È una sscena! Cqua oggnuno ha er zu’ segreto.
Chi vvò er cannello, chi vvò la patacca,
chi er làvudon, chi er thè, chi una casacca
de fanella, chi er vischio de l’abbeto:
uno canfora, uno ojjo, e un antro asceto:
questo vò che sse dormi co ’na vacca:
quello disce ch’er male nun z’attacca
a le donne che in corpo abbino er feto…
Sta vertú cche ppò avé la gravidanza
mó ha ccressciuta la rabbia in ne le donne
de fasselo infilà ddrent’a la panza.
Per cui mariti, amichi e confessori
nun arriveno a ttempo a ccorrisponne
a ttante ordinazzione de lavori.
1° settembre 1835
Il poeta romano Giuseppe Gioachino Belli (1791-1863) visse in prima persona l’epidemia di colera che si abbattè sull’Italia tra il 1835 e il 1837, mietendo centinaia di vite. Al colera, che gli portò via anche la moglie, dedicò ben 34 sonetti, “Er collera moribus”, con i quali tratteggiò vezzi, costumi e reazioni della gente del tempo alla diffusione del morbo.
Si era in epoca pre-virale e pre-batterica e il popolino non sapeva come condursi di fronte al diffondersi di quello che sarebbe stato chiamato Vibrio cholerae (che è un batterio, non un virus). Non dobbiamo sorprenderci, dunque, che le persone si volgessero alla religione – in particolare alla Madonna e a santi come San Rocco e San Sebastiano – per cercare conforto alle pene causate dalla epidemia o mettessero in atto condotte superstiziose, convinte della loro efficacia protettiva.
Il sonetto precedente è un elenco di tali rimedi apotropaici che affidavano a materiali come la moneta, il laudano, la flanella, la canfora, l’olio e a condizioni come la gravidanza proprietà salvifiche che, naturalmente, esistevano solo nell’immaginario popolare.
Se, però, fossimo tentati di deridere con fare supercilioso le credenze dei coevi del Belli, dovremmo ricrederci.
Come testimonia oggi il Ministero della Salute sul suo sito, anche in occasione della recente epidemia da Covid-19 le persone hanno adottato condotte superstiziose a scopo preventivo non dissimili da quelle adottate dai nostri avi ottocenteschi. Le bufale in cui abbiamo creduto e, in parte, ancora crediamo, contemplano fra l’altro: mangiare aglio o peperoncino, bere latte o alcol, assumere acqua e bicarbonato, tagliare la barba, ingerire argento colloidale, fare gargarismi con la candeggina, assumere acido acetico o steroidi, utilizzare oli essenziali e acqua salata, bere metanolo o etanolo, assumere quantità spropositate di proteine e vitamine.
Fenomeni di superstizione e suggestione di solito accompagnano il propagarsi delle epidemie e hanno origine dalla condizione di incertezza in cui ogni epidemia ci proietta. La proliferazione di falsi rimedi, improbabili condotte apotropaiche, inverosimili quanto gratuite credenze è direttamente proporzionale alla situazione di caos cognitivo in cui viviamo. Più si è incerti, più si tende a credere a ogni frammento di informazione, perché dietro ogni fonte, per quanto incoerente, potrebbe celarsi la verità. Così anche un Trump che consiglia iniezioni di disinfettante per contrastare il coronavirus viene preso sul serio da alcuni cittadini americani, disposti a mettere a repentaglio la propria vita perché “lo dice il presidente”.
Ciò dimostra che le superstizioni non sono un fenomeno da relegare nelle epoche “buie” dell’umanità, ma una risposta “normale” della mente umana al caos psicologico e sociale che segue il verificarsi di eventi spiazzanti come catastrofi naturali ed epidemie. Le superstizioni, per quanto irrazionali, rappresentano un tentativo di conferire significato al mondo che ci circonda in assenza di riferimenti certi. Sono la soluzione che la nostra psiche offre al dilagare caotico di timori e congetture.
Ecco perché le bufale sono probabilmente inestirpabili. Ed ecco perché è necessario ostinarsi a contrastarle. Non nel senso banale di censurarle o deriderle, ma contrapponendo a esse conoscenze solide e scientificamente fondate.