé che ci capita di interpretare. Per lo stesso motivo, in fasi diverse della vita, è possibile provare il medesimo intenso dolore per ragioni completamente diverse. Come recita un efficace aforisma dello scrittore americano Mark Twain (1835-1910), tratta da Which Was the Dream? (1897): «Nessun dolore dal quale siamo afflitti può essere definito infimo: in base alle leggi eterne della proporzione, un bambino che smarrisce la sua bambola e un re che smarrisce la sua corona sono eventi delle stesse dimensioni» (Tuckey, 1966),

Una seconda ragione per cui parliamo di fallacia del capezzale è che, dal momento che la vita consiste nel fare delle scelte a scapito di altre, quando si è in punto di morte, inevitabilmente ci saranno cose che non avremo fatto e che, forse, rimpiangeremo di non aver fatto, ma che altre persone, diverse da noi, avranno fatto, non rimpiangendole per nulla. In altre parole, la mappa dei successi e dei rimpianti è diversa da individuo a individuo per cui non si può trarre dai rammarichi di un singolo moribondo una ricetta generale per la felicità collettiva. Se avrò dedicato più tempo al lavoro che alla famiglia, potrò rimpiangere di non aver trascorso più tempo con i miei cari, ma un’altra persona potrebbe sentirsi non realizzata nel lavoro e, quindi, rammaricarsi per non aver dedicato maggiori energie a questo.

Un terzo motivo per cui ciò che viene esternato al capezzale non è necessariamente vero rimanda a una seconda fallacia, generalmente nota come “fallacia genetica” (Gilovich, 1993). Nella fallacia genetica, l’errore consiste nel giudicare un’idea dalle sue origini piuttosto che dalla sua validità. Un esempio è fornito dalla seguente affermazione: «Il sostenitore di quella idea è un povero barbone. Come puoi prestargli fede?»; oppure dalla seguente: «Il testimone è un ladruncolo/un drogato. Come puoi prestargli fede?». Un altro esempio emblematico è rappresentato da chi proclama: «È vero perché è scritto nella Bibbia». Naturalmente, il fatto che l’origine di una proposizione sia un libro ritenuto sacro da molti non significa che essa contenga obbligatoriamente la verità. Allo stesso modo, chi crede che una confessione avvenuta in punto di morte sia necessariamente vera solo perché avvenuta in punto di morte soggiace alla medesima fallacia.

Una quarta ragione riguarda le condizioni in cui sono proferite le ultime parole al capezzale. È noto che gli ultimi discorsi di un moribondo sono fortemente condizionati dalla disperazione del momento, che pregiudica la lucidità mentale anche del più freddo tra gli esseri umani; dal timore della morte imminente; dal ripiegamento su sé stessi tipico di chi è affetto da gravi patologie; dall’ansia di conoscere che cosa c’è, se qualcosa c’è, dopo la morte; dallo stato di prostrazione fisica e mentale; dalle aspettative sociali e religiose; dalle credenze; dall’ambiente familiare in cui si è cresciuti. Le cose peggiorano poi se la malattia compromette direttamente la salute mentale e fisica dell’individuo, impedendogli di ragionare in maniera adeguata.

Per questo motivo, le confessioni, i pentimenti e le conversioni in punto di morte, cui spesso tendiamo ad attribuire grande valore, non sono sempre da giudicare attendibili o, addirittura, come comprovanti la verità del credo in cui ci si converte, di ciò che viene confessato o di ciò di cui ci si pente. Lo afferma chiaramente Robert Cooper, autore, a metà del XIX secolo, di un curioso opuscolo dal titolo Death-Bed Repentance; Its Fallacy and Absurdity when Applied as a Test of the Truth of Opinion; With Authentic Particulars of the Last Moments of Distinguished Free-Thinkers (1852) ossia Pentimento in punto di morte. Sua fallacia e assurdità quando utilizzato come prova della verità di una opinione. Con i resoconti autentici degli ultimi momenti di illustri liberi pensatori.

