Il termine fisso è un romanzo distopico pubblicato nel 1882 da Anthony Trollope (1815 – 1882), prolifico autore inglese dell’epoca vittoriana. La storia è ambientata nel 1980 nell’immaginaria Repubblica di Britannula, presieduta da John Neverbend. In questa repubblica, a ogni bambino appena partorito viene tatuato il giorno della sua nascita per ricordargli che, di lì a sessantasei anni la sua vita sarà soppressa per legge. L’idea fondamentale del Termine fisso è, infatti, che i legislatori di Britannula hanno introdotto una forma di eutanasia obbligatoria allo scopo di abolire le miserie, la debolezza e l’imbecillità connesse alla vecchiaia e liberare la società dall’oneroso carico assistenziale necessario a sostenere in vita gli anziani.
Per facilitare l’esecuzione di tale norma, la struttura di Britannula è incentrata su una forte retorica eufemistica: all’approssimarsi dell’età “mortale” l’individuo viene «depositato» («deposited») in un «collegio». La deposizione non è altro che una forma di reclusione prima dell’esecuzione, a sua volta chiamata «dipartita» («departure»). Il «collegio», situato nella città di Necropoli, è il luogo deputato a ospitare per un anno il candidato all’eutanasia (termine che compare solo due volte nel testo) e ha la funzione di insegnare all’anziano ad affrontare una «buona morte» imposta per una giusta causa, quella del bene comune.
Convinto assertore della “dottrina del termine fisso” è il presidente di Britannula John Neverbend, il quale, fedele al suo cognome, che in italiano vuol dire “Non mi piego”, asserisce la piena liceità della pratica per il bene della società e si paragona ripetutamente a Cristoforo Colombo e Galileo Galilei per legittimare la sua convinzione. L’assunto di fondo dei “terminefissisti” come Neverbend è che la vita dopo i sessantotto anni non sia altro che “vanità e vessazione dello spirito” e che, per questo, debba essere troncata inflessibilmente.
Non è difficile scorgere nei discorsi dei membri della società distopica di Trollope argomentazioni simili a quelle di alcuni “ageisti pandemici” contemporanei. Per questi non vale la pena adottare misure di prevenzione della Sars-Cov-2 per salvare “quattro vecchi che comunque moriranno” e la società non dovrebbe essere costretta ad autoconfinarsi e a indebolire la propria struttura economica e produttiva “solo” per risparmiare la vita degli anziani. Insomma, gli “ageisti pandemici” sarebbero favorevoli alla “buona morte” dei loro vecchi pur di salvaguardare la vita dei giovani e del ceto produttivo. Anche per loro dovrebbe essere instaurato un “termine fisso”, stabilito dal virus, per sollevare la società da oneri di assistenza che non può permettersi.
L’ageismo pandemico di questo periodo ha reso lecito per alcuni introdurre argomentazioni favorevoli all’eutanasia che ritenevamo superate ed è la dimostrazione che talvolta le distopie più improbabili hanno possibilità di avverarsi, tracimando dalla fiction alla realtà.