Può la maleducazione essere spiegata in termini sociologici? Ci sono ruoli sociali che favoriscono comportamenti arroganti? O la maleducazione è una caratteristica che riguarda esclusivamente la singola personalità?
Un interessante articolo di Nathanael J. Fast, Nir Halevy e Adam D. Galinsky (2012) suggerisce che ruoli di potere, in cui cioè si ha diritto a esercitare un certo livello di autorità, associati a un basso status, ossia uno scarso livello di rispetto e riconoscimento, possono generare comportamenti irriguardosi e di disprezzo nei confronti degli altri.
Potere vuol dire esercitare un qualche tipo di controllo – spiegano i tre autori – mentre lo status si riferisce all’ammirazione e al rispetto associati al potere. Quando manca lo status, si tende a non sentirsi rispettati e ad agire negativamente.
La mancanza di status, per definizione, fa sentire le persone prive di rispetto e poco apprezzate, il che può innescare comportamenti compensatori aggressivi volti ad aumentare l’autostima. Il potere è anche collegato a tendenze degradanti e aggressive: più potere si ha, più aumentano i comportamenti degradanti. Il potere aumenta la tendenza a denigrare o comunque danneggiare gli altri.
Il potere promuove un comportamento egoistico, favorisce la sensazione di essere privilegiati e il perseguimento di ricompense e obiettivi. Al contrario, gli individui senza potere si sentono inibiti.
Date queste premesse, la tesi dei tre autori è che gli individui che non possiedono status ma possiedono potere, per quanto limitato, possono agire in base al risentimento suscitato dal sentirsi non rispettati maltrattando gli altri. Vale a dire, gli effetti di facilitazione dell’azione derivanti dal possesso di potere si associano all’esperienza minacciosa della mancanza di status e ciò fa sì che i detentori di potere con basso status siano particolarmente propensi a umiliare gli altri.
Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti: la guardia di sicurezza all’aeroporto che sbraita ordini ai viaggiatori, l’impiegato del Comune che rimprovera aspramente il cittadino confuso per essere entrato nell’ufficio sbagliato, lo steward dell’evento sportivo che si rivolge in maniera rude agli spettatori, il vigilante del grande centro commerciale che indispettisce i clienti con i suoi modi prepotenti.
L’esempio più clamoroso riguarda probabilmente le estreme violazioni dei diritti umani che si verificarono dopo il marzo 2003 nella prigione di Abu Ghraib, in Iraq, allorché soldati statunitensi di basso rango che si sentivano poco rispettati perfino dai prigionieri si abbandonarono a torture disumane di decine di essi, dando vita a uno degli episodi di crudeltà da parte di militari più scandalosi che la storia ricordi.
Il messaggio di Fast, Halevy e Galinsky sembra chiaro: se il potere è da temere, ancora più temibile è il potere senza status. Il soldato di infimo rango incute più sgomento dell’alto comandante, l’operatore socioassistenziale può essere più arrogante del primario dell’ospedale, il collaboratore scolastico più impertinente del dirigente scolastico, la guardia carceraria più pericolosa del direttore dell’istituto penitenziario.
L’esperienza di tutti i giorni conferma questa possibilità, sebbene il potere assoluto sia in grado di alterare la psicologia umana fino a pervertirla in maniera disgustosa.
Riferimento:
Nathanael J. Fast, Nir Halevy, Adam D. Galinsky, 2012, “The destructive nature of power without status”, Journal of Experimental Social Psychology, vol. 48, pp. 391–394.