Scrive Cooper:

Ci chiediamo: perché si attribuisce tanta importanza al pentimento in punto di morte? Perché è tanto frequentemente adottato come criterio di verità o falsità, di negazione o fondamento, di principi o sistemi? Forse perché un individuo in punto di morte dovrebbe trovarsi nella migliore condizione mentale per decidere la verità o superiorità dei sentimenti che nutre? Ovviamente, no. Tale assunto è macroscopicamente assurdo. Sappiamo, in effetti, che lungi dall’essere la migliore, la condizione che precede la morte è il momento più inadeguato per formulare un giudizio sul tema. Debilitate dall’infermità, rese gracili dalla malattia, tormentate dal dolore, distratte dall’ansia, le facoltà mentali sono, di necessità, pressoché inabili a svolgere le loro legittime funzioni. La mente è ormai indebolita e confusa, la percezione naturalmente meno acuta, il giudizio meno energico e preciso. Dedurre la verità o la falsità di un principio o di un sistema dalle parole di chi sta per trapassare sarebbe quasi altrettanto assurdo che dedurre la loro verità o falsità dagli accessi d’ira di chi si trova in stato di ebbrezza. Se, nel primo come nel secondo caso, l’impero della ragione non è stato ancora del tutto rovesciato, tuttavia, in entrambi, alla ragione è impedito di esercitare il suo legittimo e benefico dominio. È vero, tuttavia, che alcuni individui hanno, a quanto pare, conservato le loro consuete facoltà mentali e continuato la propria attività fino al momento della morte […]; ma sono eccezioni, illustri eccezioni, non la regola generale: ma nemmeno essi hanno conservato la stessa vivacità intellettuale, la stessa efficienza mentale, la stessa attitudine di pensiero o solidità di giudizio che avevano quando si trovavano in uno stato di convalescenza o maturità. È evidente quindi che la prassi di considerare ritrattazioni e parole pronunciare in punto di morte come prova, sia affermativa che negativa, della verità o falsità di un sistema, è sia assurda che fallace (Cooper, 1852, p. 4).

E ancora:

Ritengo che ogni sistema, religioso o politico, dovrebbe reggersi o dichiarare fallimento solo in base ai propri meriti, e sottoporsi al più severo esame fisico e razionale, quando tutte le facoltà sono in pieno vigore e potenza, e non quando la mente è incapace di condurre un’indagine con quella serenità e precisione di ragionamento con cui solo tutti i principi dovrebbero essere messi alla prova. Dovremmo considerare le opinioni di un uomo quando questi è convalescente, non quando è malato. Dovremmo chiederci cosa ha detto, non in punto di morte, ma quando era veramente sé stesso, e le sue azioni erano caratterizzate da vigore ed energia. Un sistema che si basasse su una testimonianza così debole sarebbe, in realtà, marcio (Cooper, 1852, p. 5).

Confessioni, conversioni e pentimenti in articulo mortis sono, dunque, fortemente condizionati dalla paura della morte, dal bisogno di una forma di consolazione o rassicurazione per una condizione nei confronti della quale non si hanno certezze assolute e, forse, dalla speranza che la vita, per qualche motivo, non cessi con la dissoluzione del corpo. Del resto, anche la Bibbia, seppure presenti il caso del malfattore crocifisso accanto a Gesù e pentitosi in punto di morte al quale lo stesso Gesù promette: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Luca 23, 43), insiste sulla necessità di ravvedersi immediatamente: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (Matteo 4, 17) senza attendere dunque gli ultimi istanti di vita.

C’è, tuttavia, un tipo di confessione in punto di morte che, da sempre, viene giudicato attendibile e che nessuna ritrattazione serve a invalidare. Si tratta della confessione dei delitti. Ne sa qualcosa James Washington, il quale, nel 2009, credendosi in fin di vita a causa di un infarto, confessò di aver ucciso la trentacinquenne Joyce Goodener nel 1995. Superato inopinatamente l’infarto, Washington tentò disperatamente di ritrattare la confessione, dichiarando di essere stato vittima di una allucinazione, ma inutilmente. “Non si mente in punto di morte” devono aver pensato i giudici, che evidentemente non avevano mai sentito parlare di fallacia del capezzale o, forse, hanno semplicemente creduto che, in questo caso, non andasse applicata.

Riferimenti

Cooper, R., 1852, Death-Bed Repentance; Its Fallacy and Absurdity when Applied as a Test of the Truth of Opinion; With Authentic Particulars of the Last Moments of Distinguished Free-Thinkers, E. Truelove, 240, Strand, London.

Gilovich, T., 1993, How We Know What isn’t So: The Fallibility of Human Reason in Everyday Life, The Free Press, New York.

Tuckey, J. S. (a cura di), 1966, Mark Twain’s Which Was the Dream? and Other Symbolic Writings of the Later Years, University of California Press, California.

Ware, B., 2012, The Top Five Regrets of the Dying: A Life Transformed by the Dearly Departing, Hay House, Australia.

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