Una delle conclusioni a cui giunge il recente libro dello storico Peter Burke, Ignoranza. Una storia globale (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2023) è che l’ignoranza è un campo di studi ancora largamente… ignorato. La tendenza umana a privilegiare il sapere e, quindi, ciò che si conosce ha portato a trascurare ciò che non si conosce. Ma ciò che non si conosce non è una semplice assenza, ma è spesso il risultato di una strategia deliberata del potere che ha interesse a mantenere i suoi sudditi in uno stato di conoscenza assente.
Se questo è vero, è vero anche che l’ignoranza assume diverse forme che, con Burke, possiamo provare a sintetizzare.
Innanzitutto, c’è quella che lo studioso Robert Proctor definisce agnotology, ovvero lo studio dell’ignoranza culturalmente indotta, in particolare la pubblicazione di dati scientifici imprecisi o ingannevoli, come quelli, analizzati dallo stesso Proctor, prodotti dall’industria americana del tabacco per depistare l’attenzione dell’opinione pubblica dal nesso tabacco-cancro. Anche le istituzioni militari e farmaceutiche sono note per la produzione di informazioni distorte e parziali, finalizzate a diffondere un tipo di conoscenza – e quindi di ignoranza – favorevole ai propri interessi. Coniando il termine agnotology, Proctor osserva come l’ignoranza sia più della semplice assenza di conoscenza: essa può considerarsi come l’esito di conflitti politici e culturali tesi a promuovere dubbio, incertezza, ignoranza appunto, relativamente a questioni concrete e importanti spesso nell’interesse di determinati gruppi di potere. L’ignoranza può, dunque, essere costruita attivamente come parte di un piano deliberato.
C’è poi la “dotta ignoranza”, termine coniato dal filosofo quattrocentesco Niccolò Cusano,il quale credeva che al concetto di Dio ci si possa avvicinare soltanto negando quello che egli non è, nel presupposto che Dio sia ineffabile e quindi non conoscibile direttamente.
C’è l’ignoranza organizzativa, provocata dalla diseguale distribuzione della conoscenza all’interno di una organizzazione. L’ignoranza organizzativa è funzionale sia al mantenimento di differenziali di potere all’interno della gerarchia organizzativa sia al più pragmatico svolgimento dei compiti da parte dei singoli membri dell’organizzazione (quella che gli americani chiamano need-to-know-basis).
Ci sono i known knowns, conoscenze di cui si è consapevoli, ciò che si sa di sapere; i known unknowns, le conoscenze inconsce, ciò che non si sa di sapere; gli unknown knowns, ciò che si sa di non sapere; gli unknown unknowns, ciò che non si sa di non sapere.
C’è l’ignoranza selettiva di chi sceglie di non sapere (ad esempio, scegliere di non sapere se si ha un tumore) e l’ignoranza utile o virtuosa (come quando l’ignoranza dell’infedeltà del proprio partner contribuisce al perdurare del matrimonio).
C’è l’ignoranza bianca di chi, bianco, ignora o ha false credenze sui neri e l’ignoranza asimmetrica (quando il gruppo A sa meno del gruppo B o viceversa).
Si potrebbe continuare.
L’ignoranza è un campo quasi inesplorato, eppure essa contribuisce a orientare le nostre esistenze al pari della conoscenza (anche se lo ignoriamo).
Se desiderate sapere di più sull’argomento, vi rimando alla lettura del libro di Burke.
Vi raccomando anche il mio Alcune funzioni sociali dell’ignoranza (Armando Editore, Roma, 2020) che illumina su alcune sorprendenti funzioni dell’ignoranza nella società. Probabilmente l’unico libro di sociologia dell’ignoranza presente sul mercato editoriale.