Una delle domande che mi ponevo quando scrivevo di pareidolia, l’illusione che ci porta a vedere in immagini amorfe forme dotate di senso, è se ci sono delle persone che, in virtù di determinate caratteristiche psicologiche, sociali o di altro tipo, più di altre tendono a essere “pareidoliche”, a vedere cioè cose dove non ci sono. Secondo Susan Blackmore e Rachel Moore, autrici dell’articolo “Seeing Things: Visual Recognition and Belief in the Paranormal” (1994), la risposta è tendenzialmente positiva. Nel corso di un esperimento le due psicologhe sottoposero a due gruppi di soggetti – uno composto da persone credenti nel paranormale (sheep) e l’altro composto da persone scettiche nei confronti del paranormale (goats) – una serie di immagini via via sempre più sfocate e ambigue, rilevando che i “credenti” tendono più dei “non credenti” a “vedere cose” in immagini ambigue. Blackmore e Moore ipotizzano l’esistenza di due stili cognitivi diversi che spiegherebbero i diversi risultati. Naturalmente, ciò non significa – avvertono le due autrici – che non esistano fenomeni paranormali, ma che è almeno disponibile una spiegazione alternativa del perché alcune persone, più di altre, vedono fantasmi, odono voci ecc. Una spiegazione che interpreta le testimonianze favorevoli al paranormale non nei termini dell’esistenza effettiva di fantasmi, voci dall’aldilà ecc., ma di predisposizioni psicologiche sulla cui origine, peraltro, Blackmore e Moore non dicono granché.
Insomma, chi crede nel paranormale vede più cose rispetto a chi non ci crede e ciò, a sua volta, può rinforzare proprio quelle credenze, innescando un diabolico circolo vizioso di cui, sono convinto, molte persone sono vittime.
Ritengo sia importante essere consapevoli dei propri “stili cognitivi”. Ciò ci permetterebbe di capire che, se vediamo certe cose, ciò non avviene necessariamente perché queste cose sono reali, ma forse perché è il nostro cervello che incoraggia le nostre visioni.