Sono stati i sociologi Donald Horton e Richard Wohl, nel 1956, a notare che una delle caratteristiche più rilevanti dei mass media (all’epoca il riferimento era a radio, televisione e cinema) è quella di dare allo spettatore l’illusione di vivere un rapporto faccia a faccia con i protagonisti del piccolo e grande schermo e con quelli della radio; una situazione che, per i due autori, presenta forti analogie con i rapporti sociali che avvengono all’interno dei cosiddetti gruppi primari (famiglia, amici ecc.). Horton e Wohl definiscono questo rapporto “interazione o relazione parasociale”.
Il fatto di essere esposti in maniera costante e continuativa a volti (spesso in primo piano), voci e corpi di attori, giornalisti e altre personalità che devono la loro fortuna ai mass media fa sì che negli spettatori e ascoltatori (ma Horton e Wohl si riferiscono soprattutto agli spettatori televisivi) si crei una sensazione di familiarità e intimità quasi reale, pur essendo totalmente fittizia.
Naturalmente, tuttavia, esiste una profonda differenza tra i rapporti sociali e quelli parasociali.
La differenza cruciale tra le due esperienze sta ovviamente nella mancanza di reciprocità reale, cosa che il pubblico non può normalmente nascondere a sé stesso. Certo, il pubblico è libero di scegliere tra le relazioni offerte, ma non può crearne di nuove. L’interazione, tipicamente, è unilaterale, non dialettica, controllata dall’attore e non suscettibile di sviluppo reciproco (Horton, Wohl, 1956, p. 215).
E ancora:
È una caratteristica invariabile di questi programmi basati sulle “personalità” che la persona si adoperi per creare un’illusione di intimità. La chiamiamo illusione perché la relazione tra la persona e qualsiasi membro del suo pubblico è inevitabilmente unilaterale e la reciprocità tra i due può essere solo allusa (Horton, Wohl, 1956, p. 217).
Horton e Wohl definiscono con il nome di personae (dal latino persona, ossia “maschera”) i personaggi televisivi coinvolti in questi rapporti parasociali.
Queste “personalità”, di solito, non primeggiano in nessun ambito sociale se non in quello dei media. Esistono per il loro pubblico solo nella relazione parasociale. In mancanza di un nome appropriato, li chiameremo personae (Horton, Wohl, 1956, p. 216).
La persona intrattiene un legame speciale con i suoi spettatori, che Horton e Wohl così definiscono:
I suoi fedeli “vivono con lui” e condividono i piccoli eventi della sua vita pubblica e, in una certa misura, anche della vita privata vissuta lontano dallo schermo. In effetti, la loro continua relazione si protrae nel tempo e l’accumulo di esperienze passate condivise conferisce ulteriore significato alla relazione. Questo legame è simboleggiato da allusioni che non hanno alcun senso agli occhi dell’osservatore occasionale e appaiono misteriose all’esterno. Col tempo, il fedele, il “fan”, arriva a credere di “conoscere” la persona in modo più intimo e profondo di altri; di “capire” il suo carattere e apprezzare i suoi valori e le sue motivazioni (Horton, Wohl, 1956, p. 216).
Le conseguenze di tale interazione sono descritte nel modo seguente:
La persona può essere considerata dal suo pubblico come un amico, un consigliere, un consolatore e un modello; ma, a differenza dei veri amici, ha la peculiare virtù di essere rinchiuso all’interno di una “formula” che ne standardizza il carattere e la condotta e che lui e i suoi manager hanno elaborato e incarnato in un appropriato “formato di produzione”. Così, il suo carattere e il suo modello di azione rimangono sostanzialmente invariati in un mondo di cambiamenti inquietanti. La persona è solitamente prevedibile e non riserva ai suoi seguaci sorprese spiacevoli. Il loro rapporto non dà luogo a problemi di comprensione o empatia così grandi da non essere rimediabili (Horton, Wohl, 1956, p. 217).
Il legame parasociale che si crea tra persona e spettatore crea profonde distorsioni conoscitive e interpretative nei fan. Ad esempio, il fan può essere convinto di conoscere ogni aspetto intimo e autentico del suo attore preferito al punto che, se la cronaca ne rivela un comportamento difforme dalle aspettative dell’ammiratore, questi può esserne colpito molto negativamente tanto da accusare il cronista di “inventare storie” perché il suo “eroe” non si comporterebbe mai così.
Il paradosso è che, sebbene il fan acquisisca le conoscenze sul suo beniamino dai film in cui questi recita, dalle interviste che concede o dalle “paparazzate” dei giornalisti, ossia da contesti in cui domina la finzione e l’esibizione di un sé falso da parte dell’attore, il suo ammiratore si dichiara certo di conoscerne il sé “autentico” e niente sembra in grado di persuaderlo del contrario.
Addirittura, in alcuni casi, il fan sfegatato crede di conoscere il suo eroe più e meglio dei suoi familiari, parenti, amici, nonostante non abbia mai avuto un rapporto reale con lui/lei. I baci e le lacrime dell’attore impegnato in un film, le interviste televisive in cui “mette a nudo il suo cuore”, i sorrisi così “sinceri” esibiti in mille occasioni sono finti, per definizione, ma conferiscono un’illusione di intimità che, talvolta, è preferibile all’assenza di intimità che si ha con le persone che appartengono alla cerchia dei propri amici, conoscenti, parenti.
Meglio allora una bellissima familiarità finta che una pessima intimità reale. Quando la vita reale è insopportabile, le illusioni aiutano a sopportarla, soprattutto quando sono garantite a buon mercato dai mass media.
Fonte
Donald Horton & R. Richard Wohl (1956) “Mass Communication and Para-Social Interaction”, Psychiatry, vol. 19, n. 3, pp. 215-229. PDF.