«La sapienza è figliola della sperienza» diceva Leonardo Da Vinci. Sebbene il filosofo italiano intendesse riferirsi all’esperimento come metodo di conoscenza, la maggior parte di noi sottoscriverebbe l’assunto che l’esperienza è maestra di vita e il suo postulato che le persone esperte sono persone dalle quali si può imparare perché l’esperienza è sapienza.
L’esperienza è considerata una condizione positiva. Ci fidiamo di chi ha esperienza nel suo lavoro: dell’azienda che produce le sue merci da un secolo, del medico che pratica la sua professione da anni, dell’insegnante che impartisce le sue conoscenza da una vita. Al tempo stesso, riveriamo i vecchi perché “hanno esperienza” e siamo invitati ad avere fiducia in chi “ha più esperienza di noi”. Il lavoratore esperto accompagna il neoassunto verso l’acquisizione di conoscenze che “non sono contenute nei libri”. Il calciatore esperto rimedia ai guai dell’età avendo alle spalle centinaia di partite giocate in prima squadra. L’esperienza – si dà per scontato – ci aiuta ad affrontare le asperità della vita, a non cedere agli impulsi, a distinguere il vero dal falso, il sentimento effimero da quello duraturo, l’ipocrisia dalla sincerità. L’esperto è una persona in cui abbiamo fiducia e a cui sentiamo di poterci affidare. Insomma, l’esperienza non è solo una condizione, ma un valore. Un valore naturalmente positivo. Ma le cose stanno davvero così? L’esperienza è sempre maestra di vita? O si tratta di un luogo comune?
In un certo senso, è vero che s’impara dall’esperienza perché è facendo esperienza del mondo che possiamo imparare come va il mondo. Ma, come ricorda lo psicologo Richard Farson, «per imparare dall’esperienza dobbiamo rielaborarla in modo da poterla sfruttare. Dobbiamo analizzarla. E la maggior parte di noi, per una ragione o per l’altra, non lo fa. Non vogliamo dedicarle tempo ed energia; non vogliamo vedere i suoi lati sgradevoli; non vogliamo guardare troppo dentro ai nostri insuccessi. L’esperienza potrebbe essere la nostra migliore maestra, ma raramente lo è» (Richard Farson, 1998, Il management per paradossi. Modelli di leadership per il XXI secolo, Franco Angeli, Milano, pp. 84-85).
In effetti, non basta aver sperimentato ripetutamente determinate condotte. Se queste esperienze non diventano oggetto di riflessione e di indagine, non sono altro che mero accumulo di azioni e situazioni sedimentate nel tempo e sclerotizzate nella nostra mente. Si pensi all’esperienza del vecchio vissuto sempre nello stesso luogo, a contatto sempre con le stesse persone. Per quanto sia in grado di dirci tutto sui suoi concittadini, non sarà di alcuna utilità a chi vive in città o si trova a viaggiare per il mondo. Esperienze limitate, per quanto ripetute nel tempo, assicurano una conoscenza altrettanto limitata, di certo non generalizzabile. Oppure, si pensi all’impiegato pubblico che in trent’anni di servizio ha svolto sempre la stessa mansione di protocollista. È difficile che questi possa utilmente impartire le sue conoscenze al neoassunto destinato a compiti superiori. Come ricorda ancora Farson: «Il consulente aziendale Robert Tannenbaum sostiene che molti executives che lavorano da anni e anni, diciamo 30, non sempre hanno 30 anni d’esperienza; possono avere un solo anno d’esperienza ripetuto 30 volte» (Richard Farson, 1998, Il management per paradossi. Modelli di leadership per il XXI secolo, Franco Angeli, Milano, p. 85).
In alcuni casi, come diceva Oscar Wilde, «l’esperienza è il nome che diamo ai nostri errori». Ciò significa che avere esperienza può equivalere, in alcune circostanze, a ripetere continuamente gli stessi errori legittimandoli con il tempo. La frase “Ho sempre fatto così!” riassume perfettamente questa condizione e rimanda a un’abitudine pervicacemente consolidata, a una mera riproposizione degli stessi comportamenti mai messi in discussione, ma validati da innumerevoli ripetizioni.
L’esperienza talvolta ci ottunde: diventata mera abitudine fossilizzata, anchilosata, paralizza la nostra percezione e comprensione delle cose, imponendo una visione monoculare di esse e impedendo la possibilità di esplorare nuove strade, trovare nuove soluzioni ai problemi. In questi casi, l’esperienza non è maestra di vita, ma nemica della creatività e del pensiero innovativo.
In altri casi, l’esperienza induce una sorta di deformazione professionale che ci fa vedere il mondo solo da un punto di vista: ad esempio dal punto di vista dell’insegnante, del prete, del giudice, del burocrate ecc. L’esperienza può sviluppare un lato della nostra personalità, ma narcotizzare o sopprimere gli altri lati. In circostanze estreme, l’esperienza può diventare addirittura fucina di pregiudizi e discriminazioni: se ci si rapporta nei confronti delle persone sempre allo stesso modo, è probabile che si inducano sempre le medesime reazioni, le quali confermeranno nel tempo le stesse idee a proposito delle stesse persone. Ad esempio, se penso che le donne siano inferiori agli uomini, mi rapporterò nei loro confronti in atteggiamento di sufficienza; atteggiamento che produrrà reazioni e sentimenti di inferiorità che confermeranno l’assunto iniziale della subalternità femminile e che confluiranno, con il benestare del tempo, nell’“esperienza” della inferiorità femminile.
Infine, nella società contemporanea soggetta a innovazioni radicali e subitanee e in cui il sapere tende rapidamente all’obsolescenza, l’esperienza può trasformarsi addirittura in un ostacolo al progresso della conoscenza, favorendo processi di sedimentazione di saperi superati e incompatibili con esigenze celermente mutevoli. Incidentalmente, questo è uno dei motivi per cui la vecchiaia è così svalutata oggigiorno. Il vecchio, infatti, è visto spesso come portatore di saperi antiquati di cui nessuno sa cosa fare, a differenza delle società di un tempo dove il sapere progrediva meno velocemente, consentendo la percezione del vecchio come custode della tradizione.
“L’esperienza, maestra di vita” è una verità alla quale ci aggrappiamo ostinatamente perché così ci è stato insegnato da quando eravamo piccoli. Spesso però si tratta di un luogo comune che persiste solo perché ripetuto ad nauseam.