Esistono vari modi in cui la discriminazione e il razzismo possono insinuarsi nello sport. È razzista il tifoso che subissa di fischi il calciatore di pelle nera della squadra avversaria. È antisemita il tifoso che chiede alla propria squadra di non acquistare un giocatore tacciato di appartenere a un gruppo sociale da lui giudicato sgradevole (come accadde nel 1989 allorché frange antisemite del tifo udinese impedirono l’acquisito del giocatore belga Ronny Rosenthal). È colpevole di “discriminazione territoriale”, secondo l’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva, chi mette in atto una «condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità̀, origine etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori». Ma la discriminazione e il razzismo non riguardano solo tifosi e dirigenti sportivi. Essi possono entrare, in maniera più o meno consapevole, anche nelle parole di illustri intellettuali, commentatori o giornalisti sportivi. Un caso in parola è sicuramente quello delle “considerazioni etniche” di uno dei maggiori giornalisti sportivi italiani: Gianni Brera (1919-1992).
Se leggiamo la sua Storia critica del calcio italiano (Baldini & Castoldi, Milano, 1998), ci ritroveremo di fronte a un numero piuttosto nutrito di osservazioni che oggi giudicheremmo senz’altro “razziste”, ma che, quando furono formulate, erano sostanzialmente senso comune. Eccone alcune:
«[…] non stupisce che il calcio tecnicamente più valido si giochi ad Alessandria, dove l’ibridazione etnica è più recente, e anche a occhio nudo è possibile rilevare una maggiore aitanza della gente comune» (p. 41).
«Piola nasce in Lomellina, punto d’incontro di tre razze: liguri, celti, germano-lombardi. È un atleta splendido […]» (p. 153).
«Ferrari: alessandrino (vedi considerazioni etniche su Piola, con rinsanguimenti lombardi abbastanza recenti). Normotipo di larga cassetta e solide gambe […]» (p. 154).
«Il divario tecnico fra nord e sud è mortificante per i meridionali, rimasti legati a pigri metodi di allenamento e a moduli tuttora incerti fra il metodo e il sistema» (p. 190).
«E poi durante l’incontro è piovuto. Noi sahariani, quando piove, siamo fritti. Da noi, come è noto, a novembre fioriscono le margherite del deserto e gli asfodeli» (p. 192).
«[…] Guttmann, astuto ebreo ungherese […]» (p. 258).
«[…] gli irlandesi sono del nostro sanguaccio […] e non sono tanto paciosi da lasciargli veder le partite in stadi senza reti di cinta» (p. 283).
«[In occasione di un Italia-Portogallo a San Siro giocato tra la nebbia e il freddo] La nebbia è fitta e quasi non si vedono le porte. Qualche buon negraccio della nazionale portoghese si abbranca ai caloriferi e non vorrebbe saperne di scendere in campo» (pp. 283-284).
«[A proposito degli argentini] anche la razza c’entra per qualcosa: gli argentini sono presuntuosi fino al masochismo: ritenendosi superiori a tutti, non si sono mai degnati di studiare un modulo tattico adatto ai loro mezzi reali» (p. 283).
[Brera incontra Helenio Herrera, neoallenatore dell’Inter nel 1960]: «Mi limito ad avvertirlo, per il bene dell’Inter (mais oui), che tutte le grandi squadre italiane praticano il catenaccio: e che se non vuol andare incontro a brutte sorprese dovrà anche lui decidersi. Gli parlo di deficienti qualità razziali; scuote il capo e garantisce che è solo questione di allenamenti. Bene, quand’è così, buona fortuna» (pp. 301-302).
[A proposito di Italia-Brasile, finale del campionato mondiale del 1970]: «E dire che mi aiutano i manuali di etnologia e di psicologia razziale ad essere ottimista per la finalissima. Quali errori commetto per mera presunzione euro-nazionalistica! Sono quasi tutti negri, mi dico dei brasiliani: vuoi mettere il nerbo dei nostri punteros lombardi, il fondo atletico di Bergheim Domenghini, il brio di Mazzola, la calma di De Sisti, il piglio agonistico di Bertini (quante gliene ha fatte a Seeler!), la classe di Burgnich, di Facchetti, a dispetto dell’altura, la grinta di Rosato, l’eleganza di Cera?! I negri brasiliani sono animule delicate, gente capace di danzare su un francobollo ma poco portata a lottare, e come si emozionano, poverini; come temono gli scarponi puntuti dei colleghi europei!» (p. 402).
«Purtroppo non è che i mediterranei vadano famosi per le loro qualità muscolari e propriamente atletiche. Sono di antica intelligenza e prontissima intuizione. Chi vuol indurre sull’avvenire del nostro calcio, può farlo rischiando poco. Il tachipsichismo dei meridionali non sembra fatto per esaltarne la tenacia nell’impegno e le virtù agonistiche.
Non serve dire che queste conclusioni, per vero inficiate dall’ancor breve durata del fenomeno, vengono prese a comodo pretesto dai demagoghi. Parlare di razze è peccato come disquisire, quattro secoli or sono, di protesta religiosa. Gli uomini sono tutti eguali ma… si differenziano per l’ambiente. Che è ovvio come dire: questa è una manciata di soldi tutti buoni: solo che in essa figurano monetine di rame e altre, non piccole, di metalli preziosi» (pp. 435-436).
Brera era un fiero sostenitore del catenaccio su base etnica. A suo avviso, questo metodo di gioco si conformava perfettamente alla tipologia razziale degli italiani. Qualsiasi altro metodo sarebbe stato inadeguato. Non lesinava, inoltre, giudizi sprezzanti o sarcastici su questa o quella squadra di calcio etichettata come inferiore o ridicola in ragione del colore della pelle. È vero che i suoi giudizi sono talora sfumati o ironici. Resta il fatto che molte sue “considerazioni” sarebbero oggi irripetibili ed esporrebbero chiunque a un profondo biasimo. Del resto nessuno oggi darebbe credito a una “psicologia etnica”. Forse neppure Gianni Brera.
Cito, a memoria, l’incipit del suo articolo sulla finale persa dall’Italia contro il Brasile nel 1970: “I Brasiliani, essendo quasi tutti negri, hanno cominciato la partita in preda a un evidente inferiority complex”. Conclusione implicita per me: e noi siamo riusciti a perdere contro una banda di negri!
Spesso citava con compiacimento i giocatori argentini, tutti bianchi, che, quando giocavano con i brasiliani, intimavano loro: “Dejame la pelota, negro!”.
Da leggere anche l’articolo di presentazione del match Benvenuti – Griffith per il titolo
mondiale del 1968, prosa infarcita di un razzismo alluvionale.
Da ridere la sua competenza in “psicologia razziale”, titolo continuamente rivendicato,
grazie a studi accademici, dico io, compiuti nell’università fascista dei suoi tempi.